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La generazione ansiosa

A partire dal 2010 i disturbi mentali dei giovani sono aumentati in modo incredibile. Ansia e depressione riguardano attualmente più del 20% degli adolescenti. Jonathan Haidt ha trattato questo tema nel suo libro in uscita proprio in questi giorni, e che presenta in questo modo:

“Nell’estate del 2022, stavo lavorando a un progetto di libro – La vita dopo Babele: Adattarsi a un mondo che non possiamo più condividere – riguardante come gli smartphone e i social media hanno riconfigurato molte società negli anni 2010, creando condizioni che amplificano le note debolezze della democrazia.

Il primo capitolo trattava dell’impatto dei social media sui ragazzi, che erano i “canarini nella miniera”, rivelando segnali precoci che qualcosa non andava per il verso giusto. Quando le vite sociali degli adolescenti si sono spostate su smartphone e piattaforme di social media, ansia e depressione sono aumentate tra di loro. Il resto del libro sarebbe stato incentrato su ciò che i social media avevano fatto alle democrazie liberali.

Mi sono reso rapidamente conto che il rapido declino della salute mentale degli adolescenti non poteva essere spiegato in un solo capitolo – aveva bisogno di un libro tutto suo. Quindi, “La Generazione Ansiosa” è il Volume 1, in un certo senso, del più ampio progetto Babele.

Inizio “La Generazione Ansiosa” esaminando le tendenze della salute mentale degli adolescenti. Cosa è successo ai giovani nei primi anni 2010 che ha scatenato l’impennata di ansia e depressione intorno al 2012?”.

Percent of U.S. undergraduates with different mental illness, 2008-2019

Cosa è successo ai giovani nei primi anni del 2010?

La Generazione Ansiosa offre una spiegazione raccontando due storie. La prima riguarda il declino dell’infanzia basata sul gioco, che è iniziato negli anni ’80 e si è accelerato negli anni ’90. Tutti i mammiferi hanno bisogno di gioco libero, e tanto, per cablare i loro cervelli durante l’infanzia e prepararli per l’età adulta. Ma molti genitori nei paesi anglofoni hanno iniziato a ridurre l’accesso dei bambini al gioco libero non supervisionato all’aperto a causa delle paure alimentate dai media per la loro sicurezza, anche se il “mondo reale” stava diventando sempre più sicuro negli anni ’90.

La perdita del gioco libero e l’aumento della supervisione continua degli adulti hanno privato i bambini di ciò di cui avevano più bisogno per superare le normali paure e ansie dell’infanzia: la possibilità di esplorare, testare ed espandere i loro limiti, costruire amicizie strette attraverso avventure condivise e imparare a valutare i rischi da soli.

La seconda storia riguarda l’ascesa dell’infanzia basata sul telefono, che è iniziata alla fine degli anni 2000 e si è accelerata nei primi anni del 2010. Questo è stato precisamente il periodo durante il quale gli adolescenti hanno scambiato i loro telefoni a conchiglia con gli smartphone, che erano carichi di piattaforme di social media supportate dalla nuova connessione internet ad alta velocità e piani dati illimitati.

La convergenza di queste due storie negli anni tra il 2010 e il 2015 è ciò che io chiamo la “Grande Riconfigurazione dell’Infanzia”. In pochi di noi capivano cosa stava accadendo nei mondi virtuali dei bambini e ci mancava la conoscenza per proteggerli dalle aziende tecnologiche che avevano progettato i loro prodotti per essere dipendenti.

Per questo motivo, abbiamo finito per proteggere eccessivamente i bambini nel mondo reale mentre li abbiamo sotto-proteggiti nel mondo virtuale.

La depressione negli atleti di élite

Quando negli anni ’80 ho iniziato a lavorare come psicologo dello sport, si scriveva che gli atleti mostravano personalità ben equilibrate. Sembra  un’era geologica fa.  In quel periodo, gli atleti erano molto meno numerosi, le competizioni meno frequenti, lo stress competitivo meno pressante, l’esposizione pubblica degli atleti meno frequente e gli sponsor meno presenti nella loro vita. Questo comporta che sulle spalle degli atleti vi erano meno aspettative provenienti dall’ambiente sociale e sportivo, meno pressioni per ricercare quel perfezionismo e quei risultati vincenti continuativi. Gli atleti erano socialmente più liberi e meno costretti a soddisfare esigenze a loro esterne. Ritengo che questa differenza evidente rispetto a oggi sia una delle cause della maggiore frequenza odierna dei casi di psicopatologia che colpiscono gli atleti di vertice. Ultimo fra tutti, quello testimoniato dalle parole di Naomi Osaka, n.2 del tennis mondiale femminile, che si è ritirata durante il Roland Garros.

Purtroppo non è neanche del tutto vero quanto detto a riguardo degli atleti 40/50 anni fa, poiché se pensiamo anche solo all’Ex-Germania dell’Est scopriamo che gli atleti di questa nazione non erano affatto liberi di scegliere e l’uso scientifico del doping di Stato ha creato a loro non solo problemi fisici ma anche malattie psicologiche. Lo stesso vale per molti atleti del mondo occidentale che si sono serviti di pratiche illecite per ottenere i loro risultati sportivi.

La questione di base da studiare è quella di capire se il mondo sportivo diventato estremamente competitivo (e questo vale anche per il mondo del lavoro) non sia il principale stressor (ambientale) a suscitare nei giovani un corto circuito esistenziale che stimola a sentirsi al di sotto delle loro aspettative e di quelle che gli vengono richieste. L’incapacità ad adattarsi con strategie efficaci a queste richieste può determinare uno squilibrio emotivo che la sola mente razionale non riesce più gestire.

La depressione –  Può essere una tristezza transitoria o una malattia mentale debilitante, che richiede un trattamento clinico. Generalmente, le persone colpite presentano un umore disturbato, sentimenti di colpa o bassa autostima, sonno o appetito disturbati, perdita di interesse o piacere, poca energia e scarsa concentrazione. Questi problemi possono diventare pervasivi o ricorrenti, e portare a grandi difficoltà nella capacità di una persona di partecipare alle sue attività quotidiane. Endemica nella società attuale, la depressione è elencata dall’OMS come la principale causa di disabilità e il quarto principale contributore al peso globale della malattia (secondo tra gli adolescenti e gli adulti di età inferiore ai 45 anni) in termini di anni di vita interessati.

Perchè l’esercizio fisico è sottostimato nella pratica clinica?

Ekkekakis, P. Why Is Exercise Underutilized in Clinical Practice Despite Evidence It Is Effective? Lessons in Pragmatism From the Inclusion of Exercise in Guidelines for the Treatment of Depression in the British National Health Service.

Kinesiology Review, 2020

L’esercizio fisico rimane molto sottoutilizzato nella pratica clinica per ragioni che vengono comprese solo in parte. Questa revisione critica colloca il problema nel più ampio contesto politico ed economico. Si concentra sulla depressione, la principale causa di disabilità a livello mondiale, e sui processi che hanno seguito l’inclusione dell’esercizio fisico come opzione terapeutica nelle linee guida della pratica clinica del British National Health Service. La revisione mette in evidenza fenomeni precedentemente non affrontati, tra cui la lobby antiesercizio da parte dei medici di base e gli sforzi per presentare le prove degli effetti antidepressivi dell’esercizio fisico come deboli, inesistenti o metodologicamente difettosi. In particolare, il campo della kinesiologia è rimasto in silenzio mentre questi processi si svolgevano. Queste informazioni suggeriscono che il percorso dall’evidenza della ricerca all’implementazione in ambito clinico rimane dipendente da fattori che vanno oltre la quantità e la qualità dell’evidenza della ricerca. La revisione sottolinea la necessità di monitorare con attenzione, valutare criticamente e partecipare attivamente alla letteratura sulla ricerca clinica e allo sviluppo di linee guida.

 

I dati dello stress da coronavirus

Da una ricerca condotta in Italia, Spagna e Regno Unito emerge che la percentuale di popolazione la cui salute mentale è a rischio a causa di vari fattori di vulnerabilità socio-economica è del 41% in Italia, del 46% in Spagna e del 42% nel Regno Unito. Le problematiche di salute mentale sono legate a vari indici di misurazione, tra i quali stress, ansia e depressione per l’incertezza sul futuro economico e occupazionale, per le difficili condizioni di vita, spesso confinate in spazi ristretti e condivisi con bambini dei quali occuparsi mentre si svolgono mansioni lavorative da “remoto”, cioè nell’abitazione stessa.

La ricerca è stata finanziata e condotta da Open Evidence, spin-off della Universitat Oberta di Catalunya (Uoc), in collaborazione per la raccolta dati con Bdi Schlesinger and Group e per il disegno sperimentale e l’analisi dei dati con ricercatori di varie università (Università degli studi di Milano, Uoc, Universidad Nacional de Colombia, Università degli studi di Trento, Glasgow University). «Ci siamo riproposti di coprire un’area finora poco esplorata, non sanitaria né strettamente economica» spiega il direttore della ricerca Cristiano Codagnone (co-fondatore di Open Evidence, e docente presso l’Università degli studi di Milano e la Uoc). «Siamo sorpresi di quanto sia elevata la vulnerabilità psicologica riscontrata – continua Codagnone – anche soltanto usando uno degli elementi che servono a testarla, ovvero la depressione. Considerando anche gli altri, ci accorgiamo che il livello di stress psicologico è molto elevato e il rischio di essere contagiati di gran lunga inferiore rispetto a quello di avere problematiche di tale tipo».

Coco Gauff e la sua depressione

Coco Gauff, giovane nuova star del tennis internazionale di 16 anni. ha scritto sul sito Behind The Raquet di essere stata depressa per un anno, anche se ottenere buoni risultati sportivi non è mai stato un problema e vive in una famiglia in cui sta bene e che l’accetta. Ciò nonostante qualcosa in questa vita con successi precoci è stato da stimolo per sviluppare la depressione da cui afferma di esserne uscita da poco tempo.

“A volte mi sono sentita troppo impegnata rispetto agli altri. La maggior parte dei miei amici va al liceo normale. Mi sembrava che fossero sempre così felici di essere ‘normali’. Per un po’ ho pensato di volerlo, ma poi ho capito che, proprio come i social media, non tutti sono felici come quello che si vede nei loro post. Mi ci è voluto circa un anno per superare quest’idea”.

Abbiamo spesso parlato in questo blog di come lo sport possa rappresentare una situazione altamente stressante per i giovani che dedicano larga parte della loro vita ad avere successo nel tennis così come in ogni altra disciplina. Il successo ad alto livello raggiunto negli anni dell’adolescenza, l’investimento totale su una singola attività sportiva e la riduzione evidente della vita sociale a cui l’atleta si sottopone nonché le crescenti pressioni determinate da aspettative sportive sempre più elevate e dall’ambiente esterno possono determinare problemi psicologici. Questi si manifestano spesso con il diffondersi di un sentimento di estraniazione dal presente e di depressione come mancanza di quella vita normale idealizzata che sembrano condurre i coetanei.

Se poi i successi sportivi vengono vissuti come un fine su cui giocare la fiducia in se stessi e non come un mezzo per realizzarsi certamente come atleta ma soprattutto come persona, i disturbi psicopatologici possono trovare un terreno fertile su cui svilupparsi. Se scopri che giochi solo per vincere le partite, per diventare ricca, per avere i privilegi che hanno le atlete top, la vita sportiva diventa una rincorsa senza fine ad avere sempre qualcosa di più per essere felici.

Si può giocare tennis anche per queste ragioni, assolutamente legittime, ma se non si mette al centro del proprio progetto sportivo se stessi con la consapevolezza delle proprie capacità e delle proprie carenze, il rischio di non reggere le pressioni insite nell’attività sportivo-agonistica sarà molto elevato.

 

Di seguito le dichiarazioni di Coco Gauff.

“Mi sono sempre chiesta come sarebbe stata la mia vita senza il tennis. Con quello che questo sport mi ha dato non posso immaginare che la mia vita sarebbe migliore senza. A volte mi sono trovata troppo impegnata rispetto agli altri. La maggior parte dei miei amici va al liceo normale. Mi sembrava che fossero sempre così felici di essere “normali”. Per un po’ ho pensato di volerlo, ma poi ho capito che, proprio come i social media, non tutti sono felici come quello che si vede nei loro post. Mi ci è voluto circa un anno per superare quest’idea. Anche in questo caso, i miei risultati erano ancora buoni, quindi non aveva molto a che fare con il tennis. Non ero comunque felice di giocare. I miei genitori hanno fatto un ottimo lavoro nel cercare di fare in modo che io facessi cose “normali” dell’infanzia. L’anno scorso sono riuscita ad andare al ballo e stavo pensando di andare al ballo fino al coronavirus. Cerco di vedere gli amici il più possibile. I miei genitori lavorano entrambi, quindi passo molto tempo a casa da sola. È difficile andare a scuola da sola mentre non si può socializzare con gli altri studenti. Anche se alcune cose mi mancano, penso che questo stile di vita che vivo sia perfetto per me, e non lo è per tutti. Viaggiare non è mai facile. Ho due fratelli più piccoli e siamo tutti molto uniti. Ogni volta che li lascio mi fa un po’ male. Ogni anno mi perdo il compleanno di uno dei miei fratelli perché cade proprio nel bel mezzo degli Open di Francia. In tutto questo sono fortunata ad averli, perché non sono loro a essere gelosi. A loro non dispiace che io riceva più attenzioni, capiscono e sono sempre di supporto a quello che faccio.

Per tutta la mia vita sono sempre stata la più giovane a fare cose, il che ha aggiunto una pubblicità che non volevo. Aggiungeva questa pressione che avevo bisogno di fare bene in fretta. Una volta che ho lasciato andare tutto questo, quando ho iniziato ad avere i risultati che volevo. Poco prima di Wimbledon, tornando al 2017/18 circa, stavo lottando per capire se questo era davvero quello che volevo. Avevo sempre i risultati, quindi non era questo il problema, mi sono ritrovata a non godermi quello che amavo. Ho capito che dovevo iniziare a giocare per me stessa e non per gli altri. Per circa un anno sono stata davvero depressa.

Quello è stato l’anno più duro per me finora. Anche se l’avevo fatto, mi sembrava che non ci fossero molti amici lì per me. Quando si è in quella mentalità oscura non si guarda troppo spesso il lato positivo delle cose, che è la parte più difficile. Sapevo di voler giocare a tennis, ma non sapevo come avrei voluto farlo. Sono arrivata al punto che pensavo di prendermi un anno sabbatico per concentrarmi solo sulla vita. Scegliere di non farlo, ovviamente, è stata la scelta giusta, ma ero vicina a non andare in quella direzione. Mi ero semplicemente persa. Ero confusa e pensavo troppo se questo era quello che volevo o quello che facevano gli altri. Sono stata molto seduta, a pensare e a piangere. Ne sono uscita più forte e mi sono conosciuta meglio che mai. Tutti mi chiedono come faccio a rimanere calma in campo e penso che sia perché ho accettato chi sono dopo aver superato i punti più bassi della mia vita. Ora, quando sono in campo, sono davvero grata di essere là fuori.

Personalmente mi piace giocare non solo per me stessa. Ora ho delle ragazze che si avvicinano a me, di tutte le razze, ma soprattutto afroamericane, che dicono di prendere una racchetta per la prima volta a causa mia. Mi stupisce perché è così che sono entrata in questo sport. Ricordo che circa un mese prima di Wimbledon andavo al club dove mi alleno e vedevo giocare soprattutto ragazzi. Un mese dopo sono tornata e la maggior parte erano ragazze e l’allenatore ha detto che è stato grazie a me. Non avrei mai immaginato che un torneo potesse avere questo tipo di effetto. Per me, una delle cose più importanti è continuare a rompere le barriere. Allo stesso tempo non mi piace essere paragonata a Serena o a Venus. Innanzitutto, non sono ancora al loro livello. Ho sempre l’impressione che non sia giusto nei confronti delle sorelle Williams essere paragonate a qualcuno che è appena arrivata. Non mi sembra ancora giusto, le considero ancora i miei idoli. Con tutti i loro riconoscimenti non dovrei ancora essere messa nello stesso gruppo. Naturalmente spero di arrivare dove sono loro, ma sono loro le due donne che mi hanno indicato la strada, per questo non potrò mai essere loro. Mi sento come se non avessi nemmeno la possibilità di essere a questo livello senza di loro. Non avrei mai nemmeno pensato di entrare a far parte del tennis, senza di loro, visto che ci sono pochissimi afroamericani in questo sport. Per tutto quello che hanno fatto, non dovrei ancora essere paragonata a loro.

Mi sto abituando all’idea che la gente mi consideri un modello da seguire. Questo aggiunge un po’ di pressione, perché so che la gente osserva ogni mossa. Per la maggior parte delle cose è facile, perché io sono sempre e solo me stesso, non faccio finta di niente, cosa che alla gente sembra andare bene. Non mi sento come se dovessi premere un interruttore o altro. All’inizio pensavo di dover essere perfetta, ma ho fatto molta ricerca interiore e l’ho superata. Da allora mi sono divertito molto di più ad allenarmi e a giocare alle partite. Era il 2018 quando mi ricordo di essermi svegliato e di non volermi allenare. Sono stato fortunato ad averlo capito presto e a fermare quella che avrebbe potuto essere una siccità più lunga. Ho una buona cerchia di amici e familiari che ho sempre tenuto piccola. Non sono mai stata la ragazza che da piccola aveva troppi amici. Sono molto attenta a chi tengo vicino a me. Queste sono le persone che mi hanno aiutato in tutti questi tempi folli. Mi ci è voluto un po’ di tempo per sentirmi a mio agio nell’esprimere loro le mie vere emozioni, ma una volta imparato ho reso tutto più facile”.

La mentalità di chi non rispetta le regole

“Finché respiro spero” diceva Cicerone, oggi lo potremmo tradurre in “finché c’è vita c’è speranza”, più brutale ma altrettanto vero. Il coronavirus colpisce proprio questa capacità che è alla base dei bisogni fisiologici e psicologici degli esseri viventi.  Si può non bere o mangiare per qualche giorno, ma non si può fare a meno di respirare neanche per qualche minuto se non siamo un campione di apnea subacquea. Una respirazione corretta è alla base dell’auto-controllo e gli stress della nostra vita quotidiana determinano come primo effetto negativo proprio problemi di respirazione. La paura ci fa bloccare il fiato, la rabbia  l’altera per permetterci di urlare contro qualcuno, la tristezza la riduce a un filo d’aria che entra ed esce e l’ansia ci fa respirare in modo affannoso e superficiale. Il respiro riflette il nostro livello di forma fisica e di benessere e uno degli effetti di questo nuovo virus è di bloccarlo e di rendere necessario in molti casi la respirazione assistita, pena la morte. Mario Garattini, fondatore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, ha detto che “tutto dipenderà da noi, dalla nostra capacità di evitare il contagio. Atteniamoci alle disposizioni. Se tutti avessero stili di vita adeguati e ci fosse un’adeguata prevenzione, forse saremmo più resistenti”.

Questa consapevolezza, associata alla diffusione mondiale del coronavirus e ai suoi effetti devastanti dovrebbe avere sufficientemente terrorizzato le persone da non farle più uscire di casa, motivandole a seguire le regole che sono state diffuse e le cui attuazione è obbligatoria. Ciò nonostante migliaia di persone hanno continuato a viaggiare lungo tutto il paese e la polizia ha multato più di 2000 persone per violazione alle norme restrittive del decreto governativo. Quali le ragioni di questi comportamenti? Superficialità, approccio troppo positivo al problema, angoscia e scarsa abitudine a seguire le regole. La superficialità è una specie di pensiero magico, in cui si pensa che il corona virus sia un problema che riguarda altri, ad esempio anziani e malati, è un modo per proteggersi da sentimenti di tristezza nel breve periodo. Queste persone negano l’esistenza del problema e, quindi, mettono in atto dei comportamenti di fuga dalla loro realtà. Un secondo tipo di atteggiamento è delle persone che hanno un approccio non mediato dalla realtà e che è troppo positivo, come ad esempio chi pensava all’inizio della diffusione che era poco più che un’influenza. Sono individui che vivono nell’illusione di soluzioni positive a breve termine. Un po’ come chi inizia una dieta o vuole smettere di fumare ed è fiducioso di riuscirci solo per il fatto di avere preso questa decisione, sono forme di pensiero illusorio per cui ai primi ostacoli le persone rinunciano a seguire le nuove regole che si sono date perché è troppo difficile. Nel caso del coronavirus il problema si manifesta nella difficoltà a mantenere le regole del distanziamento fisico dalle altre persone e quindi si esce, si fa una passeggiata in compagnia e si porta i figli a giocare ai giardini. Simile negli effetti ma diverso nelle ragioni è l’approccio di chi prova angoscia nel restare a casa, si percepisce come prigioniero, si sente leso nelle sue libertà di movimento e vive questa condizione in modo claustrofobico. Per superarla trova l’unica soluzione nell’uscire fuori. Infine, vi sono coloro che vivono in modo reattivo alle regole, hanno un atteggiamento da eterni adolescenti in lotta contro le norme del mondo degli adulti. Hanno difficoltà a fare proprie le regole, che in questo caso sono obbligatorie, e a sviluppare un concetto pluralistico della convivenza sociale basata non solo sui propri diritti ma anche sui doveri nei riguardi della collettività.

Queste sono alcune possibili interpretazioni di comportamenti che in un periodo di crisi mondiale come quello che stiamo vivendo e di sconvolgimento della nostra quotidianità possono spiegare le azioni dei molti che sembrano non volersi adattare alle nuove regole.

Attività fisica e depressione

Un nuovo studio mostra in modo evidente che l’Attività Fisica riduce la depressione anche in presenza di un alto rischio genetico. La prevenzione primaria basata su dati di ricerca per la depressione deve includere anche l’Attività Fisica.

Karmel W. Choi et al. Physical activity offsets genetic risk for incident depression assessed via electronic health records in a biobank cohort study. Depression & Anxiety, 5 novembre 2019.

Abstract

Background

Physical activity is increasingly recognized as an important modifiable factor for depression. However, the extent to which individuals with stable risk factors for depression, such as high genetic vulnerability, can benefit from the protective effects of physical activity, remains unknown. Using a longitudinal biobank cohort integrating genomic data from 7,968 individuals of European ancestry with high‐dimensional electronic health records and lifestyle survey responses, we examined whether physical activity was prospectively associated with reduced risk for incident depression in the context of genetic vulnerability.

 

Methods

We identified individuals with incident episodes of depression, based on two or more diagnostic billing codes for a depressive disorder within 2 years following their lifestyle survey, and no such codes in the year prior. Polygenic risk scores were derived based on large‐scale genome‐wide association results for major depression. We tested main effects of physical activity and polygenic risk scores on incident depression, and effects of physical activity within stratified groups of polygenic risk.

Results

Polygenic risk was associated with increased odds of incident depression, and physical activity showed a protective effect of similar but opposite magnitude, even after adjusting for BMI, employment status, educational attainment, and prior depression. Higher levels of physical activity were associated with reduced odds of incident depression across all levels of genetic vulnerability, even among individuals at highest polygenic risk.

Conclusions

Real‐world data from a large healthcare system suggest that individuals with high genetic vulnerability are more likely to avoid incident episodes of depression if they are physically active.

 

 

Tiger Woods è ritornato dall’inferno

Nel 2009, in occasione del torneo “The Invitational”, Arnold Palmer, il più grande golfista degli anni Sessanta, era andato incontro a Tiger Woods per congratularsi senza nemmeno aspettare l’esito del putt decisivo di quasi 5 metri che doveva imbucare per vincere. «Sapevo che ce l’avrebbe fatta semplicemente perché con Tiger non può accadere nulla di diverso», era al top della carriera golfistica.

E invece, proprio quando il dominio di Tiger sembra inattaccabile, la sua carriera prende una curva inaspettata, imboccando il tunnel degli scandali e dei guai fisici. Il 28 novembre 2009, in seguito a una lite con la moglie Elin Nordegren, Woods va a sbattere con la sua Cadillac contro un idrante per poi schiantarsi contro un albero a Isleworth, nei sobborghi di Orlando. Trascorre alcune settimane in una clinica per curare la dipendenza sessuale, ma il calvario è appena iniziato. Nell’aprile del 2011 si lesiona gravemente il tendine d’Achille, mentre a marzo dell’anno successivo inizia ad accusare i primi problemi alla schiena che lo porteranno a subire quattro interventi chirurgici, tra cui una fusione spinale che risolverà definitivamente i suoi problemi.

Ma fino a due anni fa Woods non riusciva nemmeno a piegarsi per allacciarsi le scarpe. «Potevo a mala pena camminare. Non riuscivo a sedermi, a sdraiarmi. Non potevo fare praticamente niente», ha detto Woods ieri dopo la vittoria all’Augusta Masters.

Notah Begay III, un amico di Woods con problemi di alcolismo, lo mette in contatto con Micheal Phelps, il re del nuoto che era riuscito a mettersi alle spalle una grave forma di depressione e due arresti per guida in stato di ebbrezza. I due si parlano al telefono, e Phelps, che è anche grande appassionato di golf, riesce a trovare la chiave per rivitalizzare Woods, distrutto dal dolore fisico e soprattutto dal timore di non riuscire più a tornare ai vertici”.

Ora pochi giorni fa ha vinto il primo Major della stagione, l’Augusta Masters a 11 anni dal suo precedente successo.

La Nike, che aveva da poco annunciato che non avrebbe più investito nel golf, in seguito alla vittoria dell’Augusta Masters lo ha rilanciato con la sua campagna pubblicitaria che aveva già avuto testimonial come Serena Williams e Colin Kaepernick.

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Disturbi mentali nel calcio

Non sappiamo molto sui disturbi mentali comuni di cui soffrono i calciatori professionisti, nella bibliografia accademica mondiale sono presenti pochissime ricerche e scarsa informazione scientifica (Gouttebarge e Aoki, 2014).

Un nuovo interessante studio pubblicato nel Journal of Sport Science & Medicine da Gouttebarge, Back, Aoki e Kerkhoffs (Journal of Sport Science & Medicine, 2015, 14, 811-818) indaga i sintomi correlati a stress, ansia/depressione o abuso di sostanze/dipendenza, generalmente indicati come sintomi di disturbi mentali comuni o CMD.

Obiettivo di questo studio è stato di “determinare la prevalenza di sintomi legati a CMD (angoscia, ansia/depressione, disturbi del sonno, l’abuso di alcol, disordini alimentari) in calciatori professionisti provenienti da cinque paesi europei e di esplorare le associazioni  e le misure sotto cui studiare gli eventi della vita e l’insoddisfazione riguardo la propria carriera di calciatore”.

In questo studio sono stati selezionati 540 calciatori professionisti provenienti da cinque paesi europei (Finlandia, Francia, Norvegia, Spagna e Svezia) e il metodo utilizzato è stato la somministrazione di un questionario elettronico.

I disturbi considerati dagli autori sono stati: distress, ansia, depressione, disturbi del sonno, abuso di alcolici e disturbi alimentari.

Questi fattori sono stati poi correlati agli eventi negativi della vita e all’insoddisfazione riguardo al proprio percorso professionale.

I risultati hanno messo in evidenza che i più alti tassi di prevalenza di sintomi legati alla CMD sono:

  • 18% (Svezia) per distress
  • 43% (Norvegia) per l’ansia / depressione
  • 33% (Spagna) per disturbi del sonno
  • 17% (Finlandia) per abuso di alcolici
  • 74% (Norvegia) per disturbi alimentari

Questo studio ha anche sottolineato come “in Finlandia, Francia e Svezia gli eventi della vita e l’insoddisfazione per la propria carriera sono stati associati con stress, ansia/depressione, abuso di alcolici, e disturbi dell’alimentazione”.

In conclusione, questo studio è molto importante e dovrebbe essere replicato con studi condotti in altri paesi considerando il numero di giocatori professionisti di calcio in tutto il mondo. Inoltre altri studi hanno rivelato che i sintomi legati alla CMD sono diffusi come in altre popolazioni oggetto di studio, che vanno dal 10% per distress al 19% per l’abuso di alcolici e al 26% per l’ansia/depressione (Gouttebarge et al., 2015).

 (sintesi di Emiliano Bernardi, da Journal of Sports Science and Medicine (2015) 14, 811-818, http://www.jssm.org)