Nel mondo dello sport, molti atleti (e non solo) cadono in tre trappole mentali quando si parla di mental training:
1. “Capire” non significa “saper fare”
Molti pensano che basti sapere quanto è importante la mente per essere già capaci di usarla.
Ma capire che la concentrazione è fondamentale non vuol dire saperla mantenere in campo, nei momenti che contano.
Le abilità mentali si allenano. Come la tecnica. Come il fisico. Come tutto il resto.
2. “Saper fare in allenamento” non significa “saper fare in gara”
Anche chi ha acquisito una strategia mentale spesso si illude che funzionerà automaticamente anche sotto pressione.
Ma in gara le emozioni sono diverse. Lo stress è diverso. La posta in gioco è diversa.
Se non hai allenato quella strategia anche in situazioni simili alla gara, rischia di sparire proprio quando serve di più.
3. “Saper fare in gara” non equivale a “saper fare nei momenti ad alta pressione”
Molti atleti hanno sviluppato la capacità di concentrarsi e regolare le proprie emozioni in condizioni competitive standard.
Ma solo una parte di essi riesce ad applicare queste abilità in modo efficace durante i momenti di massima intensità emotiva e pressione agonistica.
In queste fasi critiche, il carico emotivo può superare la soglia di regolazione dell’atleta, portando a risposte disfunzionali come impulsività, esitazione o comportamenti eccessivamente cauti.
Sono momenti in cui il controllo cognitivo viene messo seriamente alla prova, e dove l’automatismo e la solidità delle abilità mentali diventano determinanti.
La capacità di mantenere l’efficacia mentale sotto stress massimo non è scontata: è il risultato di un allenamento specifico, ripetuto e progressivo in scenari ad alta pressione.
È proprio in queste situazioni che si manifesta la differenza tra un buon atleta e un performer d’élite.
La verità?
Le abilità mentali si costruiscono nel tempo, con costanza, con metodo.
Proprio come ogni altra parte della performance.
Non basta sapere. Serve allenare. Serve integrare. Serve ripetere.