Nel Regno Unito le Federazioni di atletica collaborano con Believe Perform per costruire un percorso online per atleti allenatori e allenatori pre promuovere la salute mentale e e la prestazione.
Da noi non si pensa neanche a questi temi!
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Nel Regno Unito le Federazioni di atletica collaborano con Believe Perform per costruire un percorso online per atleti allenatori e allenatori pre promuovere la salute mentale e e la prestazione.
Da noi non si pensa neanche a questi temi!
Quanto sta accadendo ai mondiali di atletica di Doha è la dimostrazione che vi sono luoghi in cui non è possibile gareggiare. E’ altrettanto evidente che gli interessi politici ed economici dominano il mondo sportivo, per cui da molto tempo i più importanti eventi sportivi sono spesso organizzati in zone del mondo dove a causa delle condizioni ambientali gli atleti corrono seri rischi per la loro salute e non sono messi nelle condizioni di fornire prestazioni sportive corrispondenti al loro livello di competenza.
A Doha, il 40% delle maratonete si sono ritirate e i tempi finali delle prestazioni migliori sono molto superiori rispetto alle loro prestazioni migliori. Inoltre, la maratona è certamente la gara dove emergono in modo più evidente queste difficoltà ma analoghi fatti sono accaduti nella marcia e in altre prestazioni su pista.
Non mi ricordo se qualche federazione di atletica abbia protestato contro questa assegnazione dei mondiali. D’altra parte la storia è vecchia, se ci si ricorda che le partite dei mondiali di calcio del 1970 in Messico si giocavano a un’altitudine superiore ai 2000 metri e in orari impossibili per caldo e umidità ma utili per potere essere viste in Europa.
Non c’è chance per gli atleti, l’unica reazione sarebbe non partecipare ma molti non hanno un potere contrattuale da mettere in campo per portare avanti i loro diritti. Solo Eliud Kipchoge non è andato, perché sta preparando il tentativo di correre la maratona in 1h59m fra due settimane, finanziato da Ineos.
Olympic Coach, 2017, 28 (1), 4-11
Creating Confidence: The Four Sources of Self-Efficacy
Matthew Buns, Assistant Cross Country and Track & Field Coach, Concordia University, St. Paul
“Whether you think you can or think you can’t, you’re probably right.” – Henry Ford
Raramente in atletica l’importanza della mente viene messa in discussione. Agli specialisti in psicologia dello sport viene spesso chiesto di rispondere alla domanda “come faccio a rendere i miei atleti più sicuri?”. Ci sono molti aspetti nel training e nella competizione che possono scuotere la fiducia di un atleta, dall’importanza dell’evento, a temere taluni concorrenti, alla sfida della gara. Gli allenatori spesso desiderano che i propri atleti abbiano fiducia nel loro training, ma non è sempre così semplice come sembra. Lo scopo di questo articolo è di fornire linee guida agli allenatori per insegnare la prontezza mentale e dimostrare perché può essere rilevante tanto quanto la prontezza fisica. Un allenatore non deve necessariamente essere un psicologo dello sport per realizzare come le prestazioni migliorano grazie a un diverso approccio mentale. Al fine di essere mentalmente pronti a competere gli atleti devono essere fiduciosi in se stessi e mostrare un alto livello di autostima. Inoltre, un atleta deve possedere qualcosa di più specifico: un alto livello di auto-efficacia. L’auto-efficacia di per sé, è un migliore antecedente delle prestazioni rispetto alle aspettative di risultato (goal setting). È uno degli aspetti mentali più importanti, situazione specifico, che un allenatore di atletica può instillare in loro atleti.
Il fenomeno legato alla pratica di persone adulte ed anziane in atletica leggera è in continua e marcata espansione, con un’attività soprattutto nelle corse di durata (running), ma anche nelle varie specialità (corse, salti, lanci, marcia). La Federazione organizza le attività secondo la categoria cosiddetta ‘master’. I master sono atleti che si allenano per partecipare a competizioni che sono specifica- tamente organizzate per la popolazione over-35. Si tratta di atleti che vogliono continuare a gareggiare oppure d’individui che hanno da sempre partecipato a gare a livello amatoriale o di persone sedentarie che a un certo momento della loro vita hanno deciso d’intraprendere un’attività sportiva e di praticarla anche a livello agonistico.
I dati descrittivi relativi alla pratica sportiva giovanile dei master e alla tipologia della loro pratica attuale in atletica leggera hanno evidenziato che:
In Danimarca hanno fatto la pista di atletica più bella del mondo. Non è una pista di atletica tradizionale, a parte nella forma dell’anello esterno. È quello che succede dentro a quell’anello che è stupendo: l’Athletics Exploratorium di Odense è un campo di atletica molto particolare, che unisce alle tradizionali discipline track&field 12 isole per allenamenti che permettono di sviluppare abilità particolari e di integrare il crossfit nella normale routine di allenamento.
(da www.runlovers.it)
Se è vero che le parole che esprimiamo comunicano un significato psicologico, quelle espresse d Giammarco Tamberi per spiegare la sua prestazione negativa nella finale del salto in alto ai mondiali di atletica leggera, ci dicono in quale direzione questo ragazzo dotato di talento deve migliorare.
Tamberi ha definito così la sua prestazione “La giornata è iniziata male, non avevo le sensazioni giuste … sono deluso e arrabbiato ma non so con chi prendermela. In genere s’impara dalle sconfitte, ma io devo ancora capire perchè. La pioggia mi ha condizionato? La pioggia c’è per tutti, non ci sono scuse, gli altri hanno saltato, si poteva fare, io no. Non capisco cosa è andato storto e dove ho sbagliato … se ho sentito la pressione? Sinceramente no, pensavo di stare bene, non vedevo l’ora di gareggiare dopo la lunga trasferta, invece niente … scusate”.
Tamberi assume su se stesso la responsabilità della sua prestazione negativa ma non sa spiegarsela. Per me sono tre gli errori mentali che ha commesso:
e infine,
Queste sono a mio avviso le spiegazioni di questa prestazione negativa e gli obiettivi di miglioramento su cui Tamberi dovrebbe allenarsi.
La pazienza è la prima qualità che deve dimostrare di possedere un ultra-maratoneta. All’inizio della gara ci si deve annoiare, nel senso che il ritmo della corsa deve essere facile ma non bisogna cadere nella tentazione di correre più veloce di quello che si è programmato.
Nella corsa di lunga distanza le difficoltà sono inevitabili, quindi la domanda non è tanto “se ci troveremo in difficoltà” ma “quando verrà quel momento cosa devo fare per superarlo”. La risposta non può essere improvvisata in quel momento ma deve essere già pronta, poiché anche in allenamento avremo incontrato difficoltà di quel tipo. Quindi in allenamento: “come mi sono comportato, che cosa ho pensato, quali sensazioni sono andato a cercare dentro di me per uscire da una crisi?”. In gara abbiamo dentro di noi queste risposte, dobbiamo tirarle fuori. Ogni runner in quei momenti deve servirsi della propria esperienza, mettendo a fuoco le immagini e le emozioni che già in passato gli sono state utili.
La corsa corrisponde a un profondo bisogno dell’essere umano. Infatti noi siamo geneticamente predisposti alla corsa di lunga distanza e più in generale si può affermare che il movimento è vita mentre la sedentarietà è una causa documentata di morte. Sotto questo punto di vista la corsa si è tramutata nelle migliaia di anni in attività necessaria per sopravvivere agli attacchi degli animali e per procacciarsi il cibo in un’attività che viene oggi svolta per piacere e soddisfazione personale. Inoltre, oggi come al tempo dei nostri antenati, la corsa è un fenomeno collettivo, è un’attività che si svolge insieme agli altri. Per l’homo sapiens era un’attività di squadra, svolta dai cacciatori per cacciare gli animali; ai nostri tempi la corsa soddisfa il bisogno di svolgere un’attività all’aria aperta insieme ai propri amici.
Non bisogna mai pensare al risultato ma concentrarsi nel caso della corsa sul proprio ritmo e sulla sensazioni fisiche nelle parti iniziali e finali della gara. Nella fase centrale è meglio avere pensieri non correlati al proprio corpo.
Chiunque sia in grado di soddisfare i propri bisogni è il campione di se stesso e deve essere orgoglioso di avere raggiunto questo obiettivo personale. Quando invece ci riferiamo con questo termine ai top runner, i campioni sono quelli che riescono a mantenere stabili per un determinato periodo di tempo prestazioni che sono oggettivamente al limite superiore delle performance umane nella maratona e che in qualche occasione sono riusciti a superare.
Prima di prove importanti i campioni provano le stesse emozioni di ogni altra persona. Spesso le percepiscono in maniera esagerata, per cui possono essere terrorizzati di quello che li aspetta. La differenza con gli altri atleti è che invece riescono a dominarle e a fornire prestazioni uniche. Ho vissuto questa esperienza per la prima volta ad Atlanta, 1996, in cui un atleta che poi vinse la medaglia d’argento, non voleva gareggiare in finale perché si sentiva stanco ed esausto. Questa stessa situazione l’ho incontrata in altre occasioni ma questi atleti sono sempre riusciti a esprimersi al loro meglio nonostante queste intense espressioni di paura.
Nel libro intitolato “Nati per correre” di A. Finn e dedicato agli atleti keniani vengono prese in considerazioni molte ipotesi sul loro successo emerge con chiarezza che la molla principale risiede nel loro desiderio di avere successo.
“Prendi mia figlia, ha aggiunto, è bravissima nella ginnastica, ma non credo farà la ginnasta. Probabilmente andrà all’università e diventerà medico. Ma un bambino keniano, che non fa altro che scendere al fiume per prendere l’acqua e correre a scuola, non ha molte alternative all’atletica. Certo anche gli altri fattori sono determinanti, ma la voglia di farcela e riscattarsi è la molla principale” (p.239).
Lo sport e l’attività fisica promuovono il benessere se vengono svolte come attività del tempo libero e per il piacere di sentirsi impegnati in qualcosa che si vuole liberamente fare. Al contrario quando vengono svolte allo scopo di fornire prestazioni specifiche possono determinare, come qualsiasi altra attività umana, difficoltà di ordine psicologico e fisico. Direi che vale anche per lo sport e l’attività fisica la stessa regola che è valida per qualsiasi attività umana. Il problema non proviene da cosa si fa: sport agonistico o ricreativo ma da come si fa: crescita e soddisfazione personale o ricerca del risultato a ogni costo e dagli obiettivi del contesto sociale e culturale nel quale queste attività vengono praticate: sviluppare la persona attraverso lo sport o vincere è l’unica cosa che conta.
(da Runners e benessere, Giugno 2015)
Lo sprinter americano Michael Johnson, vincitore di cinque medaglie d’oro alle olimpiadi e otto volte campione del mondo, ha così riassunto l’importanza della motivazione:
“La mia migliore motivazione è sempre venuta dalla gioia pura di correre e di gareggiare, è lo stesso brivido che ho come fossi un bambino di 10 anni. Avete mai conosciuto un bambino di 10 anni nauseato da quello che fa? Bisogna trovare la propria motivazione iniziale, per questa ragione diventerai un architetto. Questo è il segreto della perseveranza”.
L’attività sportiva dovrebbe consentire l’affermarsi di un atteggiamento che può essere sintetizzato nella seguente frase: “E’ grazie al mio impegno e al piacere che provo che divento sempre più bravo in quello che faccio”. Le attività motivate da una spinta interiore si basano sulla percezione soggettiva di soddisfazione che si trae dallo svolgere un determinato compito. Pertanto qualsiasi intervento esterno che tenda a ridurre nell’atleta questa percezione influenzerà negativamente la sua motivazione. È il caso di quando un atleta s’impegna solo per ricevere un premio materiale (vincere un trofeo) o simbolico (“Lo faccio per i miei genitori o per l’allenatore che così saranno contenti o perché sarò più ammirato dai miei compagni di scuola”). La prestazione sportiva diventa così solo un mezzo per raggiungere un altro scopo che diventa, invece, il vero fine dell’azione: il giovane non agisce per il piacere che gli fornisce l’attività stessa ma per ricevere un determinato riconoscimento. Pertanto, i rinforzi esterni che incoraggiano l’atleta ad attribuire la sua partecipazione a motivi esteriori riducono la sua motivazione interna. L’allenatore non dovrebbe servirsi di rinforzi che dall’atleta siano percepibili come più importanti della stessa partecipazione sportiva, ma dovrebbe fornire suggerimenti utili ad aumentare il senso di soddisfazione che il giovane trae dall’esperienza agonistica.
E’ stato infatti documentato che i risultati sportivi che sono percepiti come il risultato di fattori interni personali, quali l’abilità, la dedizione, l’impegno piuttosto che di fattori esterni (fortuna, limitata capacità degli avversari, decisioni arbitrali a favore) sono associati a stati d’animo di soddisfazione e di orgoglio.
I rinforzi esterni che un atleta riceve svolgono comunque anche un’azione positiva. Ad esempio, con i bambini che non hanno ancora avuto un’esperienza sportiva o con gli adulti che hanno una ridotta esperienza sportiva. In tal caso rinforzi esterni riguardanti la fornitura di materiale sportivo o di gadget, o il sostegno sociale derivato dalla pratica sono elementi che favoriscono la partecipazione. Lo stesso vale per i riconoscimenti economici ottenuti dagli atleti di alto livello come riconoscimento del loro valore sportivo.
Ogni allenatore sa che stabilire obiettivi è essenziale per stimolare la motivazione e migliorare le prestazioni. A tale riguardo:
Infine, nonostante la rilevanza che la scelta degli obiettivi svolge nell’incrementare la prestazione, vi è anche un altro motivo che la rende necessaria da parte dell’atleta. Infatti, se lo sport e la competizione hanno una valenza sociale, di conseguenza ogni individuo ha il diritto di avere successo. Certamente nello sport di livello assoluto, la lotta per il successo è quella per il podio e chi può aspirare a questo tipo di risultato si prepara consapevole delle difficoltà che incontrerà strada facendo. Vi è poi il successo di tutti, di coloro che hanno stabilito i loro obiettivi in modo adeguato e s’impegnano per raggiungerli. Ogni persona coinvolta nello sport ha la responsabilità di ottenere per se stessa il suo successo personale. E’ il caso di chi vuole correre la maratona in 4 ore, se ci riuscirà avrà vinto la sua gara. L’osservazione dei bambini impegnati in attività sportive non organizzate dagli adulti dovrebbe insegnare agli adulti qualcosa di molto importante e cioè che quando non raggiungono l’obiettivo che si sono posti, i ragazzi lo abbassano di livello, imparando dagli errori e riprovandoci di nuovo. Dopo una serie di adattamenti e di prove di questo tipo il successo è garantito. L’opposto avviene quando invece hanno successo, aumentano il livello di difficoltà dell’obiettivo. In altri termini, ciò significa che in maniera quasi spontanea i giovani modificano i loro obiettivi spostandoli sempre al limite delle loro possibilità. In tal senso, gli errori sono utilizzati come parte integrante del processo di apprendimento e non vengono interpretati come un insuccesso.
Tre notizie che ho letto oggi sui giornali provenienti da sport diversi mi sembra abbiano un comune denominatore che rispecchia la carenza nel nostro paese del senso di appartenenza.