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La sedentarietà nasce in famiglia

Spesso per spiegare l’elevata percentuale di giovani sedentari si dice che è colpa della scuola che non promuove l’attività fisica, non stimolando la loro partecipazione al mondo dello sport. Certamente questa è una delle spiegazioni del ridotto coinvolgimento sportivo degli adolescenti. Vi è però un’altra questione importante da tenere presente e riguarda direttamente le famiglie. Diciamo pure che la maggior parte della famiglie italiane non conduce uno stile di vita fisicamente attivo, anzi gli adulti dai 25 ai 65 anni fanno poco sport e spesso sono sovrappeso.

  • il 32% degli adulti è sovrappeso e l’11% è obeso
  • il 20% degli adulti svolge attività fisica in modo continuativo, il restante 80% pratica in modo saltuario o è completamente sedentari
Molti di questi adulti sono genitori e con il loro esempio quotidiano trasmettono ai loro figli il proprio stile vita. Non è quindi un caso se il picco di attività sportivo per le ragazze è intorno agli 11 anni mentre per i ragazzi a 14 anni. Nelle età successive l’abbandono sportivo è una costante che caratterizza il resto dell’adolescenza e i primi anni della vita adulta.
Sento dire che invece bisognerebbe essere contenti di queste percentuali che indicano un incremento notevole della pratica sportiva degli adulti e dei giovani negli ultimi 30 anni. Questo ragionamento è però sbagliato alla sua origine, poiché in quegli anni gli adulti erano molto più attivi fisicamente perché si camminava più spesso e per tragitti più lunghi e l’obesità non era ancora diventata un problema di salute nazionale. Inoltre, i giovani pur se a scuola facevano poca attività fisica, potevano giocare per strada e andare all’oratorio e questo li rendeva più attivi. E non erano inseguiti da genitori con le loro merendine. Oggi tutto questo è impossibile, non esiste più il gioco libero e spontaneo e vi sono altre forme di svago che li allontanano dalla pratica dello sport.
Per concludere, i genitori sono un tassello decisivo per lo sviluppo di uno stile di vita fisicamente attivo e dovrebbero essere sensibilizzati e aiutati a fare le scelte giuste per se stessi e per i loro figli.

Lo sviluppo dell’atleta è un processo a lungo termine

Quanti sanno che queste sono le fasi di sviluppo di un atleta da quando è un bambino, diventa adolescente, è un atleta e al termine della carriera si ritira?

L’organizzazione della scuola calcio: squadra A e squadra B

Ormai troppo spesso si parla di procuratori per minori di 10 anni, di provini nelle scuole calcio e della ricerca della squadra perfetta … ma non stiamo parlando di serie A. Parlo invece del calcio dei bambini dove frequentemente troviamo la suddivisone in squadra A e squadra B. Cosa vuol dire?

La risposta purtroppo universalmente riconosciuta è : i più bravi e i meno bravi.

L’aggettivo bravo è già di per sé generico e superficiale e se rivolto a bambini dai 6 ai 10 anni che muovono i loro primi passi nel mondo del calcio diventa privo di significato.

Ho compreso nel tempo che l’aggettivo bravo per gli allenatori include: il bambino “al momento” più competente a livello motorio, più veloce, senza problemi comportamentali, facile da gestire e che possiede già alcuni atteggiamenti del calcio professionistico (cadere sui falli, esultare tirando su la maglietta e così via). Sono queste le caratteristiche che  determinano la suddivisione delle squadre? E cosa  rimane fuori da questo ragionamento?  Rimane fuori la considerazione dell’apprendimento tra pari, rimani fuori qualsiasi concetto legato all’inclusione, rimane fuori qualsiasi pensiero legato allo sviluppo e al cambiamento, manca qualsiasi prospettiva futura a vantaggio del “tutto e subito”. Quel “tutto e subito” è la vittoria.

Ricerche europee dimostrano  che quasi il 70% dei bambini che inizia uno sport all’inizio dell’età scolare (5-6 anni), lo abbandona entro i 12-13 anni di età. Indagini realizzate per capire l’origine dell’abbandono riferiscono che i bambini che lasciano hanno la convinzione “di non essere abbastanza bravi”.

Ancora una volta il mondo adulto infrange le barriere del mondo dei bambini appropriandosi del loro linguaggio e convincendo il piccolo calciatore che è lui a non essere bravo.  In questo caso l’errore dell’allenatore è di far ricadere le sue personali aspettative infrante e le sue difficoltà di gestione sui piccoli calciatori, privandoli della possibilità di vivere fino in fondo la loro occasione.

L’utilizzo dell’aggettivo “bravo”sottolinea  in maniera indiscussa la mancanza di competenza di chi usa questo linguaggio scegliendo la strada più semplice  come allenatore e il minor vantaggio per il bambino.

Purtroppo nel calcio giovanile manca una prospettiva a lungo termine e non si accetta la difficoltà di oggi per il beneficio di domani. Viene spesso ignorato il significato dell’apprendimento tra pari ed anche il vantaggio, per i bambini, dei gruppi eterogenei a favore invece della costruzione di gruppi omogenei per competenze. La scelta dell’omogeneità nasconde una scelta egoistica e priva i bambini dell’arricchimento derivante dalle reciproche differenze.

“Ciò che i bambini sanno fare insieme oggi, domani sapranno farlo da soli” (Vygotskij)

(di Daniela Sepio)

US: 87% dei genitori preoccupati del rischio infortuni nello sport

Negli Stati Uniti gli sport giovanili stanno diventando sempre più competitivi, e la maggior parte dei genitori credono che i loro figli ne soffrano.

Secondo un nuovo sondaggio nazionale pubblicato dal espnW: Women + Sport summit, i due terzi dei genitori ritiene che ci sia “troppa enfasi sul vincere piuttosto che sul divertirsi” e  l’87% è preoccupata per il rischio di infortunio nello sport.

I genitori sono più preoccupati dei traumi fisici che avvengono sui campi di football delle scuole, che ultimamente sempre più di frequente sono  in prima pagina. Proprio la scorsa settimana, sono morti tre giocatori di football delle scuole superiori in Alabama, North Carolina e New York, probabilmente a causa di infortunio.

Le preoccupazioni dei genitori sarebbero alla base del calo nella partecipazione sportiva dei  giovani avvenuta negli ultimi anni. Nel 2008, il 44,5% dei bambini di 6-12 anni aveva partecipato a sport organizzati da società sportive. Menre solo il 40% dei bambini lo ha fatto nel 2013, secondo la Sport & Fitness Industry Association. Football, basket, baseball e calcio hanno tutti registrato una flessione a due cifre in partecipazione.

(Fonte: Time)

Alleno mio figlio?

Sempre più di frequente mi viene chiesto come gestire la difficile situazione in cui ci si trova essendo l’allenatore del proprio figlio.

Nel calcio professionistico non avviene quasi mai, anche se negli anni possiamo trovare qualche nome illustre da Cesare Maldini che allenava Paolo, a De Rossi nella Primavera della Roma. Nel mondo delle scuole calcio, per scelta o meno, spesso tra i piccoli giocatori da allenare c’è il proprio figlio. A volte si è spinti da un inevitabile scelta logistica e a volte capita che la scelta non sia proprio casuale. Non mi sento di demonizzare a priori la situazione, ma invito a riflettere: “Perché mi trovo ad allenare mio figlio? È realmente una casualità oppure nei miei pensieri c’è stato il desiderio di avere la certezza che sia seguito nella maniera adeguata, di avere sempre il controllo della situazione in casa e fuori o semplicemente la convinzione di non ritenere valida nessuna alternativa possibile (nessuno potrà allenarlo bene quanto me)?”.

So che può capitare e che sia una scelta consapevole o meno ritengo importante fare alcuni passi fondamentali.

Il primo passo è riflettere sulla necessità della scelta: è davvero così inevitabile? Una volta deciso di andare avanti è importante avere la capacità di guardarsi dentro e capire a quali di queste inevitabili categorie di allenatore-papà si appartiene:

  • Evitante: per evitare di essere criticati di volere favorire il proprio figlio e di vederlo etichettare come raccomandato il padre reagisce trattandolo peggio degli altri: la colpa sarà spesso la sua, riceverà meno incoraggiamenti (magari poi lo consolo a casa) e meno attenzioni.
  • Esigente: rischiare di chiedere al proprio figlio molto di più di quello che si richiede agli altri giovani calciatori. Il padre non è mai soddisfatto del proprio figlio, perché è suo padre e può permettersi di esserlo.
  • Buonista: avere un comportamento lassista nei confronti di quei comportamenti del figlio che invece andrebbero sanzionati e limitati.

Ogni allenatore-papà difficilmente  potrà raggiungere la giusta posizione all’interno del suo duplice ruolo, ma dovrà tendere il più possibile alla situazione ideale in cui il proprio figlio è un componente della squadra come tutti gli altri,  avrà qualità da valorizzare, difetti da correggere e tante cose da imparare come i suoi compagni. In lui potranno essere visibili potenzialità da esprimere ma anche  limiti da superare oppure inevitabilmente da accettare.

Infine lascio, a tutti i papà in cerca del Campione, che non si chiedono se il reale desiderio del proprio figlio sia realmente quello di stare su un campo di calcio,  l’invito a riflettere su un brano della ormai famosissima biografia di Andre Agassi:
“Ho sette anni e sto parlando da solo perché ho paura e perché sono l’unico che mi sta a sentire. Sussurro sottovoce: Lascia perdere, Andre, arrenditi. Posa la racchetta ed esci immediatamente da questo campo. Non sarebbe magnifico, Andre? Semplicemente lasciar perdere? Non giocare a tennis mai più? Ma non posso. Non solo mio padre mi rincorrerebbe per tutta la casa brandendo la mia racchetta, ma qualcosa nelle mie viscere, un qualche profondo muscolo invisibile me lo impedisce. Odio il tennis, lo odio con tutto il cuore, eppure continuo a giocare, continuo a palleggiare tutta la mattina, tutto il pomeriggio, perché non ho scelta”.

(di Daniela Sepio)

Come motivarsi

Lo sprinter americano Michael Johnson, vincitore di cinque medaglie d’oro alle olimpiadi e otto volte campione del mondo, ha così riassunto l’importanza della motivazione:

“La mia migliore motivazione è sempre venuta dalla gioia pura di correre e di gareggiare, è lo stesso brivido che ho come fossi un bambino di 10 anni. Avete mai conosciuto un bambino di 10 anni nauseato da quello che fa? Bisogna trovare la propria motivazione iniziale, per questa ragione diventerai un architetto. Questo è il segreto della perseveranza”.

L’attività sportiva dovrebbe consentire l’affermarsi di un atteggiamento che può essere sintetizzato nella se­guente frase:

E’ grazie al mio impegno e al piacere che provo che divento sempre più bravo in quello che faccio”.

Le attività motivate da una spinta interiore si basano sulla percezione soggettiva di soddisfazione che si trae dallo svolgere un determi­nato compito.

Al contrario, qualsiasi intervento esterno che tenda a ridurre nell’atleta questa consapevolezza interiore influenzerà negativamente la sua motivazione.  Succede quando un atleta s’impegna solo per ricevere un premio materiale (vincere un trofeo) o il riconoscimento da parte degli altri (“Lo faccio per i miei genitori o per l’allenatore che così saranno contenti o perché sarò più ammirato dai miei compagni di scuola”). La prestazione sportiva diventa così solo un mezzo per raggiungere un altro scopo che diventa, invece, il vero fine dell’azione: il giovane non agisce per il piacere che gli fornisce l’attività stessa ma per ricevere un determinato riconoscimento. Pertanto, i rinforzi esterni che incoraggiano l’atleta ad attribuire la sua partecipazione a motivi esteriori riducono la sua motivazione interna.

L’allenatore non dovrebbe servirsi di rinforzi che dall’atleta siano percepiti come più importanti della stessa partecipazione spor­tiva, ma dovrebbe fornire suggerimenti utili ad aumentare il senso di soddisfazione che il gio­vane trae dall’esperienza agonistica.

I risultati sportivi che sono percepiti come il risultato di fattori inter­ni personali, quali l’abilità, la dedizione, l’impegno piuttosto che di fattori esterni (fortuna, limitata capacità degli avversari,  decisioni arbitrali a favo­re) sono associati a stati d’animo di soddisfazione e di orgoglio.

Le madri dei calciatori: il difficile percorso nel mondo dei figli maschi

Si sa che in Italia il calcio è maschile, per cui è ovviamente più frequente che io mi trovi a relazionarmi con madri di figli maschi. Queste mamme sono spesso accusate di legami troppo intensi che sembrano essere la causa di ogni problema. “Signora lei dovrebbe lasciarlo più libero” ecco la frase che più spesso viene ripetuta alle mamme, questo per una madre è come sentirsi dire: “Signora lei lo ama troppo”.  Le madri amano davvero troppo? E come deve essere la madre di oggi per crescere il miglior figlio per il futuro?

Considerare le madri la causa di ogni problema è un punto di vista sbrigativo e superficiale che predilige il giudizio al sostegno. Le madri necessitano di un aiuto e non solo di uno sterile esame critico. Per questo decido di rivolgermi alle tante mamme di piccoli e grandi calciatori per dare indicazioni pratiche e non giudizi.

Allevare un figlio maschio vuol dire discutere sullo studio, dosare la playstation, gridare sulla camera da rimettere a posto o trovarsi a dire  questa casa non è un albergo, ma crescere un figlio maschio vuole anche dire sostenere ogni giorno il difficile compito di saper trovare la risposta giusta al momento giusto, senza apparire frettolose o peggio petulanti. A volte anche la madre più premurosa può risultare inopportuna perché solo l’esperienza nel tempo la aiuterà a capire come è fatto un figlio maschio. Le parole scelte per educarlo sono anche quelle che inconfondibilmente segneranno la strada che come madre si è deciso di prendere.

Ecco alcune cose che è importante sapere:

Non è possibile fornire il vocabolario preciso di cosa è meglio dire con un figlio maschio, ma sicuramente è importante sapere che  un maschio si dimostrerà più sensibile sulle frasi che insistono su ciò che fa, piuttosto che su ciò che è. Dirgli che è bravo, adorabile o meraviglioso gli farà piacere se però gli si parlerà di una cosa che ha fatto, di un evento in cui si è dimostrato all’altezza riuscirà ad assimilare ancora di più il vostro discorso. Inevitabilmente sono più portati a capire le affermazioni relative a ciò che fanno, piuttosto che quelle su ciò che sono.

È importante ricordare che ogni ragazzo ha sempre un’immagine reale di sé stesso e se una madre tenderà a non voler vedere i problemi del figlio potrà solo spingerlo ad enfatizzarli. Per questo è importante fare commenti che gli permettano una visione reale di sé stesso. Se giocherà bene e vincerà una partita sarà meglio dire “devi essere orgoglioso di te” piuttosto che “sono orgogliosa di te”.

Un ragazzo è una polveriera di emozioni pronta a scoppiare e spesso a farlo esplodere può essere anche una sola piccolissima scintilla. Bloccare l’esplosione è tutt’altro che facile e di certo è utile sapere che non sono i lunghi discorsi a spegnere la miccia, ma, ancora di più che con una figlia femmina, bisogna essere attenti a non criticare automaticamente i comportamenti.  I maschi sono sensibili alle critiche, ma anche al sostegno che gli si offre.

I ragazzi sono più aggressivi sia nei comportamenti che nelle emozioni per questo spesso le critiche materne sono avvertite più come aggressione che come consiglio.

Un ragazzo si aspetta che la madre decifri i suoi sentimenti e li esprimerà comunque e sempre di più attraverso atteggiamenti e comportamenti piuttosto che a parole

Un ragazzo risponde maggiormente alle richieste della madre quando lei eviterà discorsi astratti e generici e mostrerà concretamente cosa fare e come agire di fronte alle singole situazioni

Per concludere alle madri di piccoli e grandi calciatori mi preme ricordare che:

I maschi si esprimono più a livello fisico che a livello verbale e tendono a farlo in modo impetuoso. Per questo motivo molto spesso i problemi disciplinari e la mancanza di attenzione dipendono proprio dalla limitata attività fisica, che non permette uno sfogo adeguato alle loro necessità. Questo spiega perché la scelta di vietare l’attività sportiva per ovviare alle mancanze scolastiche non fa che peggiorare la situazione anziché migliorarla, creando un circolo vizioso in cui la punizione alimenta il comportamento punito.

(di Daniela Sepio)

Educare i genitori allo sport

La National Alliance for Youth Sports ha realizzato un programma educativo per i genitori dei ragazzi e ragazze che praticano sport per renderli consapevoli del loro ruolo e delle responsabilità così come dei modi per rendere piacevoli e positive le esperienze dei loro figli.

 

Lo sport: premio o punizione?

E’ inziata la scuola e molti genitori preoccupati del rendimento scolastico spesso tagliano lo sport. Il calcio è uno di questi. Allenamenti che saltano e pratica sportiva abbandonata, se il rendimento scolastico non va. L’attività fisica è considerata un premio e quindi, per abitudine educativa, utilizzata di contro come punizione.

“Mens sana in corpore sano” contiene in sé una profonda verità che diviene ancor più realistica se associata all’infanzia e all’adolescenza. Abituare il proprio figlio ad un’adeguata gestione tra scuola e sport è la strategia educativa vincente che punta sul senso di responsabilità, stimolando le capacità organizzative del bambino e del ragazzo. Il desiderio di essere puntuale al proprio allenamento stimola ad organizzarsi, a tirare fuori le proprie capacità gestionali. È importante per i genitori imparare ad utilizzare i desideri dei bambini e dei ragazzi come stimolo e non come fonte punizione,  questo al fine di ottenere risultati duraturi e non semplicemente associati al momento punitivo.

La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità  nel  “Global Recommendations on Physical Activity “ definisce per ogni fascia di età l’attività fisica consigliata. Tra i 5 e i 17 anni raccomanda: “almeno 60 minuti al giorno di attività moderata–vigorosa, includendo almeno 3 volte alla settimana esercizi per la forza che possono consistere in giochi di movimento o attività sportive”.

Questo interesse per l’attività fisica  durante l’infanzia e l’adolescenza conferma l’importanza dello sport  per la crescita fisica e psicologica delle nuove generazioni. Il primo passo da fare è imparare a non considerare lo sport come un capriccio del bambino, da utilizzare come premio e punizione, ma un aspetto fondamentale che va integrato nel percorso educativo del proprio figlio.

(di Daniela Sepio)

L’adolescente in campo: una sfida per l’allenatore

Quando gli allenatori si trovano alle prese con atleti adolescenti la loro capacità relazionale viene spesso messa a dura prova. La soluzione più frequentemente adottata è “fare l’amico”. In realtà anche quando le età cambiano e ci si sente quasi in dovere di cambiare livello relazionale,  la vera sfida è mantenere il proprio ruolo. L’allenatore-amico non serve, il tecnico deve invece applicare alcune regole, utili anche ai genitori,  che gli permetteranno di  aprire  la comunicazione con l’adolescente:

  • Stimolare la partecipazione attiva per facilitare i processi di attenzione e memorizzazione: fare esempi
  • Capire i bisogni di chi ascolta. La motivazione all’ascolto è fondamentale. quali messaggi lo catturano di più?
  • Ricercare i feedback. Non può esservi comunicazione senza scambio: il feedback è dunque uno step essenziale di questo processo.
  • Creare vicinanza: camminare tra  loro
  • Seguire i loro ritmi. Hanno l’abitudine a confrontarsi con messaggi che hanno le seguenti caratteristiche: velocità, movimento, colori, suoni, interattività. Messaggi che non presentino alcune di queste caratteristiche riducono l’attenzione e la motivazione all’ascolto.
  •  Usare il loro gergo
  • Utilizzare canali diversi (visivo, uditivo, cinestesico)
  • Essere concreti evitando l’eccesso di informazioni

Parallelamente esistono degli atteggiamenti che, al contrario,  sono in grado di interrompere qualsiasi possibilità di comunicazione con l’adolescente:

  • L’eccesso di informazioni
  • Dare giudizi e valutazioni negative senza indicare la strada per il cambiamento
  • Avere un atteggiamento di superiorità: “sono più grande e so come vanno le cose”
  • Mantenere una distanza fisica e psicologica
  • Tendere alla manipolazione e al controllo

Comunicare con i giovani è veramente una sfida. Rimaniamo spesso spiazzati di fronte alle loro domande, o ai loro silenzi. Hanno la capacità di smuovere molti vissuti profondi che vanno riconosciuti ed elaborati  per poter proseguire al meglio nel proprio ruolo di formatore.

(di Daniela Sepio)