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Cresce lo stress da lavoro

Ansia da prestazione, agitazione, nervosismo sono sensazioni che colpiscono il 40% degli italiani sul posto di lavoro. Disagi che nascono dallo stress, il secondo tra i problemi di salute legato all’attività lavorativa. Una tensione dovuta alla competizione, ai ritmi incalzanti, alla paura di sbagliare e per i tanti precari anche al timore di perdere il posto. Negli stati dell’Unione europea, lo stress da lavoro correlato colpisce quasi una persona su quattro e costa 25 miliardi di euro, anche perché più della metà delle giornate lavorative perse è dovuta a stress

Per sette lavoratori italiani su dieci italiani le cause più comuni di stress sono legate alla riorganizzazione del lavoro o al carico di lavoro e delle ore di lavoro. Dati allarmanti che emergono da uno studio del consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi, pubblicato nel libro Rischio stress lavoro correlato.

Emerge che oltre sei lavoratori italiani su dieci indicano fra le cause di stress anche la mancanza di sostegno da parte dei colleghi o superiori e comportamenti inaccettabili come il bullismo, le molestie o legano lo stress a ruoli e responsabilità poco chiare.

Fra le categorie più a rischio ci sono gli infermieri, gli addetti ai call center o agli uffici reclami, gli autotrasportatori. “Adottando il giusto approccio – spiega Giuseppe Luigi Palma, presidente del consiglio nazionale degli psicologi – i lavoratori e le aziende possono vincere la battaglia contro lo stress che, quando legato all’attività lavorativa, è prevenibile e l’azione condivisa volta a contenere tale problema può essere molto incisiva”. Il libro Rischio stress lavoro correlato  presenta un’ampia casistica sul tema. Circa la metà dei lavoratori in Europa (51%) ritiene che lo stress da lavoro sia comune nel proprio luogo di lavoro. Le lavoratrici sono più propense a considerarlo un fenomeno comune (54% contro il 49%). La percezione dello stress da lavoro varia anche a seconda del settore: il primo settore a indicare i casi di stress legato al lavoro come un fenomeno comune è quello sociosanitario (61%, compreso il 21% che ritiene che tali casi siano “molto comuni”).

La concentrazione nel tiro

Al seminario sull’allenamento mentale che si tiene mercoledì alla Scuola dello Sport, Coni, Roma,  Francesco D’Aniello, vincitore di due mondiali e argento a Pechino nel tiro a volo, parlerà della sua esperienza durante la finale olimpica che ha così riassunto:

<<Lo stress lo accumuli se pensi al risultato   …   nella finale olimpica sapevo che tutti mi guardavano   …   ma convogliavo la mente su quello che serviva   …   sapevo che il cinese mi aveva raggiunto e questo fattore mi poteva distruggere   …   qui se io faccio uno zero mi si mangia   …   Quando ho realizzato questo che non potevo più sbagliare mi sono concentrato solo sul mio gesto tecnico.>>

Il coraggio di avere paura di Nibali

Cosa è scattato nella testa di Nibali dopo la caduta sotto la pioggia al mondiale di ciclismo, perchè ha tirato i freni una volta risalito in bicicletta?

“Questo è un problema che hanno solo i più forti, non chi sta in mezzo al gruppo. E Nibali è un campione, non un cicloamatore: si è trovato in un momento di difficoltàstraordinario, uno di quei casi in cui uno più uno non fa due, fa tre. LO stress diventa eccessivo e ti porta a dubitare delle tue capacità. Ai suoi livelli basta un niente per non credere più a se stessi fino in fondo”.

Come si supera la paura di cadere?

“Non conosco la persona Nibali ma dovrebbe rivolgersi a uno psicologo, non un motivatore. Bisogna stabilire quale sia la misura del rischio, perchè di nuovo e non sai quando. L’atleta deve fare di tutto per ridurre l’sapetto emotivo, con gli atleti da podio bisogna lavorare sui particolari. Nibali non è come noi, è un atleta di livello assoluto: è come il primo violino della Scala che non può prendere una stecca”.

(Sono stato intervistato da Nando Aruffo, Corriere dello Sport)

Bisogna allenare la mente a gareggiare

Nonostante molti allenatori riconoscano il ruolo decisivo svolto dalla mente nel favorire/ostacolare le prestazioni sportive, ve ne sono ancora altrettanti che pensano che  le difficoltà mentali si superino allenandosi di più o partecipando a più gare. In genere chi la pensa in questo modo è convinto che a un certo punto l’atleta si sbloccherà e comincerà per lui/lei una nuova fase vincente della carriera. In sintesi, bisogna gareggiare, fare esperienza e poi vinto il primo torneo le cose si sistemeranno. Incontro molti atleti/e che mi raccontano storie di questo tipo ma con un risultato diverso e negativo, hanno ancora gli stessi problemi e queste difficoltà incidono sempre di più nel demolire la fiducia in se stessi. Dicono che si allenano bene e poi vanno in gara e ripetono sempre gli stessi errori. Devo allora spiegare ciò che ho ripetuto centinaia di volte e cioè che possedere la tecnica (quale che sia lo sport) non vuole dire sapere gareggiare, che è una cosa completamente diversa. Quando questi atleti/e diventano consapevoli di questa differenza, in genere si tranquillizzano e a questo punto si può spiegare loro che seguire un programma di mental coaching è proprio utile per imparare a guidare la propria mente in gara.

Si migliora solo attraverso le difficoltà

Pensiero del giorno

Le gare si fanno per sfidare se stessi a superare i momenti di difficoltà che inevitabilmente vi sono in ogni competizione. Chi vuole sfuggire a questa sfida non amplierà mai i suoi limiti.

Quando è motivante un dialogo negativo con se stessi

A 35 anni Tommy Haas è il più vecchio tennista del US Open. Come riesce un giocatore di questa età a mantenere un approccio mentale efficace tanto da essere ancora 13 al mondo? Un video del 2007 durante i quarti di finale all’Australian Open, ci apre una finestra sui suoi pensieri in un momento di difficoltà. Infatti il video mostra il dialogo con se stesso di Tommy Haas   durante una pausa di gioco, Dialogo prevalentemente negativo e offensivo verso se stesso ma che contiene qualche affermazione positiva quasi esclusivamente centrata sul risultato da ottenere  (non andare a rete, puoi vincere, vincerai la partita, non puoi perderla, lotta). In questo caso, il sistema che Haas ha usato con se stesso è stato utile poichè vinse quella partita. Spesso noi psicologi dello sport sottolineiamo l’importanza di avere un dialogo positivo con se stessi, centrato non sul risultato da ottenere ma sulle azioni da svolgere. Nonostante sia importante insegnare questo approccio positivo ai giovani,  nel mio lavoro ho incontrato molte situazioni in cui il dialogo negativo è servito da spinta motivazionale a fornire la prestazione migliore di cui si era capaci. Ho incontrato atleti che nella pausa tra diverse prove passavano lunghi minuti a insultarsi come Haas e poi a un certo punto chiedevano “Dimmi qualcosa di positivo” e alcune volte ho parlato dei sacrifici che avevavno fatto per arrivare a quel punto e altre volte degli ostacoli e delle gare che avevano vinto per essere lì, a quel punto cambiavano atteggiamento e dicevano “Adesso vado e lo faccio” piuttosto che “Ok darò il massimo”.  Quasi sempre sono stati di parola.

 

Gli errori degli arbitri

Inizia una nuova stagione agonistica, nel calcio come per gli altri sport di squadra, e gli arbitri svolgono un ruolo indispensabile per il corretto svolgimento del campionato. Ai direttori di gara non piace sentirsi dire che possono commettere errori per eccesso di arroganza personale e per eccesso di subordinazione nei confronti di squadre e giocatori. Non sto a parlare di incompetenza tecnica, perchè in questo caso lo sbaglio non è tanto dell’arbitro che mostra questa difficoltà, quanto piuttosto di chi lo ha designato per quella partita. Al contrario, anche l’arbitro internazionale più esperto può commettere errori dovuti a un eccesso di volontà d’imporsi o viceversa dovuti a una cautela eccessiva nei riguardi della squadra di casa, di quella più famosa o dei giocatori più importanti. Errori di presunzione o di soggezione nei confronti degli avversari si manifestano anche nelle squadre di alto livello, fanno parte di quei comportamenti in cui chiunque può cadere quando la tensione agonistica è molto intensa. La classe arbitrale e i suoi dirigenti non dovrebbero quindi negare errori di questo tipo, perchè possono manifestarsi anche nelle persone più competenti. Al contrario gli arbitri dovrebbero essere allenati a riconoscere quando questi atteggiamenti iniziano a manifestarsi nei loro comportamenti sul campo, così da correggerli immediatamente. Una regola che vorrei trasmettere agli arbitri è quella di non negare mai a se stessi un momento di difficoltà ma invece di riconoscerlo il prima possibile e cambiare il proprio comportamento in modo positivo.

Inizia il campionato di calcio: vince chi gestisce meglio le emozioni

Inizia una nuova stagione di calcio, quest’anno ancora più importante perché si concluderà con la coppa del mondo in Brasile. Vi è quindi un’ulteriore ragione per i calciatori a voler giocare al proprio meglio, con l’obiettivo di rientrare tra i 22 convocati per il mondiale sudamericano. In ogni caso, ciascuna squadra avrà la sua meta da raggiungere: per qualcuna sarà non retrocedere, per altre entrare in zona UEFA o confermare il risultato della stagione  precedente,  per altre ancora sarà vincere il campionato o entrare in Champions League. Al di là del livello tecnico-tattico posseduto, ogni squadra potrà mostrare il proprio valore solo se i giocatori in campo, la panchina, l’allenatore e il presidente dimostreranno un livello elevato di controllo emotivo. La gestione dello stress agonistico riguarderà tutti, nessuno  escluso.  Siamo stati spesso campioni di stress. Abbiamo il record di allenatori licenziati durante il campionato da presidenti  che non sanno contenere le proprie paure o il proprio narcisismo ferito anche da pochi risultati negativi. Siamo anche un campionato in cui si commettono troppi falli e non è vero che i calciatori non saprebbero evitarli, perché quando giocano a livello europeo ne commettono molti di meno. In Italia si sentono più liberi di non rispettare le regole, protetti da tifosi, presidenti e allenatori sempre pronti ad attribuire la colpa agli arbitri, a una congiura contro la loro squadra o al non avere capito che il calcio prevede il contrasto fisico. Gli allenatori sapendo che metà di loro durante il campionato sarà esonerato dall’incarico rischiano di vivere in modo drammatico i risultati negativi della loro squadra,  per molti si tratta di un lavoro a termine, certamente molto ben remunerato, ma rischioso come salire un ottomila di cui si conosce il numero di vittime che miete ogni anno. Nonostante queste incertezze è però assolutamente necessario che i protagonisti del calcio sappiano mantenere il sangue freddo, ricordando a se stessi gli obiettivi della squadra e come raggiungerli. Autocontrollo, gestione efficace dello stress, aggressività leale e rispettosa dell’avversario devono essere alla base dei comportamenti sul campo; in altre parole vuol dire sapere gestire le proprie emozioni in un contesto, la partita, che è invece una situazione altamente emotiva. Quindi le squadre devono vivere per 90 minuti questa condizione mentale mostrandosi capaci di gestirla con efficacia. Questa è a mio parere la sfida che ogni squadra  deve prepararsi ad affrontare e vincere ogni giornata del campionato, oltre al risultato finale dell’incontro.

Leggilo su:  http://www.huffingtonpost.it/../../alberto-cei/al-via-la-serie-a-una-sfida-alle-emozioni_b_3805629.html

Mai pensare che l’avversario è più forte, soprattutto se è vero

Mai pensare che l’avversario è più forte, soprattutto se è vero. E’ come guidare con il freno tirato su una strada in salita. Lo faresti mai?