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Disagio dei giovani causato dall’incompetenza degli adulti

Il tema dell’ansia e depressione di  molti giovani  è ovviamente drammatico e mi sembra si tenda a risolvere la questione  tramite il bonus per la psicoterapia e  l’introduzione dello psicologo a scuola. A questo quadro manca comunque la considerazione di un tassello importante: la formazione psicologica degli insegnanti. Direi anzi degli adulti che lavorano con i giovani. Questo allargamento riguarda quindi anche i genitori e gli allenatori. Non conosco quale sia la preparazione psicologica e pedagogica degli insegnanti della scuola, conosco invece molto bene quella degli allenatori e sono convinto che con poco si potrebbe fare molto di più per migliorare le loro competenze.

Quando dico questo ai dirigenti delle società sportive, di solito mi spiegano che non immagino quanti problemi da risolvere debbano quotidianamente affrontare e che anche volendo non potrebbero permettersi ulteriori spese. Purtroppo è la stessa risposta che mi danno da 30 anni e riflette la loro idea di sport: allenamento, gare e pagare tutti poco. Mi ricordo quando con Barbara Benedetti, segretario del settore giovanile e scolastico della FICG, ormai 20 anni fa riuscimmo a fare diventare obbligatoria la figura dello psicologo all’interno delle scuole calcio. Vi era scritto nel documento che andava alle società che lo psicologo doveva fare cinque incontri all’anno con genitori e allenatori. Le prime volte che qualche psicologo cominciò a proporsi per questo ruolo nelle società al posto del compenso gli veniva detto che avrebbe ricevuto la divisa della società e sarebbe stato invitato alla cena di Natale. Ovviamente, di fronte al rifiuto di questo scambio, si arrivava a definire il pagamento di questa consulenza. In quel periodo stilai anche una lista di attività che, oltre a queste riunioni, prevedeva altre azioni da svolgere in quell’ambito specificandone il rispettivo compenso. Le davo ai colleghi perchè potessero muoversi in quell’ambiente in modo più professionale. A molte società ho anche proposto di aumentare il costo dell’iscrizione di 10 euro all’anno, la differenza che si otteneva poteva essere il costo dello psicologo. Non volevo mi si dicesse non possiamo farlo per problemi economici.

Questo racconto serve a fare capire che l’ambiente sportivo, e m’immagino anche quello scolastico, è un luogo dove i cambiamenti, le innovazioni sono viste come minacciose. Oggi che molti allenatori sono laureati in scienze motorie la situazione di base è migliorata perchè hanno studiato psicologia all’università ma ancora non svolgono tirocini su come s’insegna nelle varie fasce di età, e non vi sono corsi federali che abbiamo questo specifico orientamento applicativo. Inoltre, il lavoro di allenatore è in larga parte sottopagato e, quindi, allontana molti dal volersi ulteriormente formare mentre è usato da altri per giustificare le loro carenze e il loro procedere in funzione delle loro idee, senza mai verificarle.

Su questa base è difficile che i giovani che mostrano difficoltà psicologiche trovino in questi adulti un supporto psicologico adeguato. Molti genitori a loro volta tendono a demandare alla scuola e allo sport la totale formazione psicologica dei loro figli nascondendosi dietro la retorica del “mica si studia per fare i genitori”.

Su queste basi e sulla schiavitù indotta dall’uso dei social è difficile che i giovani che manifestano problemi psicologici possano trovare soluzioni. Più facile fare passare il loro disagio per malattia così se ne occuperanno gli esperti e gli altri adulti che interagiscono con loro tireranno finalmente un respiro di sollievo.

Quanti sono gli italiani che leggono e chi sono?

I dati ISTAT del 2020 aiutano a costruire una fotografia della situazione.

  1. I lettori sono in calo dal 2010, nel 2020 solo il 41,4% della popolazione ha letto almeno un libro nell’ultimo anno.
  2. La popolazione femminile mostra una maggiore propensione alla lettura già a partire dai 6 anni di età: complessivamente il 47,1% delle donne, contro il 33,5% degli uomini, ha letto almeno un libro nel corso dell’anno.
  3. Leggono di più i giovani tra gli 11 e 14 anni (58,6%) rispetto a tutte le altre classi di età.
  4. Leggono di più le donne (46,4%) rispetto agli uomini (36,1%).
  5. Il pubblico più affezionato alla lettura è rappresentato dalle ragazze tra gli 11 e i 24 anni (oltre il 60% ha letto almeno un libro nell’anno). La quota di lettrici scende sotto la media nazionale dopo i 60 anni, mentre per i maschi è sempre inferiore al 50% tranne che per i ragazzi tra gli 11 e i 14 anni di poco superiore.
  6. La lettura è legata al livello di istruzione: legge il 72,8% dei laureati, il 49,1% dei diplomati e solo il 26,8% tra chi possiede la licenza elementare.
  7. Persistono i divari territoriali: legge meno di una persona su tre nelle regioni del Sud (29,2%) mentre in quelle del Nord-est si raggiunge la percentuale più elevata (44,3%) e nel Nord-ovest il 48,5 e il 44,3% nel Centro.
  8. Meno della metà dei lettori (44,6%) dichiara di aver letto al più tre libri nei 12 mesi precedenti l’intervista; sono i così detti “lettori deboli” tra i quali si ritrovano poco meno della metà dei lettori maschi (48,5%) e delle persone tra 11 e 14 anni (47,2%). Il 15,2% si annovera tra i “lettori forti” (con almeno 12 libri letti nell’ultimo anno). La maggiore propensione delle donne alla lettura si ritrova anche nell’intensità della lettura: il 16,7% dichiara di leggere in media un libro al mese contro il 13,3% degli uomini.
  9. Nel 2016 circa una famiglia su dieci non aveva alcun libro in casa, dato ormai costante da quasi un ventennio.
  10. Tra chi ha entrambi i genitori lettori è pari al 78,1% la quota di ragazzi di 6-18 anni che legge; si attesta al 64,5% se è solo la madre ad avere l’abitudine alla lettura e al 63,8% se è solo il padre. La percentuale di lettori di 6-18 anni scende, invece, al 36,3% se entrambi i genitori non sono lettori di libri.

L’allenamento della respirazione

Questi sono i temi che trattano nel mio workshop intitolato:
Development of psychological skills in high potential athletes: 
breathing as a key tool to build mental skills programs
Online European Conference Psychology of Elite Sports Performance - November 21-22, 2020, Universidade Lusófona, Lisbon, Portugal
  • Self-control
  • La respirazione: una lunga storia
  • Respirazione e motivazioni di base
  • respirazione e competizione
  • respirazione e processi cognitivi
  • Come migliorare l’auto-controllo con la respirazione
  • Respirazione e programmi di training
  • L’allenamento della respirazione

Essere consapevoli dei propri punti di forza

Una difficoltà che incontrano gli atleti, e in misura più rilevante quelli più giovani, è relativa al parlare dei propri punti di forza, mentre sono molto più centrati sul parlare dei loro errori.

Certamente non è sbagliato avere consapevolezza dei propri errori e impegnarsi a superarli con l’allenamento.

In gara è valido l’opposto. E’ più utile concentrasi su cosa fare per gareggiare al meglio e questo avviene solo mettendo in atto le proprie competenze migliori.

A questo riguardo spesso gli atleti dicono: “Sono molto concentrato a correggermi e penso poco a quello che so fare”.

L’obiettivo dovrebbe essere duplice: allenarsi per migliorare ma essere anche consapevoli delle proprie abilità (fisiche, tecnico-tattiche e mentali).

Si può ad esempio partire dagli obiettivi di prestazione e e stimolare gli atleti a identificare le competenze che servono per raggiungerli, in altre parole, stimoliamoli a riflettere e a scrivere quali sono i loro punti forti, cosa fanno quando gareggiamo al meglio, così da mettere nel loro desktop mentale le abilità di cui servirsi in gara e soprattutto quelle che vogliono utilizzare maggiormentenei momenti decisivi e di maggior pressione agonistica.

 

Maureen Weiss #giovani #sviluppo #competenza

40 anni fa Maureen Weiss  è stata una delle prime ricercatrici a focalizzarsi sullo sport e attività fisica come contesti in cui promuovere lo sviluppo sociale, fisico e psicologico dei giovani. Ha scritto: Il mio lavoro è partito da una prospettiva teorica, prendendo in considerazione le abilità cognitive, sociali, emotive e motorie nel descrivere e spiegare le variazioni nel comportamento in relazione alla motivazione, auto-percezione, relazioni sociali, sviluppo morale e apprendimento per osservazione”.

Dal 2009, Weiss è impegnata in Girls on the Run, programma rivolto allo sviluppo sociale, emotivo e motorio delle ragazze attraverso la corsa.

Ha partecipato al  ISYS 40th Anniversary dove ha fornito eccellenti suggerimenti per i giovani che vogliono diventare esperti in un’area di loro interesse.

Uno psicologo con il calcio-5

Emiliano Bernardi, psicologo dello sport e collaboratore di Cei Consulting, è consulente della nazionale giovanile di Calcio-5 in ritiro a Rieti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’organizzazione della scuola calcio: squadra A e squadra B

Ormai troppo spesso si parla di procuratori per minori di 10 anni, di provini nelle scuole calcio e della ricerca della squadra perfetta … ma non stiamo parlando di serie A. Parlo invece del calcio dei bambini dove frequentemente troviamo la suddivisone in squadra A e squadra B. Cosa vuol dire?

La risposta purtroppo universalmente riconosciuta è : i più bravi e i meno bravi.

L’aggettivo bravo è già di per sé generico e superficiale e se rivolto a bambini dai 6 ai 10 anni che muovono i loro primi passi nel mondo del calcio diventa privo di significato.

Ho compreso nel tempo che l’aggettivo bravo per gli allenatori include: il bambino “al momento” più competente a livello motorio, più veloce, senza problemi comportamentali, facile da gestire e che possiede già alcuni atteggiamenti del calcio professionistico (cadere sui falli, esultare tirando su la maglietta e così via). Sono queste le caratteristiche che  determinano la suddivisione delle squadre? E cosa  rimane fuori da questo ragionamento?  Rimane fuori la considerazione dell’apprendimento tra pari, rimani fuori qualsiasi concetto legato all’inclusione, rimane fuori qualsiasi pensiero legato allo sviluppo e al cambiamento, manca qualsiasi prospettiva futura a vantaggio del “tutto e subito”. Quel “tutto e subito” è la vittoria.

Ricerche europee dimostrano  che quasi il 70% dei bambini che inizia uno sport all’inizio dell’età scolare (5-6 anni), lo abbandona entro i 12-13 anni di età. Indagini realizzate per capire l’origine dell’abbandono riferiscono che i bambini che lasciano hanno la convinzione “di non essere abbastanza bravi”.

Ancora una volta il mondo adulto infrange le barriere del mondo dei bambini appropriandosi del loro linguaggio e convincendo il piccolo calciatore che è lui a non essere bravo.  In questo caso l’errore dell’allenatore è di far ricadere le sue personali aspettative infrante e le sue difficoltà di gestione sui piccoli calciatori, privandoli della possibilità di vivere fino in fondo la loro occasione.

L’utilizzo dell’aggettivo “bravo”sottolinea  in maniera indiscussa la mancanza di competenza di chi usa questo linguaggio scegliendo la strada più semplice  come allenatore e il minor vantaggio per il bambino.

Purtroppo nel calcio giovanile manca una prospettiva a lungo termine e non si accetta la difficoltà di oggi per il beneficio di domani. Viene spesso ignorato il significato dell’apprendimento tra pari ed anche il vantaggio, per i bambini, dei gruppi eterogenei a favore invece della costruzione di gruppi omogenei per competenze. La scelta dell’omogeneità nasconde una scelta egoistica e priva i bambini dell’arricchimento derivante dalle reciproche differenze.

“Ciò che i bambini sanno fare insieme oggi, domani sapranno farlo da soli” (Vygotskij)

(di Daniela Sepio)

Cercasi talenti? No, ha sbagliato nazione

Mentre nel mondo le aziende più importanti conducono tra di loro da anni una guerra per assicurarsi i migliori talenti e su Google troviamo decine di pagine selezionando “talent war”, noi invece viviamo in una nazione in cui questi due termini suscitano poco interesse. E’ quanto emerge da uno studio condotto da Bruno Pellegrino, Università della California, e Luigi Zingales, Università Chicago, secondo cui gli imprenditori italiani, non tutti per fortuna, preferiscono avere come diretti collaboratori degli “yes manager”, pronti in ogni istante a compiacerli nelle loro scelte a discapito di uomini e donne indipendenti e competenti. Si conferma la scarsa propensione dell’imprenditoria italiana alla cultura della prestazione che coniuga insieme la capacità di assumersi dei rischi e d’innovarsi con la necessità di mantenere in attivo il bilancio mentre al suo posto si diffonde il familismo amorale, che seleziona le persone per cooptazione. In tal modo ci si pone sulla strada che abbandona la ricerca del successo come massima espressione delle qualità aziendali e ci si avvia su quella in cui favoritismi e clientele diventano i fattori dominanti del successo. Il mondo del calcio professionista ancora una volta si rivela essere specchio di questo paese e di questo tipo d’imprenditoria: tanti stranieri mediocri e pochi giovani italiani talentuosi. Infatti, nella maggior parte delle squadre sono presenti pochi calciatori italiani e solo quest’anno sono stati introdotti 84 nuovi giocatori, che limitano ulteriormente l’accesso in squadra ai nostri giovani talenti.  Il danno che si viene a creare è molto grave. S’impedisce di fatto ai giovani italiani di giocare, si rende inutile l’attività giovanile poiché i migliori non troveranno squadre disposte a inserirli nell’organico, li si obbliga ad andare all’estero come è il caso di Immobile, Cerci e Verratti, si spendono inutilmente soldi per giocatori stranieri che non sono di valore, le squadre perdono ulteriore valore perché non possono contare su giocatori tenaci e che vogliono vincere. Non vi sono spiegazioni che permettono di comprendere questo fenomeno così auto-lesionista per i club. Certamente la professionalità dei dirigenti di calcio esce sconfitta da questo approccio e dato che questa pratica è così diffusa evidentemente non preoccupa anzi ne esce rinforzata. Naturalmente esistono aziende e squadre che si fondano sulla cultura della prestazione, seguiamole perché sono un pezzo importante della soluzione dei nostri problemi.

(leggilo su http://www.huffingtonpost.it/../../alberto-cei/)

Impegnarsi molto deve essere uno stile di vita

Alcuni atleti hanno reagito al blog che ho scritto sulla necessità di essere il primo tifoso di noi stessi, dicendo che è veramente difficile esserlo, poiché gli errori e le prestazioni negative mettono troppo duramente alla prova questa convinzione. Sono d’accordo e infatti considero la fiducia in se stessi un punto di arrivo di un processo di maturazione psicologica e non certo il punto di partenza. Ciò non toglie che bisogna fare di tutto per fare propria questa convinzione, senza la quale non è possibile sostenere il proprio impegno sportivo, scolastico o professionale. Chi vuole eccellere deve essere preparato a sostenere in modo convinto il proprio impegno attraverso qualsiasi tipo di difficoltà. In tal senso si può dire che impegnarsi molto deve essere uno stile di vita, non qualcosa da manifestare solo quando tutto va bene. Anzi bisogna sapere che bisogna essere preparati a dedicare più ore di quelle che all’inizio si erano programmate.

In campo insieme: allenatore e psicologo

Alcune scuole calcio hanno già inaugurato il loro anno sportivo e altre lo faranno in questa settimana. Mi auguro che sempre più società abbiano accolto nel loro staff uno psicologo dello sport, apprezzando il valore aggiunto fornito da un professionista preparato a lavorare nello sport.

Ascoltando alcuni colleghi scopro che spesso ad ostacolare l’entrata di uno psicologo nello staff sono gli allenatori, preoccupati di perdere il ruolo centrale della loro figura, ma altrettanto spesso accade che gli allenatori pur avendo in società uno psicologo, non sanno cosa possono chiedere e come farsi autare.

Ho sempre creduto nell’integrazione delle diverse figure professionali all’interno di ogni situazione sportiva ed in particolare nella scuola calcio. Qui si intrecciano tanti aspetti differenti che coinvolgono la crescita tecnica, ma anche fisica e psicologica del bambino e per questo motivo l’integrazione di competenze diventa imprescindibile.

Ho chiesto ad un esperto di calcio con il quale collaboro da anni in tema di calcio giovanile, di scrivere una lista di quanto mi ha chiesto e di quelle ciò che, con la sua esperienza di lavoro integrato tecnico-psicologo, può suggerire di  chiedere. La pubblico per condividere con psicologi e allenatori  il punto di vista di un allenatore che ha imparato a sfruttare al massimo l’opportunità data dal lavoro di squadra.

Cosa chiede l’allenatore allo psicologo

  • Come facilitare la comprensione
  • Come avere maggiore attenzione
  • Come gestire comportamenti scorretti
  • Come gestire i conflitti nel gruppo
  • Come motivare
  • Come dare modelli adeguati
  • Come comportarsi: di fronte a comportamenti scorretti o inadeguati; nei confronti di altre società
  • Come rinforzare/gratificare adeguatamente
  • Che metodo didattico utilizzare e come metterlo in pratica
  • Come correggere senza punire

(di Daniela Sepio)