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Chi deve allenare i giovani a gestire le emozioni?

E’ vero che “si può vincere perdendo se dai tutto te stesso”. E’ un concetto chiave per lo sviluppo di un atleta e dovrebbe venire insegnato sino dal primo giorno che un bambino o una bambina entrano su un campo da gioco. Al contrario si vedono giovani che appena commettono un errore si arrabbiano con se stessi o si deprimono. Sappiamo che ciò succede per la congiunzione di motivi diversi:

  • i genitori spesso non riconoscono il valore dell’impegno e pensano che conti solo vincere, pertanto si arrabbiano con i figli per gli errori commessi e vorrebbero sostituirsi all’allenatore per dargli indicazioni tecniche,
  • gli allenatori sono più concentrati a insegnare la tecnica e non allenano emotivamente gli atleti,
  • i giovani stessi non sono capaci a esprimere le loro emozioni in modo costruttivo e mancano di auto-controllo.
  • i social media spingono con ossessione verso modelli di successo falsi ma che attraggono i giovani (bellezza, forma fisica, successo in se corrispondi alle regole che propongono influencer)

E così si vedono giovani tennisti che sbattono la racchetta a terra dopo un errore alternando stati d’animo di rabbia e depressione contro di sé o in altri sport commesso un errore ne conseguono quasi rapidamente altri, perché negli atleti domina la frustrazione dovuta dal primo sbaglio.  Per cambiare questo modo di vivere le sconfitte e gli errori servono genitori e allenatori più consapevoli che il loro ruolo prevede anche l’insegnamento dell’auto-controllo, lavorando con i propri figli e atleti per modificare questi comportamenti distruttivi.

Non bisogna di certo imporre le nostre soluzioni di adulti ai loro problemi. Bisogna ascoltare in modo empatico e non per giudicare, così che i giovani si sentano sostenuti e rispettati nei loro stati d’animo. Solo dopo questa fase si dovrebbe iniziare a parlare di cosa si potrebbe fare di diverso, dando tempo ai ragazzi di esprimere le loro idee e a noi di stimolare la loro consapevolezza nei riguardi del loro modo di agire e d’identificare le possibili soluzioni. Agire in questo modo richiede tempo e spesso è per questa ragione che gli adulti non seguono questa strada.

Bisogna però essere consapevoli che se spesso si rinuncia a intervenire, i giovani cominceranno a pensare che le loro reazioni non interessano a genitori e allenatori e, peggio ancora, continueranno a comportarsi con se stessi in modo negativo e a seguire i modelli degli influencer. Se vogliamo che i nostri ragazzi sviluppino l’abilità di gestire con efficacia e soddisfazione i loro stress quotidiani dobbiamo spendere del tempo a insegnare loro come comportarsi, sentire e pensare in quei momenti.

Allenare emotivamente i giovani

Simeone, allenatore dell’Atletico Madrid, ha detto che “si può vincere perdendo se dai tutto te stesso”. E’ un concetto chiave per lo sviluppo di un atleta e dovrebbe venire insegnato sino dal primo giorno che un bambino o una bambina entrano su un campo da gioco. Al contrario si vedono giovani che appena commettono un errore si arrabbiano con se stessi o si deprimono. Sappiamo che ciò succede per la congiunzione di motivi diversi:

  • i genitori spesso non riconoscono il valore dell’impegno e pensano che conti solo vincere, pertanto si arrabbiano con i figli per gli errori commessi e vorrebbero sostituirsi all’allenatore per dargli indicazioni tecniche,
  • gli allenatori sono più concentrati a insegnare la tecnica e non allenano emotivamente gli atleti,
  • i giovani stessi non sono capaci a esprimere le loro emozioni in modo costruttivo e mancano di auto-controllo.

E così si vedono giovani tennisti che sbattono la racchetta a terra dopo un errore alternando stati d’animo di rabbia e depressione contro di sé o in altri sport commesso un errore ne conseguono quasi rapidamente altri, perché negli atleti domina la frustrazione dovuta dal primo sbaglio.  Per cambiare questo modo di vivere le sconfitte e gli errori servono genitori e allenatori più consapevoli che il loro ruolo prevede anche l’insegnamento dell’auto-controllo, lavorando con i propri figli e atleti per modificare questi comportamenti distruttivi.

Non bisogna di certo imporre le nostre soluzioni di adulti ai loro problemi. Bisogna ascoltare in modo empatico e non per giudicare, così che i giovani si sentano sostenuti e rispettati nei loro stati d’animo. Solo dopo questa fase si dovrebbe iniziare a parlare di cosa si potrebbe fare di diverso, dando tempo ai ragazzi di esprimere le loro idee e a noi di stimolare la loro consapevolezza nei riguardi del loro modo di agire e d’identificare le possibili soluzioni. Agire in questo modo richiede tempo e spesso è per questa ragione che gli adulti non seguono questa strada.

Bisogna però essere consapevoli che se spesso si rinuncia a intervenire, i giovani cominceranno a pensare che le loro reazioni non interessano a genitori e allenatori e, peggio ancora, continueranno a comportarsi con se stessi in modo negativo. Se vogliamo che i nostri ragazzi sviluppino l’abilità di gestire con efficacia e soddisfazione i loro stress quotidiani dobbiamo spendere del tempo a insegnare loro come comportarsi, sentire e pensare in quei momenti.

Lo sport è emozione: insegnamo a viverle bene

Lo sport è un’attività emozionante per il ragazzo che deve fare la prima gara dopo un periodo di preparazione e già si chiede come andrà, mettendo le mani avanti chiedendosi come andrà  a finire, visto che è passato un po’ di tempo dall’ultima. Lo è anche per Modici e Neymar, i simboli di due squadre, la Croazia e il Brasile, che sono a giunte ai rigori per decidere chi passava il turno. Al termine, tutti a piangere chi di gioia e chi per il dispiacere.

Lo sport genera con facilità emozioni, tanto da considerare lo stress che determina come un privilegio. Sono emozioni che non nascono da guerre, disastri o fatti negativi ma dal sentirsi impegnati in qualcosa che piace fare. Lo sport è passione, che alcuni riescono a trasformare in un lavoro, senza però che vengano accantonate le emozioni che determina in ogni persona, campione planetario o giovane che vuole divertirsi.

Lo sport è collegato al benessere, quindi, permette lo sviluppo di molte abilità psicologiche e sociali che dovrebbero arricchire la vita quotidiana e non solo quella sportiva di una persona. Per realizzare questo scopo, lo sport si deve basare sui valori universali del rispetto dell’altro e delle regole, altrimenti diventa truffa o ricerca di scorciatoie per raggiungere il successo.

Ai giovani bisogna insegnare il valore delle emozioni, spiegargli che accompagnano ogni nostro pensiero e azione. Che non è sbagliato essere delusi o arrabbiarsi per una gara andata male, anzi le emozioni negative sono una dimostrazione del nostro interesse verso quell’attività. Dobbiamo però anche insegnargli a vivere le loro passioni e le delusioni in modo costruttivo. Insegnare loro che quando noi adulti diciamo che è dagli errori che s’impara, lo crediamo anche noi e non ci comportiamo invece nel nodo opposto, umiliandoli perchè sbagliano.

Gli insegnanti che sono i genitori, gli allenatori e gli psicologi devo fornire loro dei modi per gestire le difficoltà che incontrano e non lasciarli, invece, soli nel capire quello che è successo e nel trovare delle soluzioni.

 

Allenare emotivamente i giovani

Simeone, l’allenatore dell’Atletico Madrid, dopo la finale di Champions League persa ha dichiarato che “si può vincere perdendo se dai tutto te stesso”. E’ un concetto chiave per lo sviluppo di un atleta e dovrebbe venire insegnato sino dal primo giorno che un bambino o una bambina entrano su un campo da gioco. Al contrario si vedono giovani che appena commettono un errore si arrabbiano con se stessi o si deprimono. Sappiamo che ciò succede per la congiunzione di motivi diversi:

  • i genitori spesso non riconoscono il valore dell’impegno e pensano che conti solo vincere, pertanto si arrabbiano con i figli per gli errori commessi e vorrebbero sostituirsi all’allenatore per dargli indicazioni tecniche,
  • gli allenatori sono più concentrati a insegnare la tecnica e non allenano emotivamente gli atleti,
  • i giovani stessi non sono capaci a esprimere le loro emozioni in modo costruttivo e mancano di auto-controllo.

E così si vedono giovani tennisti che sbattono la racchetta a terra dopo un errore alternando stati d’animo di rabbia e depressione contro di sé o in altri sport commesso un errore ne conseguono quasi rapidamente altri, perché negli atleti domina la frustrazione dovuta dal primo sbaglio.  Per cambiare questo modo di vivere le sconfitte e gli errori servono genitori e allenatori più consapevoli che il loro ruolo prevede anche l’insegnamento dell’auto-controllo, lavorando con i propri figli e atleti per modificare questi comportamenti distruttivi. Non bisogna di certo imporre le nostre soluzioni di adulti ai loro problemi.

Bisogna ascoltare in modo empatico e non per giudicare, così che i giovani si sentano sostenuti e rispettati nei loro stati d’animo. Solo dopo questa fase si dovrebbe iniziare a parlare di cosa si potrebbe fare di diverso, dando tempo ai ragazzi di esprimere le loro idee e a noi di stimolare la loro consapevolezza nei riguardi del loro modo di agire e d’identificare le possibili soluzioni. Agire in questo modo richiede tempo e spesso è per questa ragione che gli adulti non seguono questa strada. Bisogna però essere consapevoli che se spesso si rinuncia a intervenire, i giovani cominceranno a pensare che le loro reazioni non interessano a genitori e allenatori e, peggio ancora, continueranno a comportarsi con se stessi in modo negativo. Se vogliamo che i nostri ragazzi sviluppino l’abilità di gestire con efficacia e soddisfazione i loro stress quotidiani dobbiamo spendere del tempo a insegnare loro come comportarsi, sentire e pensare in quei momenti.

Emozioni e pensiero: il gioco mentale di Napoli-Inter

Le partite sono spesso dominate dalle emozioni che vivono le due squadre e la prossima sfida di campionato fra Napoli e Inter sarà certamente fra queste. L’Inter metterà in campo la sua rabbia generata dalla sconfitta contro il Milan mentre il Napoli il suo entusiasmo prodotto da una serie di risultati molto positivi. Vincerà chi saprà interpretare meglio questi stati d’animo mettendoli al servizio del pensiero di squadra. Quali sono i rischi. Quando la rabbia non è gestita, non si trasforma in determinazione ma si esprime in azioni impulsive in cui ci si muove senza pensare, come un motore fuori giri che esprime la sua potenza in modo non controllato con il rischio di andare fuori strada. L’entusiasmo è un sentimento che si prova con piacere e sostiene l’ottimismo necessario per affrontare queste sfide. Il rischio è di affrontare la partita in modo superficiale, di mostrare un’eccessiva sicurezza verso di sé, riducendo così la capacità di rispondere alle situazioni di tensione agonistica e alla pressione esercitata dall’avversario. Sabato le emozioni saranno in campo e anche in panchina, e parteciperanno a determinare il risultato finale. Per esprimere il loro gioco, le squadre si dovranno servire di questi stati d’animo, che dovranno essere mantenuti sotto il controllo del pensiero, poiché quest’ultima capacità può integrare in pochi decimi di secondo l’energia generata dalle emozioni e la decisione su come giocare. Quindi, emozioni e pensiero sono le due parole chiave per interpretare quello che si vedrà in campo.

Le emozioni estreme di Djokovic

Novak Djokovicha vinto il Roland Garros:

Ringrazio il pubblico per la sua presenza. L’atmosfera era veramente elettrica, stupenda. Sono grato del fatto che il mio staff, i miei genitori, mia moglie potessero essere qui. Penso alle ultime 9 ore di tennis contro due grandi campioni come Nadal e Tsitsipas, non è stato facile né fisicamente né mentalmente. Sono stati giorni davvero durissimi, davvero indimenticabili. Ho avuto grande fiducia in me stesso e nelle mie capacità. È un sogno che si è realizzato ancora una volta”.

Un piacere essere qui. Immagino cosa stia provando Stefanos, so com’è difficile sentirsi quando si perde una finale di uno Slam. Sono le partite in cui impari di più, e conoscendo lui ed il suo team so che sarà più forte dopo questa partita. Sono sicuro che vincerà tanti tornei dello Slam in futuro, ho grande rispetto per lui. Il futuro del tennis è in buone mani in Grecia”.

Le parole di Djokovic dicono di quanto stress vi sia dietro queste vittorie anche in chi è abituato a questi successi ed è il n.1  del ranking mondiale.

Anche se sei un vincente seriale, le emozioni non ti lasciano mai e questa volontà di volere continuare a vivere queste situazioni emotivamente estreme anche dopo anni di successi è un’ulteriore dimostrazione del valore di questo tipo di atleti. Qualcuno la chiamerebbe resilienza, a cui aggiungerei la parola estrema.

 

Come allenarsi mentalmente in questa nuova fase di lockdown

Ci troviamo di nuovo a vivere un periodo di difficoltà ad allenarsi e a fare gare, inoltre per molti sport queste opportunità sono state totalmente annullate e gli atleti sono a casa o al massimo nei parchi ad allenarsi solo fisicamente.

Questa situazione genera preoccupazione e angoscia in tutti e negli atleti l’assenza della loro attività e delle competizioni crea ancora di più emozioni negative. Si rischia così di credere che non ci sia altro da fare che subire il presente e aspettare!

Non c’è errore più grande che pensare in questo modo. Da soli però è difficile reagire a questi pensieri che s’insinuano nella mente.

Per questa ragione ho costruito un sistema di allenamento mentale per ritrovare la fiducia e il controllo dei pensieri e delle emozioni. E’ un sistema pratico, composto da esercizi che migliorano l’auto-controllo personale. certamente richiede tempo, 30 minuti ogni giorno, ma è un allenamento e i risultati come per ogni altra abilità si ottengono solo con la pratica quotidiana.

Chi vuole ricevere più informazioni su questo sistema, sulla sua durata, attività da svolgere e risultati raggiungibili può scrivere a questo blog e sarà contattato.

Suggerisco di astenersi a quelli che pensano che sarà facile e non richiede tempo.

Recensione libro: Les champions et leurs émotions

Hubert Ripoll

Les champions et leurs émotions: Comprendre la maîtrise de soi 

Editions Payot & Rivages, Paris, 2019.

Spesso mi viene chiesto – soprattutto dai giornalisti – cosa penso sia meglio per descrivere un campione. All’inizio questa domanda mi lasciava piuttosto impotente, perché non riuscivo a trovare una spiegazione soddisfacente. Poiché il successo sportivo è multifattoriale, dire che diventare campione è il risultato della soluzione di un’equazione multifattoriale, e che questi fattori interagenti – non si può isolare nessuno di essi – non hanno soddisfatto coloro che, in generale, sognano di contenere in un unico titolo ciò che si è voluto dimostrare in una vita di ricerca. Non so in quali circostanze queste poche parole mi siano trapelate tra le labbra: “Resisti per continuare”. “Questo non sembrava esagerato, né da razzista, ma ovvio. È questa testardaggine da sopportare che è il comune denominatore di tutti i campioni che ho incontrato e che riflette al meglio il loro lungo viaggio verso l’Olimpo. Qualche tempo dopo, ho completato l’espressione con: “E forse riuscire”, nel senso che l’esito del viaggio non è mai garantito a chi lo intraprende, e che il successo dipende più dal percorso che lo conduce che dalla volontà deliberata di raggiungerlo. Così ho proposto la dichiarazione “Resistere per continuare e forse avere successo” e ho chiesto commenti in merito. Le parole dei campioni fluivano liberamente.

“Resistere per continuare e forse avere successo”: mi piace. Perché è difficile. È difficile ogni giorno prendere un pugno in faccia, e quando hai perso, è un’immensa solitudine che senti la notte nella tua stanza. E nessuno può capire quello che si prova. È difficile indossarla tutti i giorni, sentirsi spezzati, rimettersi la maschera, ancora coperti di sudore della notte precedente. Quando ho sofferto così perché ho giocato con i miei limiti, quando mi sono trovato a sopportare quanto avrei potuto immaginare dopo vent’anni di scherma… ho sopportato! Ho sorpreso me stesso! Mi sono sorpreso da solo! Fantastico! E in gara, la vittoria dopo la sconfitta ha un sapore ancora migliore. “Hai visto come stavi ieri sera, è stata dura questa solitudine, impossibile addormentarsi dopo aver fatto di nuovo la partita, hai visto come sei stasera! Ieri piangevi a letto e ora ridi”. Sì! Proprio così! Sopportare per resistere, per far scoppiare il tappo dello champagne. “(Cecilia Berder)

“Resistere per continuare e forse avere successo”: questo potrebbe valere per la mia carriera, perché a guardarla, le mie vittorie sono arrivate molto tardi. Ho dovuto sopportare. Ho avuto non so quanti fallimenti e ho dovuto lavorare molto. Sì, ho dovuto sopportare per durare. ” (Siraba Dembélé)

“Resistere per continuare e forse riuscire”: non lasciarsi abbattere e lottare in tutti i momenti difficili di una carriera fatta di infortuni e sconfitte, ma sempre per alzarsi e toccare finalmente il proprio obiettivo. Il sapore della vittoria viene anche dal superamento di quei momenti difficili. Ho dovuto sopportare i carichi di allenamento, le partite… Ho capito subito che il successo non arriva senza allenamento. Questa era la visione di mio padre… sempre ad allenarsi, sempre a lavorare sodo. Mi sono allenato più di tutti gli altri. Resistere a sopportare era in formazione. Ho provato il piacere della sofferenza. “(Nikola Karabatic)

La sofferenza e il piacere non sono antinomici per uno sportivo destinato al massimo livello, perché fanno parte della sua vita quotidiana. C’è una forma di sofferenza nella formazione e un immenso piacere nel farlo. Quando si tocca il Graal, la sofferenza peggiore è solo il ricordo della determinazione con cui si è dovuto realizzare il proprio sogno, e la vittoria deposita un balsamo sulla sofferenza sopportata che la trasforma in un dolore squisito.

La vita di un atleta di alto livello è molto più difficile di quanto si possa immaginare. Chi cerca di soddisfare il proprio ego è in difficoltà, perché questa soddisfazione non sempre c’è e quando crede di averla, i suoi effetti sono effimeri. Sopportare è necessario perché la consacrazione è sempre alla fine della strada e sopportare è ovvio perché la strada è disseminata di insidie. Per quanto riguarda il “forse”, significa che il percorso è importante quanto il risultato e che nulla è meno sicuro che conoscerne la fine.

Ma come resistere, tanto la strada è favorevole allo scoraggiamento? Ci vuole una combinazione di immaginazione per risvegliare il desiderio, di emozione per sostenerlo e di razionalità per guidare la carrozza in sicurezza. Ma questi tre fattori sono difficili da conciliare per chi non è equilibrato. La pura immaginazione porta all’”irrealtà” e allo smarrimento. L’assoluto da solo conduce al rigore e all’ascetismo da cui sono assenti il piacere del fare e il godimento delle sensazioni. Pura razionalità vincolata in schemi concordati. La congiunzione dei tre fattori costituisce l’equazione vincente.

Questo è ciò che ci dicono questi campioni.

“Resistere per continuare e forse riuscire”: Resistere, sì, perché ci sono passaggi difficili. Sono sempre stato libero di fare le mie scelte e non mi sembra di aver fatto i sacrifici che accompagnano l’idea di durare. Sono stato guidato dalla passione e dalla ricerca dell’eccellenza. Se uno è nel sacrificio, il “forse riuscire” è troppo pesante da portare, perché il significato si basa solo sul successo. Ci troviamo in una logica di ritorno dell’investimento nel D-Day. ” (Stéphane Diagana)

“Resistere per continuare e forse avere successo” è una buona definizione di sport in generale. C’è una nozione di sacrificio e di periodi che sono difficili, come l’avere 20 anni, essere totalmente scollegati dalla gioventù e non sapere cosa succederà. Ma scegliendo il tuo percorso. Essere liberi nonostante tutto e mantenere quella libertà. Non è sempre facile perché la realtà si impone e bisogna tenere i piedi per terra, ma bisogna tracciare il proprio percorso, rendere la vita più personale, andare verso ciò che si ama. Gli elementi mi hanno reso saggio, mi hanno calmato, bisogna rispettarli se si vuole durare e durare ancora. ” (Aurélien Ducroz

“Resistere per continuare e forse riuscire”: è ovvio, per arrivare e rimanere al massimo livello. Ho sempre avuto obiettivi sempre più alti, e quando sono stata la prima, e non potevo sognare di fare meglio, ho sognato di essere ancora più forte di quella che ero stata. All’inizio della mia carriera sono stato spesso escluso da un tedesco che mi guardava dall’alto in basso perché ero il più giovane. Non ho mai smesso di volerlo battere e quella rivalità mi ha permesso di superare me stesso. Per sopportare questo, avevo bisogno di obiettivi. Non per avere successo, forse, ma per avere successo di sicuro. “(Damien Seguin)

Quando un atleta è in difficoltà e il suo motore sembra stanco, o quando le emozioni negative lo portano a scendere una brutta china, è necessario capire perché il meccanismo “resisti per durare” non funziona più, per poi ricollegarlo alla sua immaginazione e ai suoi valori. Una volta fatto questo, la strada verso l’assoluto diventa più chiara e la strada è sgombra.

Per durare nel tempo bisogna prendersi il proprio tempo, e se l’obiettivo primario non è quello di essere un campione, se lo si può permettere. Questo atteggiamento ci permette di assaporare il momento presente per il suo piacere e la sua emozione; una forma di filosofia di vita empirica che consiste nel vivere il presente qui e ora senza rimpiangere il passato o bruciare per conoscere il futuro.

“Diventare il numero uno troppo presto è un grande calvario. Cosa sarebbe successo se avessi vinto la prima finale? Avrei potuto pensare di aver raggiunto il mio obiettivo. Una benedizione sotto mentite spoglie, forse. Mi ha segnato per tutta la vita. “(Grégory Gaultier)

“Non avevo intenzione di diventare il numero uno, in primo luogo. E’ stato fatto gradualmente, passo dopo passo. Il mio obiettivo era quello di sfruttare ogni esperienza per essere migliore di prima. Questo è l’atteggiamento che mi ha portato alla vittoria e poi ai titoli. “(Mathieu Baumel)

“Non ho pensato di diventare un campione. Non ho calcolato nulla, ho solo colto le opportunità. Non mi sono mai posto un altro obiettivo se non quello di salire il gradino che mi stava davanti e lavorare per raggiungerlo. ” (Siraba Dembélé)

“I miei progressi sono stati abbastanza costanti e non mi è sembrato molto tempo. Probabilmente perché i Giochi non erano un sogno d’infanzia. Il mio corso si è costruito nel tempo, e ho fatto dei passi senza avere l’ambizione o il sogno infantile di essere un campione. Ho iniziato a sognare i Giochi Olimpici quando sono entrato nella squadra francese nel 2006, quando ho preso la mia prima quota per i Giochi. “(Charline Picon)

“I miei progressi sono stati costanti, nonostante i piccoli difetti e le piccole ferite. Ho appena avuto un arresto da giovane, a causa di un problema di crescita. Questa progressione regolare e naturale è stata un’occasione, mi ha aiutato. Non ricordo di aver voluto diventare campione di sci. Anche se mia madre mi dice che all’età di 7 anni gliel’ho detto. Ma non me lo ricordo. Ogni passo mi ha aiutato ad andare avanti in questo modo, ma come logica continuazione. Non ho calcolato la mia carriera, sono andato avanti senza proiettarmi, fino a quando mi sono ritrovato all’inizio di un Mondiale. E anche allora non me ne rendevo conto. E’ stato quando ho vinto alcune gare nazionali che, non potendo andare più in alto, ho iniziato a voler diventare un campione. È stato allora che ho sentito la pressione. “(Tessa Worley)

I campioni dello sport sono in un’insaziabile ricerca di progresso. Qual è il significato di questa ricerca? È solo perché il progresso si sta avvicinando all’obiettivo? Non solo. Altrimenti conterebbe solo il risultato. È necessario ma non sufficiente. Il progresso è fonte di realizzazione e l’approccio è interiore, permette di avvicinarsi ai propri limiti, e poiché questi limiti sono indefinibili, il progresso permette di tendere verso l’assoluto che prende la sua fonte nell’immaginazione.

Il progresso, il desiderio e il piacere sono collegati. Senza progresso, il desiderio e il piacere svaniscono.

Come deve gestire le sue emozioni un allenatore?

Una domanda da un allenatore. Gestire le proprie emozioni… come fare?
Primo riconoscerle poi lavorarci su. Può essere utile un confronto con altri istruttori colleghi di palestra che ci possono aiutare con una visione esterna, obiettiva, delle nostre reazioni emotive?
Un piano d’azione in 6 punti:
  1. Il confronto con colleghi su come loro gestiscono delusioni piuttosto che entusiasmi è utile.
  2. Decisivo è accettare ciò che sentiamo in quel momento, anche se non ci piace
  3. Valutare solo in nostro comportamento in quella situazione e mai allargarla alla persona in termini globali
  4. Riflettere su modi alternativi di reazione all’evento per cui ci siamo, ad esempio, arrabbiati
  5. Decidere come comportarsi la prossima volta che ripresenterà una situazione analoga
  6. L’uso della respirazione addominale, prestando attenzione soprattutto ad allungare la fase di espirazione (contando sino 7), può essere utile per ritrovare l’autocontrollo

Mindfulness può ridurre il burnout

Chunxiao Li et al., (2019).Mindfulness and Athlete Burnout: A Systematic Review and Meta-Analysis. Int. J. Environ. Res. Public Health 2019, 16(3), 449.

L’obiettivo di questa rassegna è d’identificare, valutare e sintetizzare gli studi relativi alla relazione tra mindfulness e burnout fra gli atleti e gli effetti di interventi di mindfulness sul burnout. Poche variabili sono state identificate per spiegare questo tipo di relazione.

Gustafsson et al. (2015) hanno messo in luce un effetto indiretto della mindfulness sul burnout attraverso sua influenza sulle emozioni positive/negative. Quelle negative sono state viste come indicatori della propensione al burnout (Lemyre et al. 2006) laddove la mindfulness probabilmente previene dal burnout attraverso la regolazione delle emozioni. Zhang e colleghi (2016) hanno proposto un altro meccanismo regolatore. Propongono che gli atleti con livelli elevati di mindfulness tendono ad avere bassi livelli di esperienze di evitamento (volontà di evitare le esperienze negative a causa dello stress negativo che provocano), in tal modo viene minimizzata l’influenza negativa degli stressor e degli altri fattori negativi e ridotta la probabilità di burnout.