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Allenamento mentale: attenzione a questi due errori comuni

Nel mondo dello sport, molti atleti (e non solo) cadono in tre trappole mentali quando si parla di mental training:

1. “Capire” non significa “saper fare”
Molti pensano che basti sapere quanto è importante la mente per essere già capaci di usarla.
Ma capire che la concentrazione è fondamentale non vuol dire saperla mantenere in campo, nei momenti che contano.
Le abilità mentali si allenano. Come la tecnica. Come il fisico. Come tutto il resto.

2. “Saper fare in allenamento” non significa “saper fare in gara”
Anche chi ha acquisito una strategia mentale spesso si illude che funzionerà automaticamente anche sotto pressione.
Ma in gara le emozioni sono diverse. Lo stress è diverso. La posta in gioco è diversa.
Se non hai allenato quella strategia anche in situazioni simili alla gara, rischia di sparire proprio quando serve di più.

3. “Saper fare in gara” non equivale a “saper fare nei momenti ad alta pressione”

Molti atleti hanno sviluppato la capacità di concentrarsi e regolare le proprie emozioni in condizioni competitive standard.
Ma solo una parte di essi riesce ad applicare queste abilità in modo efficace durante i momenti di massima intensità emotiva e pressione agonistica.

In queste fasi critiche, il carico emotivo può superare la soglia di regolazione dell’atleta, portando a risposte disfunzionali come impulsività, esitazione o comportamenti eccessivamente cauti.
Sono momenti in cui il controllo cognitivo viene messo seriamente alla prova, e dove l’automatismo e la solidità delle abilità mentali diventano determinanti.

La capacità di mantenere l’efficacia mentale sotto stress massimo non è scontata: è il risultato di un allenamento specifico, ripetuto e progressivo in scenari ad alta pressione.
È proprio in queste situazioni che si manifesta la differenza tra un buon atleta e un performer d’élite.

La verità?
Le abilità mentali si costruiscono nel tempo, con costanza, con metodo.
Proprio come ogni altra parte della performance.

Non basta sapere. Serve allenare. Serve integrare. Serve ripetere.

Palla al centro – Il nuovo libro di Alberto Cei

Nel calcio, cosa rende un campione, un grande campione? E un allenatore, un grande allenatore?⁠
Gran parte di ciò che rende tale un genio del calcio, è rintracciabile nella sua psicologia, nel modo in cui si approccia al campo, dall’allenamento alle partite più importanti.⁠

Caratteristiche atleti di élite

Non è semplice capire le ragioni per cui  atleti di livello internazionale non raggiungono prestazioni di livello assoluto, proviamo a individuare quali sono i limiti che glielo impediscono

1. Limiti genetici individuali

Ogni atleta ha un potenziale genetico, che determina caratteristiche come:

  • composizione muscolare (più fibre veloci o lente)
  • capacità cardiovascolare (VO₂ max),
  • risposta all’allenamento,
  • recupero e resistenza agli infortuni.

Non tutti, pur allenandosi al massimo, hanno il DNA per diventare Bolt o Phelps.

2. Qualità dell’allenamento

Anche a livello internazionale, ci sono differenze in:

  • metodologie di allenamento,
  • qualità dell staff tecnico,
  • infrastrutture (attrezzature, piste, palestre),
  • accesso a tecnologie di analisi (GPS, biomeccanica).

Un piccolo errore in programmazione può fare la differenza tra “ottimo” e “leggendario”.

3. Recupero e infortuni

Gli infortuni sono tra i principali ostacoli:

  • un infortunio cronico o ricorrente può limitare l’allenamento,
  • anche la paura dell’infortunio può influenzare la prestazione.
  • il recupero non è sempre ottimale, specie se si gareggia molto.

4. Aspetti psicologici

La mentalità d’élite non è scontata:

  • gestione dello stress,
  • resilienza,
  • motivazione costante,
  • capacità di esprimersi nei momenti chiave.

La mente può fare la differenza tra un finalista mondiale e un campione olimpico.

5. Strategie e gestione della carriera

Scelte tattiche e strategiche sbagliate (cambi di allenatore, federazione) possono influenzare l’intera carriera. Anche il calendario gare e i picchi di forma vanno pianificati al millimetro.

 

 

Congresso Mondiale di Psicologia dello Sport

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International Society of Sport Psychology 16th World Congress

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31 May 2025 - Early bird registration closing

30 Jun 2025  – Abstract submission closing

31 Jul 2025  – Notification of acceptance

15 Aug 2025  – Abstract re-upload (if required)

30 Sep 2025  – Standard registration closing

Non sappiano insegnare la resilienza ai giovani

Come è possibile che sapendo dalla ricerca come si diventa 

una persona resiliente gli adulti di oggi non sappiano insegnarlo 

ai propri figli e allievi a scuola e nello sport?

Conoscere non è saper fare

Sapere in teoria come si diventa resilienti (es. affrontare le difficoltà, imparare dagli errori, sviluppare un mindset di crescita…) non significa saperlo mettere in pratica. La resilienza si costruisce nel quotidiano, con coerenza e pazienza. E questo è molto più difficile che capirlo da un libro.

Bagaglio emotivo degli adulti

Molti adulti non hanno mai ricevuto un’educazione emotiva o resiliente quando erano bambini. Se non hai fatto pace con le tue fragilità, con le tue cadute, con i tuoi fallimenti, sarà difficile insegnare a un giovane che sbagliare va bene e che le difficoltà si possono affrontare.

Cultura della performance

Viviamo in una società che premia il risultato, la prestazione, l’efficienza. Questo crea un contesto dove l’errore è visto come una debolezza e non come un’opportunità. Genitori, insegnanti e allenatori rischiano di trasmettere inconsapevolmente ansia da prestazione più che resilienza.Comunicazione incoerente

A volte si dicono le cose giuste, ma si fanno quelle sbagliate: un genitore può dire “l’importante è partecipare” ma poi arrabbiarsi se il figlio perde una gara. Oppure un insegnante può dire “l’errore è parte del processo” ma punire severamente un errore nel compito. I bambini imparano più da ciò che vedono fare che da ciò che sentono dire.

Mancanza di tempo e ascolto

Educare alla resilienza richiede ascolto, pazienza, tempo. In una società frenetica e stressata, molti adulti faticano a trovare quello spazio mentale e relazionale per costruire una relazione educativa profonda.

Mancanza di formazione pratica

Anche quando c’è la volontà, manca spesso una formazione pratica per insegnare la resilienza: non basta dire “devi essere forte”. Servono strumenti, giochi, dialoghi, esempi, esperienze. Non tutti gli educatori e allenatori li hanno a disposizione o sanno usarli.

Presentazione libro: Palla al centro. La psicologia applicata al calcio

E’ uscito il mio ultimo libro ed è dedicato al calcio. Non è un manuale di psicologia dello sport ma è una storia attraverso 4 temi: l’allenamento, i campioni, gli allenatori, il 10 che è la maglia magica del calcio. S’intitola Palla al centro. La psicologia applicata al calcio ed è pubblicato da Il Mulino.

E’ un libro pensato non solo per gli specialisti del calcio ma per tutti gli appassionati per scoprire come mai l’allenatore viene chiamato mister o manager e come è nato il mito del numero 10 a partire da Pelé. Sono anche presentati i profili psicologici di alcuni grandi allenatori per capire come personalità diverse possono ugualmente determinare professionisti di livello assoluto. E ancora chi sono stati i primi calciatori professionisti e quelli che hanno rivoluzionato il gioco del calcio da Cruyff a tanti altri rivoluzionari del pallone.

Dalla presentazione di Maurizio Crosetti: “Alberto Cei è psicologo dello sport da una vita, una vita certamente ben spesa. Questo suo ultimo lavoro si occupa di calcio, di allenamento, di motivazioni, di concentrazione. Parole sante e, purtroppo, un po’ in disuso, visto che qualcuno avrebbe deciso che il vocabolario del pallone debba contenere piuttosto termini e frasi come “braccetti”, “costruzione dal basso”, “quinti”.

Questo libro, invece, ricomincia da capo, è un sillabario di idee portanti. Perché, si fa presto a dire allenamento: ma chi allena gli allenatori? Chi ammaestra i maestri?

Lo spirito di gruppo, il senso profondo di una squadra, il miglioramento continuo come veri obiettivi: sono queste le partite da vincere. E non ci si arriva mettendo in fila soltanto una serie di esercizi: questo fanno le macchine, non le persone. Alberto Cei ha scritto, in apparenza, un agile saggio di psicologia applicata al calcio: in realtà, questo è un trattato sull’educazione, sull’apprendimento e sull’armonico sviluppo dell’essere umano. Motivazione e concentrazione diventano, pertanto, due tra le parole più importanti di questo volume, e della vita non solo sportiva che racconta”.

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Giornata internazionale dell’autismo

Oggi 2 aprile è la giornata internazionale dell’autismo e a questo proposito voglio ricordare quando abbiamo iniziato la nostra attività di calcio con i giovani con autismo, organizzata come una vera e propria scuola calcio.

Dieci anni fa, quando abbiamo ideato un programma di calcio per giovani con disabilità intellettiva, in particolare autismo, non immaginavamo le difficoltà che avremmo affrontato. Abbiamo scelto il calcio per la sua popolarità e accessibilità: si può giocare ovunque, anche con mezzi di fortuna.

Nel primo anno, la priorità è stata garantire la sicurezza dell’attività, anche su richiesta della AS Roma, che ha finanziato il progetto “Calcio Insieme” e fornito sei istruttori. Abbiamo allestito un campo chiuso e recintato, eliminando ostacoli. Il nostro staff iniziale contava 11 istruttori, 5 psicologi, una logopedista, un medico e i fondatori dell’ASD Accademia di Calcio Integrato. Con 30 giovani tra i 6 e i 13 anni, ogni partecipante aveva quasi un operatore dedicato.

Oggi seguiamo 80 ragazzi con uno staff di 23 persone. La sicurezza è garantita anche dalla presenza costante di medici per eventuali emergenze e dalla logopedista per supporto nella comunicazione e crisi.

Sicurezza significa anche un programma personalizzato, calibrato sulle esigenze motorie e psicologiche dei ragazzi, con interventi mirati per il loro benessere complessivo.

Prima di avviare gli allenamenti, tutti i collaboratori hanno seguito un corso di 32 ore su autismo, disabilità intellettiva, metodologie di allenamento, terapie, relazioni tra operatori e giovani, strategie di comunicazione e gestione delle crisi.

Questo percorso ha reso “Calcio Insieme” un modello innovativo di inclusione sportiva, garantendo ai ragazzi un ambiente protetto, stimolante e adatto alle loro necessità.

Come lo sport potrebbe essere un modello per i giovani

La crescente crisi della mancanza di modelli di riferimento per i giovani uomini è stata evidenziata nella serie Netflix Adolescence, nel Regno Unito dal rapporto Lost Boys del Centre for Social Justice e dall’ex manager della nazionale inglese di calcio  Sir Gareth Southgate. Ha sottolineato l’importanza della resilienza e della fiducia per i giovani, suggerendo che lo sport possa offrire un’alternativa ai modelli negativi diffusi da alcuni influencer. Tuttavia, perché lo sport sia davvero efficace in questo ruolo, deve innovarsi e concentrarsi su un’esperienza più significativa per tutti i partecipanti.

Gli allenatori devono evolvere da semplici esperti tecnici a veri educatori giovanili, capaci di supportare i ragazzi nella crescita personale. Iniziative come Greenhouse Sports e il True Athlete Project dimostrano che un approccio più empatico e consapevole può trasformare vite, creando ambienti in cui i giovani si sentano valorizzati e motivati. Questo cambiamento richiede una formazione mirata e una maggiore collaborazione tra istituzioni sportive e comunità.

Lo sport deve andare oltre il concetto di successo legato solo alle vittorie e alle medaglie, ponendo al centro il benessere e lo sviluppo umano. Serve un impegno coordinato per mappare le opportunità esistenti e garantire che nessun giovane venga escluso dall’attività fisica. E’ necessaria una visione collettiva e strategica per colmare le lacune esistenti e rendere lo sport un motore di cambiamento sociale duraturo.

Il calcio: un’opportunità di crescita per i giovani con autismo

Per molto tempo si è pensato che gli sport di squadra, e il calcio in particolare, non fossero adatti ai giovani con autismo, a causa di difficoltà motorie, scarsa consapevolezza del proprio corpo, ipersensibilità agli stimoli e difficoltà nelle dinamiche di squadra. Tuttavia, esperienze recenti dimostrano il contrario: con il giusto approccio, il calcio può diventare un’importante occasione di crescita e benessere.

A differenza delle attività scolastiche o terapeutiche, spesso strutturate e prevedibili, il calcio si svolge in un ambiente dinamico, all’aperto, con stimoli sempre diversi. Affrontare il movimento, il contatto con i compagni e le situazioni impreviste può inizialmente rappresentare una sfida, ma con il supporto di istruttori e psicologi, questi ragazzi imparano a gestire meglio le proprie emozioni e a sviluppare abilità motorie e sociali.

Il neuropsichiatra infantile Roberto Rossi sottolinea come, grazie allo sport, molti giovani abbiano fatto progressi sorprendenti non solo dal punto di vista fisico, ma anche nella comunicazione e nelle relazioni con gli altri. Il calcio offre loro uno spazio di divertimento e soddisfazione, permettendo un’integrazione positiva con i coetanei e un miglioramento della qualità della vita.

Su queste basi si è svolta in questi 10 anni l’attività di Accademia Calcio Integrato che ha portato a formulare un sistema innovativo di insegnamento del calcio per giovani con autismo, ora riportato nel libro Autismo e Calcio, a cura di Alberto Cei e Daniela Sepio, con il contributo di allenatori e psicologi, logopedista e  medici.