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In campo con i ‘pulcini’ serve entusiasmo e curiosità

I pulcini sono la seconda categoria della scuola calcio per ordine di età e comprendono i bambini dagli 8 ai 10 anni. Molto spesso gli allenatori esprimono estrema soddisfazione nell’allenare i pulcini, sottolineando l’interesse e l’entusiasmo che a questa età i bambini mettono sul campo. La soddisfazione degli allenatori trova una base teorica importante nel momento evolutivo che vivono i bambini di questa età. I pulcini attraversano un momento di pausa nel loro processo evolutivo e non manifestano  grossi cambiamenti,  diventano padroni del loro corpo e delle facoltà intellettive, prendono coscienza di sé, favoriti dalla quasi completa definizione dello schema corporeo e dimostrano, inoltre, un buon grado di socialità. Tutte queste caratteristiche pongono il bambino lontano dalla continua scoperta di sé tipica della fase precedente ed ancora distante dalla confusa tempesta adolescenziale che seguirà a questo periodo. È tutto questo che rende possibile definire i pulcini la categoria “più allenabile” della scuola calcio. Tale definizione però non elimina le difficoltà che si possono incontrare in campo nella gestione del gruppo.  Accanto alla dimensione tecnica e tattica è importante, come sempre, conoscere le dinamiche psicologiche appartenenti a questa fascia di età e anche le modalità di comunicazione più efficaci da utilizzare con i piccoli atleti.  Ecco alcune indicazioni su cosa fare quando si è in campo con loro.

Cosa Fare:

  • Impegnarli costantemente riducendo al minimo indispensabile pause e attese
  • Guidarli all’autonomia psicologica (saper risolvere problemi)
  • Proporre esercitazioni in cui devono prendere decisioni
  • Rinforzare non solo la correttezza delle scelte, ma la capacità di operare delle scelte
  • Favorire la capacità di assumersi rischi calcolati
  • Inserire in allenamento esercizi che insegnino a mantenere un equilibrio fra rischio individuale e gioco collettivo
  • Facilitare l’interiorizzazione delle regole del gruppo
  • Insegnare a collaborare in un ambiente competitivo
  • Strutturare l’allenamento con l’obiettivo di incentivare la collaborazione
  • Limitare gli individualismi  (a questa età tendono ad autoalimentarsi: tu fai così, allora anch’io)
  • Aiutarli a valutare quale atteggiamento o situazione determina l’errore  anche attraverso esempi personali

Saper gestire un pulcino  vuol dire, non solo, sviluppare le sue competenze tecniche e tattiche , ma anche far scendere in campo l’entusiasmo e la curiosità che porta dentro di sé.

(di Daniela Sepio)

Criticare: è facile distruggere, è difficile costruire

La scorsa settimana ho incontrato le varie facce del calcio giovanile: gli allenatori, i dirigenti e i genitori.

Ciò che si nota è spesso il desiderio di ognuna di queste categorie di liberarsi dalle proprie  responsabilità, preferendo mettere in cattiva luce gli altri ruoli, evitando la riflessione su se stessi  e sulle proprie possibilità di cambiamento.

Genitori , allenatori e dirigenti si colpevolizzano l’un l’altro in una partita senza vincitori. Mi colpisce che i discorsi si trasformano in critiche distruttive più spesso intraprese per nascondere le proprie responsabilità,  piuttosto che per suggerire sani cambiamenti.

La critica costruttiva è un abilità complessa che comprende empatia,  capacità comunicative, propensione all’ascolto, gestione delle proprie emozioni e  motivazione al cambiamento. E’ un abilità di comunicazione necessaria in campo sportivo ed educativo e evidenzia la capacità di esprimere i propri pensieri e idee, di identificare le proprie sensazioni, di definire e rispettare i limiti propri e quelli altrui, di comunicare e ascoltare in modo aperto, diretto e onesto.

Il ruolo degli educatori che ruotano intorno ai piccoli atleti  implica la capacità di valutare e intervenire sugli errori commessi da altri ma anche, e direi soprattutto, di saper evidenziare ed correggere i propri errori.
La critica costruttiva, adeguatamente utilizzata, serve per migliorare le prestazioni, le relazioni e, più in generale, il senso di efficacia dei vari attori in campo per l’educazione dei bambini.

Fare critica costruttiva è fare una lettura della realtà partendo dalle proprie conoscenze, ascoltando attentamente persone e fatti, accettando il contradditorio, cercando di raggiungere un giudizio che sia orientato al bene del bambino e non alla ricerca della propria verità. Una delle ragioni più profonde di conflittualità  è il non saper fare o accettare critiche. È importante imparare che i nostri valori e le nostre opinioni  personali  non sono in pericolo  quando sono contestate ma anzi spesso si rafforzano.

Come possiamo riconoscere una critica distruttiva da una costruttiva?

La critica distruttiva:

  • È rivolta alla persona, che viene etichettata negativamente
  • È imprecisa
  • Mira a colpevolizzare la persona
  • Tende a chiudere il dialogo

La critica costruttiva:

  • È rivolta alla prestazione o ai comportamenti della persona.
  • Viene data all’interlocutore la possibilità di capire quali sono i comportamenti che non sono sbagliati
  • È specifica e fornisce suggerimenti
  • Vuole migliorare la prestazione e i comportamenti
  • Mantiene aperto il dialogo e trasmette fiducia

Bisognerebbe fare un lungo esame di coscienza prima di pensare a criticare gli altri” (Molière).

(di Daniela Sepio)

I principali problemi dell’attività giovanile

Secondo UK Coaching Foundation e Canadian Sports Center questi sono i principali problemi dell’attività giovanile:

  • Gli atleti in età di sviluppo competono troppo e si allenano poco.
  • Programmi per adulti sono imposti ad atleti in età di sviluppo.
  • La preparazione è centrata su obiettivi a breve termine – vincere – anziché su obiettivi a lungo termine.
  • L’età cronologica piuttosto che l’età di sviluppo è usata per pianificare l’allenamento e le competizioni
  • In larga misura gli allenatori non prendono in considerazione i periodi critici di adattamento all’allenamento.
  • I migliori allenatori lavorano a livello di élite, gli allenatori volontari a livello di sviluppo dove sarebbe necessaria maggiore qualità.
  • I genitori non sono educati a ragionare in termini di processo a lungo termine.
  • Non c’è un sistema d’identificazione del talento
  • Non c’è integrazione fra programmi di educazione fisica scolastici, i programmi ricreativi e i programmi agonistici degli atleti di alto livello.
  • Anticipazione eccessiva della specializzazione.

Cosa vuoi da te? 4 domande per capirlo

Tre domande sono importanti per chi vuole ottenere il meglio da se stesso.

  • Cosa ho fatto sinora per ottenere il meglio da me?
  • Cosa sono disposto a fare per migliorare di più?
  • Cosa voglio fare da domani?
  • Quali frustrazioni sono disposto ad accettare?

Queste domande sono importanti per tutti. Se sei un allenatore sono utili per conoscerti meglio e per guidarti nella tua professione. Se sei un atleta sono utili per prendere la tua vita nelle tue mani e decidere se vuoi avere successo e quanto vuoi sfidarti per ottenerlo. Se sei un professionista (psicologo, medico, fisioterapista, dirigente) sono utili per sapere cosa rappresenta per te lo sport; un hobby o una parte essenziale della tua realizzazione come persona e quanto sei disposto a vivere una condizione alla ricerca del continuo miglioramento.

Effetto Pigmalione:i danni del pregiudizio e i vantaggi della fiducia

A tanti tecnici sarà capitato di avere in squadra quel bambino un po’ più lento degli altri, magari meno agile e meno coordinato. Come viene trattato dall’allenatore e dai compagni? Gli vengono date le stesse possibilità e viene messo nelle stesse condizioni di tutti gli altri?

In psicologia sono stati effettuati degli studi su ciò che viene definito “Effetto Pigmalione” derivante dagli studi sulla profezia auto-avverante. L’assunto di base di questi studi è facilmente applicabile all’ambito dell’apprendimento sportivo: “ se il  tecnico crede  che un bambino sia meno dotato lo tratterà, anche inconsapevolmente, in modo diverso dagli altri; il bambino interiorizzerà il giudizio e si comporterà di conseguenza; si instaura così un circolo vizioso per cui il bambino tenderà a divenire nel tempo proprio come il suo allenatore lo aveva immaginato”. In termini pratici possiamo dire che spesso la mancanza di fiducia nelle possibilità di apprendimento del bambino blocca l’apprendimento stesso e spinge il bambino ad accontentare il suo allenatore diventando  proprio ciò che lui si aspetta, avverando la profezia.

Possiamo ben immaginare il tipo di conseguenza che questo processo mentale può avere sul bambino e sulle sue abilità.

Lo sviluppo motorio , ma anche psicologico del bambino è in continua evoluzione e ad un momento di stasi possono seguirne altri di rapido cambiamento. L’Effetto Pigmalione quando è legato ad un giudizio negativo incatena i progressi del bambino al giudizio del suo insegnante. Questo comportamento va attribuito al fatto che il bambino mette in atto il comportamento suscitato dalle aspettative: l’aspettativa di scarso profitto da parte del tecnico agisce come una predizione che si auto-realizza.

Se si accetta il concetto che un tecnico si faccia  un’idea ben precisa dei suoi atleti, plasmandoli in base a questo pre-giudizio, è facile comprendere l’importanza di profezie ed aspettative di segno positivo sulla riuscita dei bambini all’interno del loro processo di apprendimento sportivo. Gli allenatori che hanno aspettative positive nei confronti dei loro studenti riescono, di contro, a creare un clima socio-emotivo più caldo intorno a loro, forniscono maggiori feedback circa la qualità delle loro prestazioni, sembrano fornire più informazioni e aspettarsi maggiori risultati, oltre al concedere più opportunità di domande e risposte. Secondo le osservazioni di Rosenthal, gli insegnanti che sono convinti di avere di fronte un buon allievo gli sorridono con maggiore frequenza, compiono movimenti di approvazione con la testa, si chinano su di lui e lo guardano più a lungo negli occhi, esprimendosi anche con un linguaggio del corpo positivo. Sono più portati a lodare e a correggere gli errori senza assumere un atteggiamento critico.  “In sostanza, un docente che crede di avere a che fare con studenti dotati insegna di più e meglio”. (Rosenthal, 1976).

Capire  l’Effetto Pigmalione  nei suoi aspetti negativi e positivi  permette di comprendere  quanto importante sia l’effetto dinamico della fiducia nello sviluppo completo delle potenzialità del bambino.

La fiducia è una parte importantissima nella nostra vita, è un mezzo con cui possiamo arricchire la nostra vita e quella altrui. La mancanza di fiducia, al contrario, produce frustrazione e paralisi.

La fiducia è in grado di aprire ad un mondo di infinite possibilità.

(di Daniela Sepio)

Hai 15 minuti per cambiare

Spesso un ostacolo al cambiamento è rappresentato dalla convinzione di non avere  a disposizione il tempo necessario per cambiare. Questo lo dicono gli atleti ma lo pensano anche i loro allenatori che non spendono tempo per la preparazione psicologica perché ritengono di avere già da fare troppe cose. Una volta per rispondere a queste obiezioni facevo lunghe spiegazioni sull’importanza della psicologia e dell’uso corretto della mente . Poi ho scoperto che in questo modo non facevo altro che rinforzare le resistenze dei miei interlocutori, che continuavano a credere di non avere tempo. A questo punto ho cambiato approccio. Ho cominciato a rispondere chiedendo loro se avevano 15 minuti al giorno da dedicare a qualcosa di diverso che non fosse l’allenamento fisico e tecnico. Ovviamente hanno tutti risposto affermativamente e partendo da questa risposta positiva è stato più facile per me spiegargli come organizzare un allenamento mentale in quel breve periodo di tempo.

L’organizzazione della scuola calcio: squadra A e squadra B

Ormai troppo spesso si parla di procuratori per minori di 10 anni, di provini nelle scuole calcio e della ricerca della squadra perfetta … ma non stiamo parlando di serie A. Parlo invece del calcio dei bambini dove frequentemente troviamo la suddivisone in squadra A e squadra B. Cosa vuol dire?

La risposta purtroppo universalmente riconosciuta è : i più bravi e i meno bravi.

L’aggettivo bravo è già di per sé generico e superficiale e se rivolto a bambini dai 6 ai 10 anni che muovono i loro primi passi nel mondo del calcio diventa privo di significato.

Ho compreso nel tempo che l’aggettivo bravo per gli allenatori include: il bambino “al momento” più competente a livello motorio, più veloce, senza problemi comportamentali, facile da gestire e che possiede già alcuni atteggiamenti del calcio professionistico (cadere sui falli, esultare tirando su la maglietta e così via). Sono queste le caratteristiche che  determinano la suddivisione delle squadre? E cosa  rimane fuori da questo ragionamento?  Rimane fuori la considerazione dell’apprendimento tra pari, rimani fuori qualsiasi concetto legato all’inclusione, rimane fuori qualsiasi pensiero legato allo sviluppo e al cambiamento, manca qualsiasi prospettiva futura a vantaggio del “tutto e subito”. Quel “tutto e subito” è la vittoria.

Ricerche europee dimostrano  che quasi il 70% dei bambini che inizia uno sport all’inizio dell’età scolare (5-6 anni), lo abbandona entro i 12-13 anni di età. Indagini realizzate per capire l’origine dell’abbandono riferiscono che i bambini che lasciano hanno la convinzione “di non essere abbastanza bravi”.

Ancora una volta il mondo adulto infrange le barriere del mondo dei bambini appropriandosi del loro linguaggio e convincendo il piccolo calciatore che è lui a non essere bravo.  In questo caso l’errore dell’allenatore è di far ricadere le sue personali aspettative infrante e le sue difficoltà di gestione sui piccoli calciatori, privandoli della possibilità di vivere fino in fondo la loro occasione.

L’utilizzo dell’aggettivo “bravo”sottolinea  in maniera indiscussa la mancanza di competenza di chi usa questo linguaggio scegliendo la strada più semplice  come allenatore e il minor vantaggio per il bambino.

Purtroppo nel calcio giovanile manca una prospettiva a lungo termine e non si accetta la difficoltà di oggi per il beneficio di domani. Viene spesso ignorato il significato dell’apprendimento tra pari ed anche il vantaggio, per i bambini, dei gruppi eterogenei a favore invece della costruzione di gruppi omogenei per competenze. La scelta dell’omogeneità nasconde una scelta egoistica e priva i bambini dell’arricchimento derivante dalle reciproche differenze.

“Ciò che i bambini sanno fare insieme oggi, domani sapranno farlo da soli” (Vygotskij)

(di Daniela Sepio)

Come motivarsi

Lo sprinter americano Michael Johnson, vincitore di cinque medaglie d’oro alle olimpiadi e otto volte campione del mondo, ha così riassunto l’importanza della motivazione:

“La mia migliore motivazione è sempre venuta dalla gioia pura di correre e di gareggiare, è lo stesso brivido che ho come fossi un bambino di 10 anni. Avete mai conosciuto un bambino di 10 anni nauseato da quello che fa? Bisogna trovare la propria motivazione iniziale, per questa ragione diventerai un architetto. Questo è il segreto della perseveranza”.

L’attività sportiva dovrebbe consentire l’affermarsi di un atteggiamento che può essere sintetizzato nella se­guente frase:

E’ grazie al mio impegno e al piacere che provo che divento sempre più bravo in quello che faccio”.

Le attività motivate da una spinta interiore si basano sulla percezione soggettiva di soddisfazione che si trae dallo svolgere un determi­nato compito.

Al contrario, qualsiasi intervento esterno che tenda a ridurre nell’atleta questa consapevolezza interiore influenzerà negativamente la sua motivazione.  Succede quando un atleta s’impegna solo per ricevere un premio materiale (vincere un trofeo) o il riconoscimento da parte degli altri (“Lo faccio per i miei genitori o per l’allenatore che così saranno contenti o perché sarò più ammirato dai miei compagni di scuola”). La prestazione sportiva diventa così solo un mezzo per raggiungere un altro scopo che diventa, invece, il vero fine dell’azione: il giovane non agisce per il piacere che gli fornisce l’attività stessa ma per ricevere un determinato riconoscimento. Pertanto, i rinforzi esterni che incoraggiano l’atleta ad attribuire la sua partecipazione a motivi esteriori riducono la sua motivazione interna.

L’allenatore non dovrebbe servirsi di rinforzi che dall’atleta siano percepiti come più importanti della stessa partecipazione spor­tiva, ma dovrebbe fornire suggerimenti utili ad aumentare il senso di soddisfazione che il gio­vane trae dall’esperienza agonistica.

I risultati sportivi che sono percepiti come il risultato di fattori inter­ni personali, quali l’abilità, la dedizione, l’impegno piuttosto che di fattori esterni (fortuna, limitata capacità degli avversari,  decisioni arbitrali a favo­re) sono associati a stati d’animo di soddisfazione e di orgoglio.

I motivatori sono i falsari del mental coaching

I motivatori e mental coach non laureati in psicologia si stanno diffondendo nello sport così come nel business. Sono persone che intervengono in questi mondi facendo leva sul bisogno di successo. Vincere è, oggi, l’unica cosa che conta e troppi atleti si fanno abbindolare da persone che come strategie di cambiamento si servono degli insulti oppure li fanno camminare sui carboni ardenti, come se fosse un evento necessario per credere in sè.  Purtroppo taluni di questi motivatori hanno successo, perchè le organizzazioni sportive (Coni, club e federazioni) non fanno nulla per aiutare i loto atleti e allenatori a scegliere. anzi talvolta queste stesse organizzazioni sono contente di questa autonomia degli atleti, poichè in questo modo risparmiamo dal punto di vista economico e non devono porsi il problema di scegliere un professionista che dovrebbero anche pagare.

Lo spunto di questa riflessione mi è fornito da un’intervista al motivatore di Bonucci (riportata da un attento conoscitore dello sport e dell’animo umano qual è Gianni Mura con l’articolo “L’aglio motiva Bonucci ma l’alito non fa il monaco”) in cui racconta come ha lavorato con lui. tutto sarebbe da ridere se non fosse che non è una barzelletta bensì una modalità di consulenza. Naturalmente ogni individuo può scegliere chi vuole come consigliere personale o come mental coach, ma come psicologi abbiamo il dovere di affermare che il miglioramento personale passa attraverso figure professionali qualificate e competenti e non da individui che si sono nominate loro stessi motivatori, mental coach o quant’altro solo sulla base di considerazioni personali. La professione di psicologo, come quella del medico, dell’avvocato o delle altre libere professioni è sottoposta a regole precise e nessuno può esercitarla senza un adeguato titolo di studio, non a caso coloro che hanno deciso di farlo senza possedere questi requisiti hanno dovuto inventare nuove parole per definirsi e così sono nati i termini “motivatore” e “mental coach”. Chiunque può definirsi in questo modo, anche il barista sotto casa e non sarà perseguito dalla legge.

E’ necessario che l’Ordine degli Psicologi così come il Coni e le Federazioni Sportive siano in prima linea nel diffondere un approccio professionalmente corretto del mental coaching, altrimenti la cultura sportiva sarà pregiudicata e si affermerà solo chi sarà sul mercato più aggressivo.

L’adolescente in campo: una sfida per l’allenatore

Quando gli allenatori si trovano alle prese con atleti adolescenti la loro capacità relazionale viene spesso messa a dura prova. La soluzione più frequentemente adottata è “fare l’amico”. In realtà anche quando le età cambiano e ci si sente quasi in dovere di cambiare livello relazionale,  la vera sfida è mantenere il proprio ruolo. L’allenatore-amico non serve, il tecnico deve invece applicare alcune regole, utili anche ai genitori,  che gli permetteranno di  aprire  la comunicazione con l’adolescente:

  • Stimolare la partecipazione attiva per facilitare i processi di attenzione e memorizzazione: fare esempi
  • Capire i bisogni di chi ascolta. La motivazione all’ascolto è fondamentale. quali messaggi lo catturano di più?
  • Ricercare i feedback. Non può esservi comunicazione senza scambio: il feedback è dunque uno step essenziale di questo processo.
  • Creare vicinanza: camminare tra  loro
  • Seguire i loro ritmi. Hanno l’abitudine a confrontarsi con messaggi che hanno le seguenti caratteristiche: velocità, movimento, colori, suoni, interattività. Messaggi che non presentino alcune di queste caratteristiche riducono l’attenzione e la motivazione all’ascolto.
  •  Usare il loro gergo
  • Utilizzare canali diversi (visivo, uditivo, cinestesico)
  • Essere concreti evitando l’eccesso di informazioni

Parallelamente esistono degli atteggiamenti che, al contrario,  sono in grado di interrompere qualsiasi possibilità di comunicazione con l’adolescente:

  • L’eccesso di informazioni
  • Dare giudizi e valutazioni negative senza indicare la strada per il cambiamento
  • Avere un atteggiamento di superiorità: “sono più grande e so come vanno le cose”
  • Mantenere una distanza fisica e psicologica
  • Tendere alla manipolazione e al controllo

Comunicare con i giovani è veramente una sfida. Rimaniamo spesso spiazzati di fronte alle loro domande, o ai loro silenzi. Hanno la capacità di smuovere molti vissuti profondi che vanno riconosciuti ed elaborati  per poter proseguire al meglio nel proprio ruolo di formatore.

(di Daniela Sepio)