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Juventus è vittima dei successi

La Juventus sembra vittima dei suoi propri successi (9 campionati consecutivi vinti). Quest’anno la squadra ha cambiato diversi giocatori ma quando si entra in un club con questi risultati alle spalle, si può tendere ad assumere una mentalità arrogante, centrata sui risultati del passato prossimo, ma che non appartiene al presente.

In questo modo, si può giocare una partita con un approccio mentale che tende ad aspettare l’inevitabile risultato positivo, la vittoria. Questo approccio può anche spiegare gli errori di superficialità commessi da Arthur contro il Benevento e da Bentancur in Champions League che hanno regalato un rete agli avversari.

Un primo errore tipico dell’arroganza risiede nella condizione che le regole normali per questa squadra non sono valide. I successi degli anni passati possono accecare la squadra, potandola a credere che una soluzione vincente è comunque sempre disponibile.

Un secondo errore di questa mentalità è la fiducia nelle proprie capacità di risolvere le partite. E’ certamente una convinzione positiva ma solo se si accompagna con l’impegno necessario altrimenti resta solo una speranza ottimistica.

Un terzo errore di questa mentalità arrogante risiede nelle spiegazioni fornite dall’allenatore, Andrea Pirlo, che interpreta, almeno pubblicamente, questi risultati negativi con alcuni errori di singoli giocatori. E’ ovvio che ci sono stati ma in una squadra questi errori di mentalità dei singoli si manifestano quando manca la coesione di squadra sull’impegno con cui affrontare le partite. Sono mancati i giocatori-leader che devono mantenere i livelli di focus elevati durante la partita senza che il gioco diventi impulsivo e troppo rapido.

Servono allenatori-leader.

“Sii sempre la versione migliore di te stesso e non la seconda versione di qualcun altro” diceva Judy Garland.

In questo periodo di crisi questa affermazione è più che mai attuale. Lo è per tutti ma ancora di più è una domanda a cui devono rispondere i leader, coloro che guidano e orientano gli altri.

La crisi sanitaria ha ripreso vigore e se in qualche misura il mondo delle multinazionali sta percorrendo delle strade per sostenere i loro leader e manager anche con la collaborazione delle più importanti società di consulenza, nel mondo dello sport italiano non si vede traccia di questa mentalità a partire dal calcio professionistico per giungere sino alle società sportive dilettantistiche. Se in NBA si propongono progetti specifici per potere permettere al pubblico di ritornare a vedere le partite, da noi si chiede più superficialmente di fare entrare allo stadio più persone sovrapponendo così l’obiettivo al mezzo. Senza spiegare come sia possibile salvaguardare la salute di tutti. Inoltre la litigiosità fra le diverse strutture dello stesso sport e la propensione a formulare proposte da “furbetti” sono l’altro elemento che non permette di formulare progetti documentati.

Andando a livello degli utilizzatori finali dello sport, anche in questo ambito, a mia conoscenza, non vi sono proposte. Allenatori e atleti sono lasciati da soli a vivere e gestire questo periodo di grande paura e difficoltà. Chi ha dovuto fermarsi e chi invece lavora sono costretti a vivere questo periodo facendo leva solo su se stessi e per quanto posso vedere dalla mia esperienza di questi mesi, le difficoltà si sono moltiplicate, molti hanno assunto un approccio solo pessimista o fatalista, mentre i più ottimisti hanno fatto leva sulla propria creatività ricercando e attuando soluzioni alternative pur di mantenere una presenza attiva.

“Viviamo nella paura” si sente dire sempre più spesso, non si ha più l’incoscienza dei primi mesi di lockdown, in cui si pensava che passato quel periodo si sarebbe tornati alla normalità, ora si vive l’angoscia di vivere una situazione che non si sa quando finirà e nel frattempo si vive alla giornata e ogni giorno aumentano le persone da noi conosciute che si ammalano.

E’ proprio ora che sentiamo di più questa solitudine sociale, che si somma non solo alla paura di ammalarsi di Covid-19 ma anche che ci possa succedere qualsiasi altro problema sanitario, per cui sappiamo che non saremo curati perché gli ospedali sono in crisi.

E’ in questo contesto che non possiamo lasciare soli le società sportive, gli allenatori e gli atleti, da quelli che si preparano per le prossime Olimpiadi ai giovani delle scuole calcio e di tutti gli sport, non dobbiamo lasciare soli neanche i giovani con disabilità per i quali lo sport è un’attività essenziale per il loro benessere e sviluppo.

In tal senso, nel rispetto delle regole formulate dal governo, sarebbe necessario che a partire dagli allenatori che hanno il rapporto diretto con gli atleti sia fornito un sostegno concreto (non solo economico) alla loro leadership per continuare a svolgere il loro lavoro sui campi per quelli a cui è permesso e a distanza per quegli sport che sono stati fermati.

In questo periodo, serve sviluppare e agire servendosi di queste competenze:

Calma e ottimismo intenzionale, essere fiduciosi ma consapevoli della gravità della situazione.

Ascoltare e condividere, i problemi e le paure delle persone con cui lavoriamo.

Agire, formulare programmi di allenamento adeguati alle situazioni in cui vivono le persone.

 

Le caratteristiche del leader in questi momenti di stress per il paese

I veri leader diventano particolarmente importanti nei periodi di maggiore stress. Quello che stiamo vivendo, con la diffusione del coronavirus, è uno di questi momenti in cui chi ricopre ruoli di responsabilità acquisisce maggiore visibilità, deve essere percepito come autorevole e deve  prendere decisioni che siano utili al benessere comune, dimostrando comprensione della situazione del paese.

I leader sono individui che dovrebbero trovarsi abbastanza a loro agio nell’affrontare prove difficili quali sono quelle che mettono a rischio:

  • il benessere e la salute delle persone di cui hanno responsabilità diretta (nel caso delle aziende) o indiretta (nel caso dei rappresentanti delle istituzioni pubbliche, della salute pubblica e degli enti locali),
  • l’ambiente geografico e sociale nel quale svolgono la loro attività,
  • il senso di responsabilità sociale e i valori su cui si basa l’organizzazione che guidano e gli interessi di tutti quelli che la sostengono.
Deve quindi prendere decisioni in accordo con questi tre fattori, in accordo e condividendole con le istituzioni pubbliche e quelle per lui di riferimento. Ciò richiede al leader conoscenza specifica della realtà presente, capacità di collaborazione con i rappresentanti delle altre entità organizzative coinvolte, consapevolezza e senso di responsabilità del valore sociale del proprio lavoro in questi momenti, sapere spiegare il significato delle proprie decisioni e avere conoscenza dei risultati che s’intende raggiungere con le scelte intraprese.
Ogni leader deve fare scelte anche difficili sapendo che devono essere ispirate a mantenere unito il tessuto sociale di cui ha la responsabilità in relazione all’ambito in cui opera. In questi giorni non è sufficiente pensare di parlare, che già avrebbe evitato errori incredibili ad alcuni dei nostri leader politici e del calcio. Prima ancora viene: documentarsi e condividere le proprie idee con chi ha competenze e svolge un ruolo specifico sui temi della salute pubblica.
Questa non è teoria ma serve per per svolgere una leadership socialmente responsabile.

Come deve costruire la coesione l’allenatore

In questo periodo iniziale della stagione sportiva dei giochi di squadra, mi viene spesso chiesto come migliorare la coesione di una squadra soprattutto da parte di chi lavora nelle squadre juniores e in quelle dei campionati che non giocano nei campionati di massimo livello. Faccio questo distinguo perché fra i coach è diffusa l’idea che avendo poco tempo a disposizione, tutto ciò che esula dal lavoro tecnico svolto in campo sia un lavoro superfluo, a cui non si ha tempo da dedicare, proprio perché: “Non siamo mica una squadra professionistica, dove i giocatori sono sempre a disposizione”.

Questo atteggiamento è la motivazione che spinge molti allenatori a ritenere che i giocatori debbano adattarsi al loro metodo di lavoro e alla gerarchie proposte. Preparazione fisica e tecnica/tattica la fanno da padroni e se qualcuno non è d’accordo, peggio per lui/lei.

La leadership si manifesta in sostanza con la somministrazione di un programma di allenamento che deve essere seguito senza discussioni. Si parte da considerazioni corrette (tempo limitato, poche risorse economiche, orari non ottimali) per giungere a conclusioni sbagliate. Chi si adatta è ok; chi non accetta questo approccio viene di solito etichettato come pigro, poco disposto a fare sacrifici o presuntuoso.

Purtroppo, la cultura del lavoro e la coesione di squadra sono fattori imprescindibili in uno sport di squadra e non si costruiscono con questo approccio. La prestazione di squadra trae invece la sua forza dall’allenamento quotidiano del concetto di NOI: la prestazione vincente nasce dall’integrazione del comportamento di vari giocatori, per cui bisogna insegnare a più persone a fare bene cose diverse, insieme e contemporaneamente.

L’allenatore deve:

  1. Favorire la partecipazione, ascoltando le indicazioni dei giocatori
  2. Evitare i favoritismi
  3. Premiare i comportamenti altruistici
  4. Ridurre i comportamenti individualistici
  5. Attribuire a ognuno obiettivi sfidanti e raggiungibili
  6. Attribuire a ogni giocatore un ruolo specifico
  7. Favorire un clima di allenamento orientato all’apprendimento e collaborazione
  8. Stimolare l’impegno massimo e rinforzarlo costantemente
  9. Sostenere sempre la squadra quando è in difficoltà
  10. Spendere del tempo per valutare con atleti l’impegno profuso in allenamento
  11. Analizzare freddamente con la squadra i risultati delle partite

La domanda per gli allenatori è: quanto tempo dedichi allo sviluppo di questi fattori della prestazione?

#Leader

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L’ottimista supera le difficoltà

I dati di ricerca a favore di leader ottimisti sono piuttosto consistenti. Queste persone dimostrano che sanno oltrepassare le difficoltà, vedendo nei problemi un’opportunità piuttosto che una minaccia. Questi leader vedono gli altri positivamente, aspettandosi il meglio da loro.

Nel dettaglio gli atteggiamenti degli ottimisti e dei pessimisti sono così identificabili:

  1. L’ottimista accetta gli eventi stressanti, imparando qualcosa da queste situazioni; mentre il pessimista non affronta le situazioni che possono essere fonte di stress e mostra una ridotta consapevolezza dei problemi.
  2. L’ottimista è concentrato sul compito che sta svolgendo, mentre il pessimista è focalizzato sugli aspetti negativi delle esperienze.
  3. L’ottimista è orientato a trovare la soluzione più adatta, mentre il pessimista si preoccupa e sviluppa pensieri ripetitivi negativi.
  4. L’ottimista regola in modo efficace le sue reazioni emotive, mentre il pessimista sfugge ai problemi esasperando alcuni comportamenti (ad esempio: alimentandosi in modo esagerato o sbagliato, manifestando uno stato di stanchezza eccessiva, isolandosi dagli altri o cercandone a ogni costo il sostegno psicologico).
  5. L’ottimista affronta le situazioni problematiche, mentre il pessimista non le affronta e vorrebbe evitarle.
  6. L’ottimista è poco centrato sui sintomi fisici (stanchezza, mal di testa, etc.), mentre il pessimista ne è molto preoccupato.
  7. L’ottimista pianifica il futuro e stabilisce obiettivi a breve termine, mentre il pessimista pensa che ci vorrà troppo tempo per migliorare;
  8. L’ottimista affronta direttamente chi mette in discussione il proprio operato, presentando i fatti che sono contrari a queste affermazioni, mentre il pessimista si fa convincere e si sente incapace.
  9. L’ottimista interpreta i propri insuccessi in termini d’impegno insufficiente o di scelta strategica sbagliata e non di mancanza di capacità, mentre il pessimista li attribuisce a incompetenze personali, quindi a fattori modificabili solo nel tempo. Ritiene che se nella prossima gara si presenterà una situazione analoga non sarà ancora in grado di affrontarla positivamente.
  10. L’ottimista accetta le situazioni che non si possono cambiare, mentre il pessimista cerca di scappare da queste.

Le ragioni della rinascita della Roma

Il cambiamento dell’atteggiamento in campo della Roma e delle conseguenze che ne derivano: migliore gioco, combattività dei singoli, forte coesione e maggiore senso di appartenenza rappresenta un dato positivo non solo per la Roma, prima in classifica, ma per il calcio italiano. Il primo passo verso questo cambiamento è rappresentato dalla diversa organizzazione della società, più chiara, senza sovrapposizione nei ruoli dirigenziali chiave, che ha determinato la scelta dei giocatori da cedere e quelli da immettere, facendo attenzione alle necessità di bilancio e a prendere non solo giocatori bravi ma anche dotati della personalità necessaria per giocare ad alto livello. Il secondo tassello è costituito dalla scelta di un allenatore non glamour o filosofo ma concreto. Dal punto di vista psicologico si è presentato come il classico padre severo ma giusto; in tal modo i giocatori si sono sentiti rispettati e così da questo nuovo ambiente e dall’intreccio di queste relazioni è nato il gioco attuale.  Il risultato della Roma dimostra che per vincere è innazitutto necessario avere un’organizzazione societaria efficace e un allenatore (il leader della squadra) che valorizzi i calciatori, non li escluda per un pregiudizio personale e che faccia rispettare regole semplici e ben definite. Solo a questo punto inizia l’allenamento del gioco.

La regola di Guardiola: sbagliare per imparare

Un leader si riconosce anche dalle frasi che dice ai suoi giocatori. Guardiola, nuovo allenatore del Bayern, ha detto “Speriamo di commettere subito parecchi errori così impariamo prima”. Non avere paura di sbagliare è l’atteggiamento di chi ha una mentalità vincente, perchè ciò che è veramente importante non è inseguire la prestazione perfetta ma quanto si reagisce velocemente agli errori.

I top atleti hanno bisogno di un allenatore-leader

Un’abilità decisiva per un allenatore di atleti di alto livello consiste non solo nel possedere un bagaglio tecnico aggiornato, ma soprattutto nell’abilità di gestire i suoi migliori atleti. E’ un allenatore – leader perchè svolge la funzione di condurli a realizzare le migliori prestazioni. Non è un allenatore – insegnante così come lo deve essere con quelli meno esperti. E’ un allenatore che dialoga e che si pone nei panni dell’altro per stabilire una vicinanza emotiva. Questo perchè gli atleti di livello assoluto hanno uno specifico profilo così sintetizzabile:

  1. hanno già raggiunto alcuni degli obiettivi che si erano posti e perciò sono considerati persone di successo
  2. si caratterizzano per l’energia e l’impegno che pongono nella loro attività
  3. le loro competenze emergono in maniera decisiva proprio nelle situazioni di maggiore pressione competitiva
  4. sono convinti di essere in grado di affrontare la maggior parte delle situazioni o dei problemi in maniera efficace
  5. si assumono la responsabilità dei risultati delle loro prestazioni
  6. sono percepiti dagli altri come affidabili e competenti
  7. sono spesso considerati dai più giovani come un modello da emulare
  8. traggono il massimo della soddisfazione dal continuo rinnovarsi delle sfide che affrontano
  9. sono orientati a trovare soluzioni
  10. ricercano il contributo delle persone che li possono aiutare nel raggiungimento dei loro obiettivi

Naturalmente non bisogna cadere nell’errore di credere che un buon livello di efficacia in questi ambiti sia raggiunto con facilità o che questi individui non vivano dei momenti di difficoltà. Al contrario, queste capacità e questi standard sono raggiunti e mantenuti attraverso un lavoro continuo, uno sforzo teso al miglioramento anche quando questo sembra lontano, perseguito anche in quei giorni che sono frustranti e che sembrano non finire.

Quando l’allenatore non è un leader

Le storie di Schwazer e quelle del nuoto ambedue ancora oggi sui quotidiani dimostrano quanto sia difficile oggi fare l’allenatore anche negli sport individuali. Il ruolo del capo branco non è una prerogativa solo dei nostri simili a quattro zampe, deve esserlo anche per noi. Quando l’allenatore non svolge questo ruolo e gli atleti gli sfuggono di mano può succedere di tutto ed è ciò che è realmente accaduto Bisognerebbe imparare da Cerioni l’allenatore delle ragazze d’oro del fioretto che è riuscito a mantenere il gruppo unito sull’obiettivo da raggiungere indipendentemente dai rapporti personali fra le atlete oppure ascoltare gli sprinter giamaicani che se pur avversari hanno sempre dimostrato tra di loro cordialità e rispetto. Ripeto che un consulente psicologo avrebbe potuto aiutare in modo significativo questi allenatori e molti altri di cui non si parla sui giornali ma che commettono gli stessi errori.