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Quando il cervello richiede delle pause

In un’epoca in cui bisogna essere “sempre attivi”, gli atleti rappresentano un tipo di popolazione a cui questa regola si applica pienamente. La questione è che con questo tipo d’impostazione di vita non è per niente facile trovare un equilibrio fra le richieste agonistiche e il benessere personale.

E’ quindi importante per chi intraprende la carriera sportiva trovare un modo di vivere in cui siano presenti dei momenti di pausa mentale per potere continuare a migliorare la capacità di svolgere un lavoro di qualità e sostenere il proprio benessere.

Nel 2022 è stata pubblicata una rassegna sistematica su questo tema che  ha rilevato che anche brevi pause di 10 minuti riducono l’affaticamento mentale e aumentano il vigore (ovvero la volontà di persistere quando il lavoro diventa difficile). Queste pause hanno migliorato le prestazioni soprattutto nei compiti che richiedono creatività.

Il concetto di micro-break ha origine nella letteratura sull’ergonomia e viene definito come un riposo programmato che gli individui fanno per prevenire l’insorgenza o la progressione di sintomi fisici, come il dolore o il disagio muscolo-scheletrico. Questo concetto definisce una breve strategia di recupero delle risorse, presa in modo informale tra un’attività lavorativa e l’altra.

Le micro-pause possono essere viste come reazioni naturali del sistema cognitivo a un possibile sovraccarico cognitivo che potrebbe influire sulle prestazioni.

In termini di risultati specifici, ci sono almeno due componenti del benessere individuale rilevanti per il recupero: il vigore (un’attivazione piacevole) e la fatica (una disattivazione spiacevole). Per gli atleti il vigore è una risorsa intrinseca che deve essere reintegrata quando si esaurisce e che contribuisce alla volontà di investire sforzi nei compiti da svolgere e di persistere in caso di difficoltà.

Le prestazioni rappresentano un altro risultato chiave su cui si ritiene che le micro-interruzioni abbiano un impatto. È risaputo che i fattori cognitivi  e motivazionali sono i principali determinanti della prestazione umana. Quindi le pause possono migliorare le prestazioni attraverso meccanismi benefici di riduzione dello stress e di stimolo dei fattori cognitivi, affettivi e motivazionali. Le pause sono essenziali per le prestazioni in compiti di attenzione continuativa nel tempo, suggerendo che la diminuzione della sensibilità alla vigilanza è influenzata dall’uso frequente di risorse cognitive.

Ansia e pensiero

Oggi a lezione mi stato chiesto in che modo un allenatore può insegnare a gestire l’ansi di gara ai giovani che allena. A questo riguardo riporto alcuni paragrafi dal mio libro “Affrontare lo stress”.

Il pensiero svolge un ruolo essenziale nell’affermazione della risposta ansiosa. Infatti per sviluppare comportamenti definibili come ansiosi non è solo sufficiente prendere in esame le alterazioni di carattere fisiologico. Un aumento anche rilevante della frequenza cardiaca lo si può avere per una serie piuttosto ampia di situazioni quali il fare le scale di corsa, il portare un peso eccessivo, il camminare ad una passo veloce e molte altre ancora. Queste condizioni si riferiscono a stati psicologici in cui un individuo potrebbe al più sentirsi  stanco o affaticato ma certamente non si definirebbe ansioso. La frequenza cardiaca può essere accelerata anche in altre occasioni, ad esempio le situazioni di valutazione (l’interrogazione a scuola, l’esame all’università, un colloquio di lavoro, una prestazione sportiva, una nuova responsabilità professionale); in quegli istanti mentre si è consapevoli dell’alterazione della propria frequenza cardiaca è possibile avere due tipi di pensieri:

  1. fiducioso – “E’ così che mi sento ogni volta che faccio bene, il cuore mi trasmette energia,”
  2. insicuro   – “Ho il cuore in gola, mi rimbomba tutto dentro, non ci sto capendo più niente, sbaglierò sicuramente.”

Si evidenzia così che sono i pensieri a determinare in larga parte se le reazioni fisiologiche che si avvertono sono favorenti o ostacolanti la prestazione. E’ quindi il pensiero che guida l’interpretazione delle sensazioni fisiche, per cui identiche condizioni fisiologiche possono essere vissute come adeguate a fornire prestazioni ottimali nonostante, all’apparenza, possano sembrare ostacolanti. Questa puntualizzazione è particolarmente importante da comprendere e soprattutto da ricordare nei momenti che contano, poiché ci attribuisce la  possibilità di guidare le nostre azioni attraverso lo sviluppo di pensieri che possiamo noi stessi costruire in modo consapevole. Nello sport di eccellenza questo aspetto è particolarmente evidente, poiché non è certo possibile restare calmi e sereni prima di una finale olimpica, in special modo se si può vincere. Gli atleti sanno che l’ansia che provano è positiva, è energia allo stato puro che stanno provando in quei e che gli dice: “Forza, tutto il corpo è con te, datti da fare, vai e fai quello che sai fare: fai il tuo meglio.” E’ proprio da loro che dovremmo imparare ad avvertire lo stress, a sentire la paura, vivendola come una dimostrazione che stiamo per fare qualcosa che per noi è molto importante, e se è importante come si fa a non avere il cuore il gola?

Quello che distingue chi poi fornirà una prestazione eccezionale è la sua capacità di gestire in termini positivi la sua ansia pre-gara, traducendola in energia che lo spingerà ad esaltare le sue competenze, perché hanno imparato a servirsene in modo positivo In queste situazioni l’atleta vincente non si lascia dominare dalle proprie emozioni, perché se ciò avvenisse sarebbe paralizzato dalla paura di fallire e dalla responsabilità di dovere ad ogni costo fornire una grande prestazione. Ecco cosa hanno detto a questo riguardo alcuni grandi campioni.

Si è forti di testa se si riesce a rimanere sereni e divertirsi anche quando le cose non vanno bene, e se si riesce a non perdere mai la fiducia in se stessi e nel lavoro di squadra.”(Valentino Rossi, pilota, 7 volte campione del mondo)

“Dipende dai caratteri, la tensione nervosa mi mangiava. Dimagrivo tre chili in gara: più mangiavo, più scendevo di peso. E la notte non dormivo, avevo gli occhi sbarrati. Ero una pila accesa, pronta a saltare dalla troppa tensione.” (Mark Spitz, nuotatore, 7 medaglie d’oro alle Olimpiadi di Monaco ’72) (da E. Audisio,  Hackett e il club degli eletti, La Repubblica, 22 marzo 2007)

“Quel giorno a Los Angeles gridai che volevo la mamma, volevo  che  qualcuno mi cullasse tra le braccia, desideravo essere considerata per la prima volta una creatura fragile, tenera, non a prova di bomba. Sì io ero quella che si dominava, quella che cercava le emozioni forti facendole esplodere nella maniera più giusta. Ma in un attimo mi accorsi che tutto quello stress mi aveva bruciato dentro, che a forza di vivere sempre in bilico convinta che con le mie ultimissime energie mi sarei tirata su, avevo consumato tutto e intaccato anche quella piccola riserva personale che uno si tiene per le occasioni speciali.” (Sara Simeoni, salto in alto, 3 medaglie alle Olimpiadi del ’76, ’80 e ’84) (da E. Audisio, Quanti modi per dire mi arrendo, La Repubblica, 13 luglio 1987)

La constatazione che anche i campioni possono essere ansiosi prima di una gara importante dovrebbe essere di aiuto per tutte le persone. Talvolta si è portati a pensare che i vincenti siano individui freddi e calcolatori, che non provano le stesse emozioni che prova la gente comune e che questa loro condizione è un dono che si portano dietro dalla nascita e che hanno ereditato da qualcuno della loro famiglia. Le loro prestazioni sportive diventano imprese memorabili e così taluni diventano dei miti, in cui il racconto diventa leggenda e supera la realtà dei fatti. Invece anche i campioni hanno faticato per assurgere a questo ruolo e come ha giustamente ribadito un grandissimo scrittore come Ernest Hemingway il genio è 10% talento e 90% sudore.

Ciò significa che la gestione delle proprie emozioni è un’abilità che si può migliorare e che quella condizione psicologica che chiamiamo ansia, stress o tensione eccessiva e che deriva da situazioni che non sono oggettivamente pericolose non è di per se stessa negativa, perché anche chi fornisce prestazioni ai massimi livelli, come i campioni dello sport, può sentirsi molto ansioso prima della gara. La differenza fra le persone è, quindi,  nella capacità di uscire positivamente da questo stato psicologico. Un’ulteriore conferma viene dalla notevole diffusione che hanno avuto negli ultimi 100 anni le tecniche di rilassamento; è la dimostrazione pratica di come persone ansiose possono imparare a ridurre queste loro reazioni e a svolgere una vita quotidiana soddisfacente.

E’ noto che l’apprendimento a rilassarsi consiste nell’imparare ad influenzare alcune funzioni fisiologiche (frequenza cardiaca e respiratoria e funzioni viscerali) e la tensione dei muscoli, in parallelo con una graduale distensione mentale. In questo ambito, non è un caso che una fra le tecniche più diffuse, il training autogeno ideato da Schultz nei primi anni del xx secolo, consiste in un allenamento a rilassarsi che l’individuo si genera da se stesso. Allenamento che richiede un’applicazione quotidiana di almeno 10 minuti consecutivi per alcuni mesi. Questa impostazione rivela che lo stato psicologico chiamato rilassamento  è una condizione che può essere ottenuta in modo volontario attraverso un’attività che è assolutamente analoga a quella che ogni persona ha effettuato ogni volta che ha imparato qualcosa di nuovo sia esso un’attività cognitiva come è stato a scuola per la matematica e l’italiano o un’attività motoria o sportiva.

Il segreto risiede nella disponibilità a volere imparare, nel seguire un metodo corretto e nella ripetizione per un periodo di tempo sufficiente a sviluppare il livello di abilità che si intende raggiungere o che è necessario per superare con successo determinate condizioni psicologiche, come ad esempio l’ansia prima di un evento personalmente importante.

Napoli: ansia da prestazione?

Si parla, in questi giorni, dell’ansia da prestazione che avrebbe ostacolato il Napoli almeno nelle ultime due partite, importanti per restare tra le favorite al titolo finale. Attribuire i risultati negativi di una squadra a questa dimensione psicologica ha avuto molto successo tra i media. Vuol dire sentirsi insicuri nei momenti decisivi del campionato, con l’effetto di fornire prestazioni insoddisfacenti. E’ un ragionamento che etichetta una squadra ed esprime una condizione psicologica collettiva invalidante. Fossi un allenatore rifiuterei questa spiegazione chiedendomi: “In che modo i calciatori devono interagire in campo allo scopo di mostrarsi uniti e fiduciosi delle proprie competenze di squadra?”. Mi chiederei anche “Come posso stimolare prestazioni che sono superiori a quelle che ognuno potrebbe fornire singolarmente?”. Napoleone era solito affermare di vincere le sue battaglie anche con i sogni dei suoi soldati, questa frase è una metafora efficace di cosa si debba intendere per efficacia di squadra. In questo modo non si parla più di ansia ma di efficacia collettiva e di come allenarla. Il tema consiste nel comprendere quale sia l’approccio comportamentale necessario per raggiungere la vittoria, fornendo a ogni calciatore compiti precisi e diversi per ognuno, così che quando qualcuno commette un errore gli altri sanno cosa fare. Ogni giocatore deve conoscere ed essere artefice di un pezzo della storia che la squadra sta costruendo con il trascorrere dei minuti e questo orientamento al compito deve essere allenato in modo specifico durante le settimane. Non è comunque una questione solo tecnico-tattica, richiede che ogni calciatore si percepisca parte attiva di un programma che va oltre la sua persona e che riguarda il successo della squadra. Sviluppando questa mentalità collettiva si potrà uscire efficacemente dalle situazioni di maggiore pressione agonistica, senza lasciarsi cadere nel vittimismo insito nella spiegazione che attribuisce gli insuccessi all’ansia, manifestazione di un limite caratteriale che richiede tempi lunghi  per cambiare mentre il campionato muovendosi su appuntamenti settimanali necessita di una grande disponibilità al cambiamento. Quindi la domanda non riguarda tanto se i calciatori sono ansiosi ma quanto sono disponibili a cambiare con rapidità comportamenti non efficaci.

Master per Allenatori in Tecniche di Ottimizzazione della Performance Sportiva

Nello sport si parla molto di come sviluppare le competenze psicologiche degli atleti. In questi ultimi 30 anni sono stati formulati programmi che prevedono l’apprendimento delle abilità mentali di base a partire dalla fine dell’infanzia, per poi giungere negli anni dell’adolescenza a piani di allenamento specifici per ogni disciplina sportiva e, infine, a programmi altamente personalizzati per gli atleti di livello assoluto. Un programma così diversificato non è stato invece proposto per chi ricopre la responsabilità di guidare i giovani attraverso queste fasi della loro vita sportiva: gli allenatori.

Le ricerche evidenziano che gli atleti vincenti richiedono allenatori che siano eccellenti, non solo per i programmi di allenamento che propongono ma come leader che li guidano con competenze tecnica e psicologica. Lo stesso sostengono allenatori come José Mourinho quando afferma che chi conosce solo di sport non sarà mai un allenatore di successo, o Jurgen Klopp quando dice che: “Bisogna servirsi della tattica con il cuore. La partita va vissuta intensamente altrimenti è noia”. O Pierluigi Pescosolido, Fiamme oro e allenatore di molti campioni del tiro a volo, con cui da molti anni ci confrontiamo per migliorare continuamente l’allenamento di questi atleti di livello assoluto parlando della gestione della loro vita, della concentrazione nei momenti decisivi, delle competizioni ma anche di come insegnare queste competenze ai giovani junior che si affacciano per la prima volta al mondo competitivo.

Emerge così con forza la rilevanza della dimensione psicologica del lavoro dell’allenatore a livello giovanile e assoluto. Sono queste le ragioni che mi hanno convinto ad accettare l’invito di Psicosport, l’organizzazione che da 28 anni realizza il più longevo e di successo Master in Psicologia dello Sport, a promuovere insieme a un gruppo di esperti un Master TOP per allenatori in Tecniche di Ottimizzazione della Performance Sportiva. L’obiettivo è duplice:

  • Migliorarne le competenze psicologiche in qualità di specialisti della Prestazione.
  • Ottimizzare le loro abilità nel supportare gli atleti a costruire un profilo vincente in ogni impegno della vita sportiva.
Il Master prevede tre moduli formativi:
  1. Auto-sviluppo – Sviluppare le risorse dell’allenatore e la sua comprensione psicologica degli sport.
  2. Eccellenza – Identificare le aree di miglioramento dell’allenatore e sviluppare un piano di azione personale.
  3. Leadership – Conoscere e applicare gli stili di leadership più efficaci.
E’ l’inizio di una nuova impresa. Chi desidera avere più informazioni può visitare il sito di Psicosport.

Il respiro può bloccare le prestazioni e il benessere

Si può svolgere qualsiasi attività

per promuovere benessere e sviluppare competenze

per allenarsi e per gareggiare

ma

ogni azione motoria, sportiva e mentale è regolata dal nostro respiro

e se respiri male non otterrai i risultati per cui ti alleni.

Le 10 regole per allenarsi con successo

Le 10 regole per allenarsi con successo

  1. Avere consapevolezza di sè – Lo scopo dell’allenamento è il miglioramento e l’ottimizzazione di tutte le competenze dell’atleta e lo sviluppo della consapevolezza di ciò che sa fare, di quello che deve ancora migliorare e di ciò che deve imparare.
  2. Volere imparare - L’atleta vive in un costante processo di miglioramento delle sue prestazioni e deve esserne pienamente consapevole
  3. Riconoscere le opportunità - L’allenamento è costituito da un insieme di situazioni da affrontare e risolvere con il massimo dell’impegno.
  4. Impegnarsi con costanza e precisione - La motivazione si fonda su questi due aspetti che sono alla base di qualsiasi attività in cui l’atleta è impegnato.
  5. Volere rischiare - L’allenamento non è una scienza esatta e anche le migliori proposte si basano sulla volontà dell’atleta di correre il rischio di sbagliare.
  6. Tollerare le difficoltà - L’atleta deve essere consapevole che ogni volta che raggiunge un livello di performance superiore a quello precedente, stacca il biglietto per affrontare nuove difficoltà.
  7. Accettare le sconfitte - Nello sport si commettono continuamente errori che devono essere accettati come fatti non evitabili; per i top atleti possono essere poco frequenti ma spesso sono  comunque decisivi a impedire una prestazione vincente.
  8. Dare importanza al tempo - Per diventare “bravi” ci vuole molto tempo e l’atleta deve essere pienamente consapevole di questa condizione.
  9. Collaborare con allenatori e staff - Riconoscere la leadership dell’allenatore e dello staff è un fattore decisivo per il successo di un atleta.
  10. Analizzare le proprie prestazioni - L’atleta deve sapere valutare con criteri specifici e precisi le sue prestazioni, senza valutarle solo in termini di risultato.

 

Come il pensare in positivo può distruggere le proprie prestazioni

Quante volte abbiamo sentito dire che bisogna essere ottimisti, che bisogna crederci che si può vincere, o che “con tutto quello che hai fatto ti meriti proprio di raggiungere un grande risultato”.

Apparentemente non c’è nulla di sbagliato a pensare in questo modo , “è così che ci si carica” dicono in molti. Dicono anche “che dovrei dirgli: di perdere? Nessuno entra su un campo per uscirne sconfitto e, quindi, si deve iniziare la gara con la volontà di vincerla, perché se neanche lo pensi come farai a ottenerla?”.

Insomma, “pensa in positivo e vedrai che accadrà quello che vuoi”.

Ebbene tutti questi bei pensieri sono sicuramente inutili e possono diventare dannosi, poiché alle prime difficoltà ed errori durante la gara, l’atleta non sarà pronto a reagire immediatamente poiché si aspetta di vincere, è cioè focalizzato sul risultato e non su quello che deve fare per ottenerlo.

“Ero pronto … e poi le cose non sono andate come avevo previsto”. Queste sono spesso le parole di chi entra con un atteggiamento troppo fiducioso e poi al termine della prestazione attribuisce a qualcosa fuori di sé il risultato, senza assumersi la responsabilità di quanto è successo.

Questi pensieri, che rappresentano le aspettative dell’atleta sulla sua gara, possono realmente considerarsi come i killer della prestazione. Sono stupiti dai loro stessi errori e dalle difficoltà che incontrano in gara e non si sono preparati un piano per reagire efficacemente a queste situazioni.

Il ruolo delle emozioni e dell’attivazione nello sport

Non è abbastanza ripetuto che le attività sportive, ma non solo loro, dovrebbero suscitare livelli elevati di attivazione fisica e mentale ed essere percepite come sostanzialmente piacevoli.

Sappiamo che molte persone si stimolano anche attraverso l’uso della rabbia e dell’ansia, direi però che non sono modalità costruttive e orientate al benessere da insegnare agli atleti più giovani. Anche i professionisti dello sport (atleti/e di livello internazionale) devono imparare a gestire i momenti di difficoltà e di pressione agonistica con lo stesso approccio, traendo piacere e non sofferenza dalla loro attività. Infatti, che senso può avere esser un atleta di livello assoluto e vivere le proprie prestazioni con paura/rabbia e una sensazione di spiacevolezza.

Gli errori che derivano da uno scarso allenamento alla consapevolezza

Se i tuoi atleti commettono qualcuno di questi errori, vuol dire che non gli hai insegnato a dare valore a quello per cui s’impegnano in allenamento:

  1. Quando gli chiedi di fare un respiro profondo, sbuffano o sospirano
  2. Senza alcuna ragione variano i tempi e modi del riscaldamento
  3. Dicono: “Ma io pensavo di essere pronto mentre invece…”
  4. Si arrabbiano o si deludono con facilità anche in allenamento
  5. In allenamento hanno obiettivi di risultato e raramente di processo
  6. Sono concentrati sui risultati della loro azione sportiva e non su come realizzarla con efficacia
  7. Non sono consapevoli che è come ti prepari che determina la qualità della prestazione
  8. Pensano che avendo imparato la tecnica, allora sapranno anche gareggiare
  9. S’illudono di fare bene, solo perché l’hanno fatto in precedenza e non sono consapevoli che ogni volta è diverso e l’impegno deve essere costante
  10. Di solito dai loro campioni preferiti prendono solo i comportamenti più superficiali e più di moda

Il sovraccarico emotivo colpisce anche i migliori atleti

Il TAIS è un sistema di valutazione dello stile attentivo e interpersonale e questi dati evidenziano su dati di élite che il sovraccarico emotivo è una componente importante che limita le prestazioni anche negli atleti top, quali sono i detentori di record del mondo, che invece risentono di meno rispetto agli gruppi delle distrazioni ambientali e e del sovraccarico mentale di tipo cognitivo.Questo spiega anche la ragione per cui gli atleti di vertice si servono di programmi di preparazione psicologica per ridurre lo stress agonistico.