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Perdere perchè la squadra non è stata rilassata

L’altra sera durante la finale dei campionati europei di pallavolo, l’allenatore italiano Ferdinando De Giorgi durante un timeout ha pronunciato una parola che in questi anni nello sport si è sentita poco. Il termine è rilassati, voleva che i giocatori fossero più calmi, meno frettolosi e imprecisi.

Personalmente, sono molto legato a questa che non è solo una parola ma esprime un concetto e direi un modo di vivere. Ho imparato le tecniche di rilassamento quando avevo 21 anni e non ho più abbandonato questo approccio che mi accompagna nella vita quotidiana. Ho studiato per anni l’importanza dell’equilibrio fra incitamento e calma nel lavoro e nel tempo libero, in allenamento e in gara.

La nostra società è evoluta verso un modello prestativo aggressivo, si deve sempre spingere, giocare in attacco, osare, vivere felicemente gli stress. Questa è la fase dell’incitamento e risponde alla filosofia che lo stress è un privilegio ma siamo sicuri che anche all’altro polo della questione, la calma, viene posta la stessa attenzione? Dalla mia esperienza sono giunto alla conclusione che la calma viene più spesso interpretata solo come una condizione da perseguire perchè non ci si può solo e sempre spremere come un limone altrimenti il corpo si spezza. Quindi la calma viene considerata non come l’latro polo della condizione umana ma come espressione di un limite a cui si deve sottostare.

Per questi motivi, un allenatore che durante una finale europea che la sua squadra sta perdendo dice: rilassati, appartiene a un altro pianeta. Quello in cui il rilassato e la calma sono delle capacità positive e indispensabili e non limiti a cui sottostare.

 

Le idee e gli errori di Davide Mazzanti

Il tema dell’esclusione del giocatore migliore per esplicita scelta del commissario tecnico di una nazionale è un argomento che si ripresenta nelle squadra più diverse grosso modo sempre con le stesse spiegazioni.

L’ultimo caso, si riferisce alla nazionale femminile di pallavolo il cui commissario tecnico ha preferito una giovane giocatrice di 20 anni con una ridotta esperienza internazionale alla campionessa Paola Egonu. La spiegazione fornita nelle interviste da Davide Mazzanti è chiara: “All’interno è tutto più chiaro, non faccio le mie scelte per convenienza ma per quelle che sono le mie linee”.

Premesso che sarebbe stato interessante che avesse spiegato cosa è più chiaro nella squadra rispetto a chi può solo raccogliere informazioni guardando le partite, direi che la seconda parte della frase è un’espressione tipica di chi sente attaccato e difende rigidamente le sue idee. Quindi seguire le sue idee significa escludere quella che è considerata essere la più forte giocatrice al mondo, mentre farla giocare da titolare vorrebbe dire piegarsi a una scelta di convenienza.

Diciamo pure che dalle sue parole si capisce vi sono problemi di leadership ed, evidentemente interpersonali, all’interno del team, allenatore compreso, determinati dalla presenza di questa giocatrice che superano i benefici derivati dal suo valore sportivo. Meglio allora una giovane Andropova, riconoscente per il ruolo inaspettato che le viene offerto che favorisce, secondo il tecnico, una migliore coesione di squadra.

Questo stile di leadership non deve stupire, lo sport di squadra è costellato di storie di questo genere. Spalletti con Totti, Sacchi con Baggio, Valcareggi con la staffetta tra Mazzola e Rivera. Per cui non è mio scopo discuter se queste scelte sono giuste sbagliate, tantomeno esprimere giudizi di valore. In questo sport di livello assoluto, vi è un unico parametro su cui tutti siamo confrontati, la vittoria. La nazionale femminile ha perso, per cui alcune scelte sono state sbagliate e vanno corrette in modo pragmatico. Il ruolo della giocatrice Egonu va interpretato secondo questa logica, consapevoli che vi sono stati anche altri limiti che sono emersi nelle ultime due partite.

Personalmente penso che in nazionale vadano fatte giocare le giocatrici che hanno dimostrato di essere le più forti e che nei loro Club sono abituate a vincere, perchè questo tipo di esperienza è estremamente rilevante per giocare i punti decisivi delle partite e per avere cura di quei dettagli che evitano gli errori nelle fasi di maggiore stress agonistico. Partendo da questa base a seguire si costruisce la coesione in campo e l’unione con le idee dell’allenatore.

 

La preparazione psicologica nella pallavolo: era il 1984

 ”Le atlete devono avere la testa calma. E’ questo il vostro obiettivo”. Bu Quinxia, cinese, allenatore della nazionale juniores di pallavolo, non ha fatto altre raccomandazioni alla équipe di psicologi che sta seguendo da tempo campionato e manifestazioni internazionali. Il volley è uno sport di “situazione”, che richiede rapidissimi adattamenti al mutare del gioco. Uno sport che crea continue tensioni. “Giocare a pallavolo – dice Pittera, coordinatore delle nazionali – è come fare una partita a scacchi a 120 chilometri l’ ora”. Nel calcio è più facile respirare. In parte si spiega così il massiccio intervento degli psicologi. “Bisogna però chiarire il nostro ruolo – dice Alberto Cei – noi non abbiamo lavorato sulla patologia dell’ atleta. Nessuno stava male… Nella formazione di un gruppo squadra il controllo emotivo, la concentrazione sono fondamentali e vanno seguiti. Risultati? “Ottimi a livello agonistico, ma ovviamente il merito non è nostro. L’ Italia è arrivata seconda agli europei juniores dietro l’ Urss, ma soltanto per differenza set. Le due “under 17″ hanno vinto importanti tornei internazionali. A noi comunque interessa approfondire un altro discorso: l’ introduzione di tecniche di rilassamento subito prima della partita ha avuto ottimi effetti. E’ un lavoro lungo; questi atleti vanno seguiti fino alla Nazionale. Crescono giocando a pallavolo”. Un metodo quasi russo… “Forse sì, se il nostro lavoro significa seguire passo passo l’ evoluzione di un ragazzo. Ci sono ad esempio, com’ è chiaro, differenze fondamentali tra uomini e donne. I maschi partono già più motivati al successo sportivo. Le ragazze sono più attente invece ai rapporti interpersonali. Parlano di più tra di loro, si difendono da un ambiente che è ancora troppo maschile: hanno certamente più difficoltà a sentirsi brave”. E gli allenatori? “Gli allenatori – dice Davide Ceridono – ci hanno accolto bene. E’ ormai scomparsa la figura del tecnico unico responsabile della conduzione. Anche tra di loro tendono a completarsi a vicenda. Senza considerare che spesso la comunicazione non passa attraverso le parole. Bu Quinxia saprà in tutto trenta parole d’ italiano”. In generale è possibile parlare di disagio per certi atleti? “Si tratta di atleti che hanno molte gratificazioni. A parte quelle finanziarie, sono spesso piccoli eroi di provincia, girano il mondo a vent’ anni”. Come si potrebbe riassumere il vostro intervento? “Sono quattro gli obiettivi: 1) controllo emotivo, 2) concentrazione; 3) recupero dell’ energia; 4) intervento sul gruppo. Necessario sottolineare l’ importanza della coesione: la squadra è fatta da sei che giocano e quattro che stanno in panchina. Motivare anche chi resta fuori non è facile. Specialmente se si giocano trenta incontri internazionali in quattro mesi. Del resto anche Liedholm disse una volta che Superchi aveva avuto grandi meriti nello scudetto della Roma. Eppure Superchi non era mai entrato”. Ceridono e Cei hanno anche compiuto, insieme al prof. Scilligo, Chiara Bergerone e Franca Formica, una ricerca sulle “relazioni tra processi intrapsichici e interpersonali e prestazione sportiva”. Sono stati studiati i comportamenti di 255 atleti, appartenenti a 30 squadre di A/1 e A/2. I risultati sono interessanti. “I giocatori di alta classifica – ad esempio – hanno dimostrato una notevole capacità di proteggersi, di curare i propri interessi, di raccogliere informazioni ed esaminare realisticamente se stessi. In loro è stato individuato un minor grado di trascuratezza e rifiuto di sè. La stessa visione della vita viene fuori dai rapporti con la squadra. Nei loro confronti essa si pone in modo liberale, accogliente, premuroso e direttivo”. Al contrario, i giocatori di bassa e media classifica percepiscono nella maggior parte dei casi la squadra come punitiva, ostile o assente”. Un dubbio: e se fossero i risultati a influenzare tali comportamenti? “In parte è così: cambia però la reazione davanti alla sconfitta. Non si è mai primi per caso”.

Il fragile umore dell’Italia della pallavolo

“Fa male” dice il ct della nazionale femminile di pallavolo Davide Mazzanti, al termine del match perso contro il Brasile nella semifinale dei campionati del mondo. “Ci siamo resi conto da subito che sarebbe stata una partita faticosa per noi; anche nelle difficoltà comunque abbiamo avuto la possibilità di girare la partita, ma è indubbio che quel finale di terzo set a livello psicologico ci ha un po’ tagliato le gambe. Nel quarto set infatti non siamo rientrati in campo con la giusta lucidità, con il set abbiamo perso anche la consapevolezza di poter star davanti a loro. Quella di stasera era una partita nella quale avremmo dovuto scegliere bene i colpi e invece abbiamo aspettato sempre troppo. Sarà difficile sabato perché non è la finale che avremmo voluto giocare; ora abbiamo un po’ di tempo per guardarci in faccia e andare in campo per fare il nostro”.

Questa valutazione ci permette di capire cosa si debba intendere per pressione psicologica quando si giocano partite di livello assoluto. Anche solo un errore come quello della Egonu nel finale del terzo set che avrebbe permesso all’Italia di andare 2-1 possono avere un effetto negativo micidiale tagliare le gambe come ha detto Mazzanti. Questi fatti ci dicono quanto sia elevato il livello di stress psicologico che vivono le squadre e come l’equilibrio mentale possa essere rotto da singoli episodi.

Questo è il bello dello sport di livello assoluto non solo la qualità del gioco ma quanto questo sia determinato dalla condizione psicologica che a sua volta può variare a seguito di singoli episodi. Tutto può cambiare in un’istante ed è estremamente difficile sapere reagire e non subire questi momenti. La soluzione va oltre l’allenamento, la preparazione mentale e l’aver già giocato partite di questo livello. Servono giocatrici che sappiano trasmettere fiducia e incoraggiamento in modo continuo e con intensità, poiché se è vero che singoli episodi cambiano l’umore della squadra, allora lo può essere anche in senso positivo e, quindi, qualcuna deve prendersi questa responsabilità.

Allenare la mentalità per avere squadre di successo

Da tempo le nazionali degli sport di squadra non vincono più e presidenti di federazione e club si accusano vicendevolmente di fare poco per affrontare seriamente questo problema. Al di là di questa lotta sterile che evidenzia paradossalmente la difficoltà a ‘fare squadra’ per un interesse superiore alle singole esigenze, ciò che manca è il sapere come si sviluppa a lungo termine l’atleta. Sappiamo per certo che ci vogliono anni d’investimento, probabilmente almeno 10.000 ore di allenamento dall’inizio della pratica dello sport scelto sino a diventare giocatori esperti e maturi per affrontare eventi di livello internazionale. Abbiamo tanti presunti campioncini che non diventeranno mai giocatori di prima fascia per un eccesso di valutazione positiva quando sono adolescenti mentre i genitori si gratificano pensando di avere scoperto in casa un Totti, solo perché il loro figlio è più bravo dei suoi compagni o nella pallavolo e basket solo perché a 13/14 anni è più alto degli altri e allora ha vita facile a fare i punti. I genitori si entusiasmano, i club li sfruttano e l’anno successivo un altro diventa più bravo di loro e così avanti, il risultato è che si rovina l’autostima dei ragazzi che non sanno a cosa credere: ‘sono bravo oppure no?’.

In Italia la ricerca psicologica in questo ambito non è sviluppata perché difficilmente le squadre mettono a disposizione i loro giocatori per indagare sullo sviluppo psicologico di questi giovani. Non è lo stesso in paesi come il Regno Unito dove molte Football Academy hanno adottato un sistema denominato 5C’s che è un modello per sviluppare le abilità psicologiche (concentrazione, impegno, comunicazione, controllo e fiducia) durante le sessioni di allenamento. Lo stesso vale ad esempio in US per la Little League di Baseball, dove da 40 anno si utilizza sul campo un sistema per monitorare il comportamento dell’allenatore, il Coaching Behavioral Assessment System, che ne permette l’esame e fornisce al tecnico informazioni utili per migliorare professionalmente, tratte direttamente dal suo modo di lavorare con i giovani. Esistono, inoltre, sistemi per il miglioramento della concentrazione nelle abilità di precisione, trasversali a tutti gli sport di squadra come sono i calci di rigore, la battuta nella pallavolo, il tiro libero nel basket e i calci nel rugby, che potrebbero insegnare ai giocatori come affrontare queste situazioni, che dipendono in larga parte solo dalla convinzione che hanno in quel momento di fare nel modo migliore la cosa giusta.  L’utilizzo di questi approcci integrati nell’allenamento determinerebbe un migliore sviluppo dei giovani negli sport, potenziando in loro le competenze psicologiche di base, che saranno certamente utili anche nella vita di tutti i giorni ma che sarebbero di grande sostegno alle loro prestazioni che non sono mai solo tecniche. Rappresentano invece l’espressione massima del giocatore nella sua globalità fisica, tecnico-tattica e psicologica. Senza questo tipo di sviluppo personale e di gruppo sarà sempre difficile, al di là di qualsiasi forma organizzativa venga adottata dagli organismi sportivi, allenare futuri giocatori di successo.

Tuo figlio ha le caratteristiche per una carriera d’atleta?

Leggo oggi su Repubblica un’intervista alla giovane nazionale di pallavolo Valentina Diouf che alla domanda su quanto è importante la famiglia per uno sportivo risponde:

“E’ fondamentale. Bisogna capire se un figlio ha le caratteristiche per una carriera nello sport, sennò lo rovini”.

Condivido totalmente questa risposta e ritengo che la famiglia non possa sottrarsi a svolgere questa funzione educativa. Purtroppo molti genitori vivono, invece, nella speranza che il loro figlio/a diventi un campione e questo avviene non solo in quegli sport in cui il successo si associa alla ricchezza economica che si potrebbe raggiungere ma in qualsiasi sport che sia il tiro al piattello o la pallavolo. Questi ragazzi vivono in situazioni familiari in cui i genitori realizzano i loro sogni di successo attraverso quello dei figli. Oggi rispetto al passato è possibile ipotizzare una carriera sportiva per un giovane adolescente ma questa deve conciliarsi con l’altro impegno fondamentale, la scuola. Il tennis è uno degli sport in cui è più scandaloso questo approccio al successo, che per il 90% dei tennisti non avverrà. Raramente le famiglie si rendono conto che i loro figli non diventeranno mai tennisti di alto livello, perché è più facile per tutti sperare nel prossimo torneo o cambiare allenatore. E’ frequente che questi ragazzi/e abbiamo avuto un percorso scolastico facilitato, per cui l’idea di continuare gli studi è una scelta molto difficile perché non hanno acquisito le competenze per sapere come studiare e  ciò si accompagna spesso alla mancanza di altri interessi oltre il tennis. Per loro spesso l’unica possibilità è diventare insegnanti e in un futuro maestri di tennis. Lavoro bello e interessante ma come farlo, se non si possiede la cultura scientifica e sportiva necessaria. Come insegnare qualcosa in cui si è falliti come giocatori senza avere un percorso personale di sviluppo individuale?

Naturalmente di questi aspetti nessuno se ne occupa, poiché ai Circoli di tennis e alla Federazione interessano solo coloro che giocano mentre gli altri sono un peso da nascondere e da evitare. In tal senso i genitori sono anche soli in questo loro impegno educativo e non è prevista nessuna forma sistematica di sostegno e magari anche di educazione rivolta a loro stessi.

Recensione libro: Attività motoria-cognitiva nella scuola primaria

Attività Motoria-Cognitiva nella Scuola Primaria

Carmelo Pittera

2014, p. 127

Euro Centro Studi “Gabbiano d’Argento”

Ho conosciuto Carmelo Pittera più di 30 anni fa, ero molto giovane mentre lui aveva già raggiunto come allenatore della nazionale di pallavolo il 2° posto ai mondiali. Negli anni seguenti siamo diventati esperti nella comprensione del movimento dei bambini, lavorando sui suoi insight. Carmelo ha continuato a lavorare in questa direzione e ora ha pubblicato un nuovo programma chiamato SELL. In questi anni lo ha applicato in Nord Iralia (Gorizia), in Slovenia e in Argentina. Lo considero un approccio nuovo basato su un solido background teorico, è innovativo e ogni insegnante lo può facilmente introdurre in classe. Ritornerò in futuro su questo progetto che volevo iniziare a condividere con voi e della cui innovatività e validità ne sono convinto.

Ciò che segue è l’introduzione di Carmelo Pittera a questo progetto.

Il mio interesse nei riguardi del Minivolley inizia sul finire degli anni settanta, quando conobbi colui che possiamo definire come l’inventore del Minivolley, il professore Horst Baacke, che aveva introdotto nella Germania dell’Est una prima forma di pallavolo per gruppi di bambini dai dieci a dodici anni.

Dal punto di vista culturale e didattico, ero scettico circa i vari aspetti della specializzazione precoce nei giochi sportivi, principalmente a causa della definizione proprio di Minisport. Ero tuttavia convinto che nei bambini da otto a dieci anni l’educazione motoria deve essere considerata un’attività al servizio dello sviluppo integrale del bambino. È realmente importante che i percorsi educativo – motori lo aiutino nella sulla crescita globale.

Così vide la luce la prima bozza del “Sillabario Motorio”, che rappresentò, personalmente, il punto di partenza del sistema SELL (Segnalazione, Esecuzione, Lettura, Lateralizzazione) e anche la mia prima produzione e applicazione dello studio personale menzionato precedentemente. Al sillabario motorio fece seguito la pubblicazione di “L’alfabeto del movimento”, che raccolse i risultati ottenuti nella ricerca sulla “fase espressivo – analogica” dell’educazione motoria. Pubblicato in quattro volumi, la parte pedagogica fu scritta da esperti in educazione primaria e psicologi.
Il SELL è un sistema educativo che ha come obiettivo l’insegnamento, la strutturazione e l’implementazione di “circuiti” neurali che interessano, partendo dall’area motoria, gli aspetti cognitivi. Sviluppa nei bambini, non solo la possibilità di interagire con altri (socializzazione), ma anche la possibilità di fare in modo migliore le cose con gli altri (cooperazione). Si può definire come:

  • Attività intuitiva, indotta dall’ Osservatore (o il Segnalatore), attraverso quattro mediatori: attività (esperienza diretta), iconici (disegni), analogici (drammatizzazione) e simbolici (colori e numeri, fra gli altri per rappresentare le variabili e le loro relazioni);
  • Un percorso attraverso il quale l’Osservatore costruisce contesti di apprendimento nei quali il bambino è portato a porsi domande piuttosto che aspettare risposte predefinite.
  • Un linguaggio uniforme, uguale per tutti, che non richiede parole specifiche, facilmente accessibile in quanto adattato al potenziale motorio e cognitivo del bambino.

S.E.L.L. (Segnale, Lettura, Esecuzione, Lateralizzazione) si struttura in quattro parti:

  • Il Sistema Analogico Espressivo è un percorso teorico – pratico per l’attivazione dei circuiti di apprendimento motorio e cognitivo a partire dai 4 anni. E’ strutturato in vari percorsi didattici utilizzando le possibilità ambientali o corpo libero combinato con la parete e il suolo; o giochi di costruzione di figure e simboli con la bacchetta combinandoli con il proprio corpo e quello dei compagni; o analogie con il mondo animale e naturale combinate con colori e a corpo libero; o giochi con materiale didattico semplice (palloncini, carte, etc.).
  • Il Sistema Analogico Simbolico ottico e acustico per il miglioramento degli schemi motori di base dagli 8 ai 12 anni: correre, saltare, lanciare, afferrare. Le azioni sono relazionate alla lateralizzazione e al rendimento oculo – manuale e oculo – podalico, all’equilibrio, ai sistemi di accelerazione e decelerazione sia del centro di gravità così come dei distinti segmenti corporei. Tutto questo si raggiunge attraverso simboli, elementi semplici e con gruppi specifici creati in modo speciale dal sistema SELL.
  • Il Sistema di Lateralizzazione, con e senza gruppo. Questo sistema è stato creato per facilitare lo sviluppo armonioso nella crescita motoria del bambino e nelle prestazioni relative ai “gradi di libertà”, con un’attenzione particolare ai problemi della parte non dominante del corpo.
  • Il Sistema di appoggio nello sviluppo dell’Analogico Espressivo, dell’Analogico Simbolico ottico e acustico, con materiali di carta e apparecchiature informatiche per facilitare l’apprendimento in aula e a casa.

I materiali sono costituiti da:

  • Il semaforo e il gioco del burattino;
  • Gli occhi direzionali, ipotetici o realmente rappresentati sulla maglietta oppure sulla punta delle scarpe;
  • La visualizzazione mentale: occhio della mente;
  •  L’attività oculo – manuali/podaliche sviluppate mediante l’uso di elementi convenzionali (palle, elastici, etc.) oppure non convenzionali (giornali, bottiglie vuote e altro).

Il gioco del semaforo e dei burattini, gli occhi direzionali e la visualizzazione mentale devono essere conosciuti e interiorizzati dai bambini prima di iniziare le unità didattiche dell’Espressivo Analogico e dell’Analogico Simbolico Ottico ed Acustico SELL.

Semaforo e il “gioco del burattino”
Durante le nostre lezioni pratiche, notiamo che l’imitazione dei bambini è spesso inesatta. Con i ricercatori del Sistema SELL si è cercato di risolvere questo problema cercando soluzioni adatte alle caratteristiche dei bambini.
Dopo vari tentativi siamo arrivati al “Gioco del semaforo”. La scelta di questo simbolo è stata adottata dopo aver avuto la prova della conoscenza universale dell’oggetto da parte dei bambini. Abbiamo individuato il simbolo del semaforo insieme all’immagine dell’ “Uomo di Vitruvio” di Leonardo da Vinci, modificato dal punto di vista cromatico con il fine di relazionare le diverse parti del corpo umano con i colori di questo simbolo.
La simbologia utilizzata, oltre ad aumentare il focus attentivo, ha un’influenza considerevole nello sviluppo dell’immaginazione e, di conseguenza, nella creatività delle forme. Permette ai bambini di migliorare la conoscenza della struttura del proprio corpo e all’insegnante, insieme ai bambini, di sviluppare nuove forme di gioco migliorando la stabilizzazione dei contenuti dell’insegnamento.

 

 

La faccia di chi vuole vincere

Questa è la faccia di chi vuole uscire da un brutto momento e vincere la partita. (L’italia di pallavolo stava perdendo 2-0 contro la Francia, poi è riuscita a ribaltare il risultato vincendo 3-2, grazie all’inserimento di giocatori che volevano vincere come l’alzatore Baranowicz).

Volley, Mondiali: l'Italia ritrova l'orgoglio, battuta in rimonta la Francia

L’Italia senza senso di appartenenza: tre sport, tre storie

Tre notizie che ho letto oggi sui giornali provenienti da sport diversi mi sembra abbiano un comune denominatore che rispecchia la carenza nel nostro paese del senso di appartenenza.

  1. La prima riguarda Alessio Cerci, giovane attaccante del Torino che va a giocare con l’Atletico Madrid campione Spagna. Così un altro giovane calciatore italiano lascia il paese (come Verratti, Immobile, Balotelli e altri) senza che nessuna squadra abbia fatto il possibile per trattenerlo. Certamente lui sarà molto soddisfatto, come gli altri, per la possibilità di giocare in una delle squadre europee più forti e per il salario percepito ma resto convinto che un paese che vuole essere vincente debba trattenere i talenti anziché lasciarli andare. Si può dire che i nostri club non fanno certo la guerra per avere i migliori.
  2. La seconda riguarda la nazionale di pallavolo che ha perso nella partita di esordio del mondiale 3-1 contro l’Iran. L’Italia è apparsa demotivata e poco aggressiva, ciò ha portato a percentuali di errori imbarazzanti. L’Iran ha mostrato l’atteggiamento opposto e ha meritato la vittoria. Si può vincere o perdere una partita ma dopo mesi di collegiali non si può iniziare un match importante con l’atteggiamento tipico di chi è destinato a subire. Gli italiani pensavano di vincere? Non credo, avevano già perso con l’Iran. In campo non si è visto  un leader capace di tenere unita e aggressiva la squadra, che facesse sentire l’importanza dell’impegno che dovevano affrontare. Dovrebbero essere atteggiamenti ormai ovvi;  gli atleti dovrebbero sapere a memoria come affrontare questi momenti negativi stimolando a vicenda il senso di appartenenza.
  3. La terza riguarda Daniele Meucci, vincitore della maratona agli europei di atletica leggera di quest’anno. Per continuare a studiare, ha dato 60 esami  d’ingegneria in 5 anni, e corre 180km la settimana. All’università non ha mai detto che era in nazionale perché probabilmente non l’avrebbero capito, e per correre esce al mattino alle 6 e poi di nuovo la sera sino alle 20, con il custode del campo che si lamenta con lui perché vorrebbe chiudere la pista prima dell’orario previsto. Un altro esempio di come l’Italia non aiuti lo sport, non c’è comunità con gli atleti e non viene stimolato neanche in questo caso il senso di appartenenza.  E giustamente Meucci dice: “Farò l’ingegnere: l’atletica passa, la vita resta”.

Gli errori degli arbitri

Inizia una nuova stagione agonistica, nel calcio come per gli altri sport di squadra, e gli arbitri svolgono un ruolo indispensabile per il corretto svolgimento del campionato. Ai direttori di gara non piace sentirsi dire che possono commettere errori per eccesso di arroganza personale e per eccesso di subordinazione nei confronti di squadre e giocatori. Non sto a parlare di incompetenza tecnica, perchè in questo caso lo sbaglio non è tanto dell’arbitro che mostra questa difficoltà, quanto piuttosto di chi lo ha designato per quella partita. Al contrario, anche l’arbitro internazionale più esperto può commettere errori dovuti a un eccesso di volontà d’imporsi o viceversa dovuti a una cautela eccessiva nei riguardi della squadra di casa, di quella più famosa o dei giocatori più importanti. Errori di presunzione o di soggezione nei confronti degli avversari si manifestano anche nelle squadre di alto livello, fanno parte di quei comportamenti in cui chiunque può cadere quando la tensione agonistica è molto intensa. La classe arbitrale e i suoi dirigenti non dovrebbero quindi negare errori di questo tipo, perchè possono manifestarsi anche nelle persone più competenti. Al contrario gli arbitri dovrebbero essere allenati a riconoscere quando questi atteggiamenti iniziano a manifestarsi nei loro comportamenti sul campo, così da correggerli immediatamente. Una regola che vorrei trasmettere agli arbitri è quella di non negare mai a se stessi un momento di difficoltà ma invece di riconoscerlo il prima possibile e cambiare il proprio comportamento in modo positivo.