Archivio per il tag 'Campioni'

Pagina 2 di 3

Se Roger Federer e Valentino Rossi dimostrano che la classe non ha età

“Eh già, io sono ancora qua” canta Vasco Rossi e lo stesso dicono Valentino Rossi e Roger Federer. Sono arrivati ambedue secondi, dimostrando ancora un volta di valere il primo e il secondo posto nella classifica mondiale. Molti li hanno dati per spacciati in tante occasioni, affermando che non sapevano più vincere, che erano vecchi, che il fisico non li sorreggeva più.

Probabilmente sono obiezioni che per un po’ di tempo sono state vere, ma qualsiasi atleta attraversa momenti come questi, spesso i campioni li superano cambiando qualcosa nel loro modo di allenarsi e di vivere le competizioni. Con più probabilità gli altri affondano, perché usano questi momenti negativi come alibi per ritirarsi a causa di qualcosa che considerano superiore a loro. Nei commenti spesso ci si sofferma sulla loro età come fosse un limite imprescindibile, una caratteristica a cui bisogna arrendersi.

Sento dire: “Federer è vecchio e non è più in grado di reggere che pochi scambi, altrimenti perde il punto”. Ma quanti vorrebbero avere questa difficoltà pur di essere secondi al mondo? Dicono anche che a causa di questo limite ha dovuto cambiare modo di giocare. È vero, ma perché dare a questo cambiamento una connotazione negativa? E non invece sottolineare la sua determinazione nel cambiare per continuare a restare al vertice della classifica mondiale. Lo stesso si diceva fino all’anno scorso di Valentino Rossi: “Perché non si ritira anziché collezionare risultati deludenti?”.

Il coro del “perché non abbandona” lo hanno subito anche altri campioni. In Italia Giovanni Pellielo, nel tiro a volo, dopo tre medaglie in tre olimpiadi diverse, a Londra, a 42 anni, non entrò in finale e anche qui le stesse voci, non ci ha fatto caso, si è allenato e l’anno successivo ha vinto di nuovo il campionato del mondo. Valentina Vezzali, 41 anni, schermitrice, ha vinto tutto ripetitivamente, non le basta ancora e vuole andare a Rio. Per non parlare di Andrea Pirlo e Gigi Buffon e del sogno che stanno vivendo in questi giorni con la Juventus. Valutiamo questi uomini e donne per le loro prestazioni ma non per l’età. Soprattutto impariamo da loro, perché sono un esempio di mentalità combattiva di fronte alle difficoltà e di umiltà nell’affrontare i sacrifici quotidiani che sono necessari per ritornare a eccellere nel loro sport, senza avere la certezza di riuscire in questa impresa.

(Da Huffington Post)

La depressione degli atleti: un disagio diffuso e ignorato

Almeno il 20% degli atleti soffre di depressione, il fenomeno riguarda poi uno sportivo su due quando si arriva alla fine della carriera. Due aspetti vanno tenuti in grande considerazione quando parliamo di depressione nello sport. Il primo,  la psicopatologia prodotta da nevrosi e comportamenti instabili è poco frequente tra gli atleti di alto livello, perché lo sport è già una sorta di ‘vaccino’ contro questo tipo di manifestazioni. Nel contempo però vi un altro aspetto a far correre maggiori rischi: la scelta di fare dipendere tutta la propria vita dal raggiungimento dei risultati sportivi, con in aggiunta il contemporaneo giudizio  sul proprio valore come persona. Così in caso d’insuccesso, ad essere messa in discussione è l’intera vita. Un fallimento che può portare a una depressione molto grave e in casi limite al suicidio. La fase più critica nella vita dello sportivo è l’avvicinarsi della fine carriera. Qui a correre il rischio depressione e’ il 50% dei professionisti. E non dipende dalla popolarità dello sport o dal titolo di studio del campione. Quando si spengono le luci della ribalta la vita degli ex atleti puo’ diventare vuota e scialba. Chi non si è preparato un’alternativa al campo finisce nel vortice depressivo. Il “male oscuro” In Italia, colpisce il 6% degli adulti di età compresa tra i 18 e i 69 anni, e in maggioranza donne. Questi i dati fotografati dal sistema ‘Passi’ coordinato dal Centro nazionale di epidemiologia e promozione della salute (Cneps) dell’Istituto Superiore di Sanità. Inoltre nello sport, gli atleti che hanno utilizzato il doping, abusando ad esempio di steroidi anabolizzanti, corrono un forte rischio di manifestare fenomeni depressivi. Ecco perché oltre al calcio, sono il ciclismo, l’atletica leggera e gli sport di resistenza le discipline dove la patologia depressiva è più diffusa. Il rischio, per molti atleti e sportivi in genere, è quello di perdere il contatto con la realtà. L’attenzione ai problemi depressivi degli sportivi a livello agonistico è scarsa. Spesso i giovani talenti manifestano sul campo i sintomi di un’indolenza nei confronti delle forti pressioni psicologiche che subiscono per diventare super-campioni: si allenano male, rendono poco nelle gare. Dimostrando così agli altri che c’è un problema. Inoltre, spesso vengono già da situazioni di forte stress familiare, dove i genitori fin da piccoli li hanno stimolati a ottenere sempre il massimo. A essere competitivi a tutti i costi.

 

Real Madrid-Barcellona: quando il calcio è di nuovo appassionante

Ieri sera si è giocata Real Madrid – Barcellona ed è stata una gran bella partita di calcio. E’ terminata 4-3 per il Barcellona ma è tanta la qualità dei giocatori in campo che sarebbe potuta  terminare anche 6 a 6. Si sono affrontate due filosofie di gioco diverse, quella del Real Madrid centrata sulle individualità che risolvono le partite e quella del Barcellona in cui domina la coralità del gioco. Due squadre che volevano vincere e quindi si sono rese disponibili a subire gli attacchi continui degli avversari. Una partita in cui si è corso, non per il gusto di faticare, ma per la necessità di mantenere elevata l’intensità di gioco, per non dare ognivolta  agli avversari  il tempo di riorganizzarsi con facilità. Mantenere un’elevata pressione sugli avversari è un atteggiamento che il Barcellona ha saputo mostrare meglio del Real Madrid. Ci sono stati tre rigori perchè la qualità di Cristiano Ronaldo, Neymar e Iniesta è tale che i difensori hanno dovuto commettere fallo per fermarli. Quando due squadre composte da così tanti campioni entrano in campo per vincere lo spettacolo è certo, sono giocatori che non rallentano e trasmettono al pubblico la loro voglia di rischiare, di giocare la palla per il piacere che dà il farlo in modo efficace. E’ certamente il loro lavoro ma hanno trasmesso che il calcio è la loro passione e che con questo atteggiamento giocano. Un po’ come nelle partite dei bambini in cui tutti vogliono divertirsi e fare goal.

Non bastano solo 10.000 ore per avere successo

Il talento da solo non basta servono anche 10.000 ore di pratica per avere successo non solo nello sport ma in qualsiasi altro campo di applicazione. Questa idea si va sempre diffondendo dalla BBC inglese ai quotidiani (la Repubblica di oggi). In realtà la questione è più complessa e articolata rispetto a come viene divulgata. Intanto è necessario che queste ore vengano distribuite in un lungo periodo di tempo. Se si parla di giovani (come nel caso dello sport e dei musicisti) sono anche necessari almeno 10 anni. Poichè all’inizio si spenderà un tempo ridotto di circa 300 ore all’anno, che dopo i 15/16 anni diventano 600/700 ore, 900 a 18/19 anni e 1200 negli anni successivi e così di seguito sino a fine carriera. La distribuzione nel lungo periodo del tempo dedicato a un’attività  è un fattore essenziale, altrimenti l’allenamento o qualsiasi altra forma di apprendimento non sarebbero altro che attività nevrotiche e alienanti. Inoltre per diventare esperti servono dei maestri eccellenti e non basta la sola applicazione. Nessun impara da solo e l’eccellenza si raggiunge con insegnanti di alto livello, in termini di abilità a guidare i giovani e mantenere elevata la loro motivazione. Le famiglie costituiscono un altro tassello fondamentale nella formazione, poichè forniscono non solo il sostegno economico ma anche il sostegno affettivo. Sappiao che esistono genitori particolarmente negativi e opprimenti, ciò non toglie che un ambiente sociale stabile sia un fattore che gli atleti, diventati adulti, riconoscono che sia stato importante per loro. Infine va detto che 10 anni possono anche non bastare, ad esempio per entare nella squadra olimpica US sono necessari 12/13 anni da quando si è iniziato a praticare il proprio sport. In altre parole, noi adulti non dobbiamo mai dimenticare che l’impegno di un giovane è un processo a lungo termine. Pertanto, pensare di avere un campione in casa quando un ragazzo/a è  all’inizio dell’adolescenza serve solamente a determinare inutili illusioni che quasi sicuramente la realtà farà crollare, con conseguente negative sulla fiducia del giovane nelle sue capacità.

Avere la tenacia per ricominciare non è facile

Per un atleta che nella sua carriera ha raggiunto i vertici assoluti, trovarsi nella condizione di dovere ricominciare a lavorare sulla sua tecnica sportiva e su una diversa gestione della gara, perchè sono state cambiate le regole del suo sport non è affatto un compito facile. Soprattutto quando ciò avviene nell’anno post-olimpico periodo in cui la maggior parte degli atleti tendono a concedersi del tempo per recuperare dallo stress delle olimpiadi e preferiscono non essere sin da subito impegnati in allenamenti intensi e simpegnativi. L’unione di questi aspetti, cambiamento delle regole e necessità di mantenere l’impegno al massimo livello, può determinare una condizione di stress mentale in cui l’atleta non vorrebbe trovarsi in questa fase della sua carriera. Inoltre, gli atleti giovani  della stessa disciplina vedono nell’anno post-olimpico un’opportunità per puntare a fare esperienze a livello internazionale e pertanto sono portati a impegnarsi al massimo per essere notati dal ct della nazionale. Sono quindi molteplici le ragioni che impediscono di vivere questo anno in modo poco impegnativo mentre invece spingono nella direzione di un rapido adattamento alle nuove regole tecniche e della competizione.

Balotelli, il rispetto e gli arbitri

Pubblico questo articolo di Paolo Casarin su Balotelli apparso sul Corriere della Sera del 30 aprile.

Balotelli dice” prendo cento falli a partita, che non mi vengono fischiati, ma appena dico qualcosa vengo ammonito”. Balotelli parla da solitario: invece gioca al calcio assieme ad altri 21 calciatori e alla presenza di un arbitro, almeno. Tutti legati dal gioco: Balotelli gioca per fare gol, l’altra squadra per impedirglielo, l’arbitro per vedere se tutto avviene nella correttezza. Mario fa degli errori tecnici, i difensori ci mettono molta forza, l’arbitro non sempre giudica con precisione; ma in serie A gli errori sono nettamente inferiori alle cose ben fatte, da tutti e tre. Il calcio è un lavoro fisico di gruppo, una sfida tra due squadre affiatate che, quando sono di grande livello, finiscono per darsele, nei limiti del sano agonismo, reciprocamente. Le botte misurate con il rispetto dell’altro, pronti a chiudere la pratica con una stretta di mano. “ La prossima volta fai più attenzione” ho sentito dire mille volte tra di loro. I grandi calciatori non hanno bisogno dell’arbitro, se non per chiedere quanto manca alla fine. I calciatori che ambiscono alle prime pagine, prima di ogni cosa, debbono conoscere il gioco degli avversari, studiarne le mosse e cercare di superarli. Nella correttezza, senza cadere a terra  per un colpo di vento. Con questo comportamento cresce la stima tra i campioni e gli aspiranti campioni, che guardano proprio alla “figurina” con ammirazione, anche se è l’avversario. Per questo si scambiano la maglia, alla fine. Mario ha anche detto che con lui gli arbitri non parlano, durante il gioco: preferiscono evitarlo e gli negano, perciò , ogni dialogo. Balotelli ha diritto di essere ascoltato, come tutti: ricordiamoci, però, che i grandi calciatori coltivano il rapporto con l’arbitro con misura , quasi con solidarietà, senza attese.

Mi piace questo articolo per l’idea di rispetto e di solidarietà senza attese che un calciatore deve avere con l’arbitro. Balotelli farà un salto in avanti  nella sua maturità psicologica quando non si sentirà più un isolato o discriminato ma come parte del gioco che richiede la presenza 22 giocatori e l’arbitro per potere svolgere una partita. Tutti sono legati a tutti e rispetto e solidarietà senza attese sono necessarie perchè l’incontro non si trasformi in una rissa.

Capita di pensare di abbandonare ma non di farlo

In quei giorni in cui pensiamo di non farcela e di lasciare la corsa, il nuoto o qualsiasi sport si stia facendo, non prendiamoci sul serio perchè capita anche ai campioni di pensarlo.

Lolo Jones, 100m ostacoli e bobbista per la squadra USA,ieri  ha twittato: “Today’s running workout was so hard I thought about retirement. R U READING THIS COACH?! Or R U busy planning my next workout w the Devil??!” e subito dopo “Coach Shaver had me run with 6 guys, All world class Track Athletes. I was like a dog trying to keep up with a Wolf pack.”

Lindsey Vonn e la depressione dei campioni

L’ultima atleta di cui siamo venuti a sapere che ha sofferto di depressione  è la campionessa dello sci Lindsey Vonn (leggi l’intervista su http://www.people.com/people/article/0,,20655760,00.html), dopo Buffon, Thorpe e tanti altri. Siamo molto lontani da quando negli anni ’80 gli psicologi scrivevano che i campioni dello sport mostrano personalità complesse e ben equilibrate. Non è vero!! Per molto tempo si è infatti pensato che chi aveva successo e non solo gli atleti ma anche gli allenatori, i grandi leader, i vincenti rispetto ai perdenti fossero accomunati da tratti di personalità comuni e pertanto la loro individuazione nei giovani avrebbe permesso di selezionare i potenziali campioni dagli altri. Nessuna ricerca l’ha  mai potuto dimostrare. D’altra parte basta pensare ai campioni che tutti conosciamo per capire le grandi differenze di personalità: Tomba e Thoeni, Maradona e Platini, Rivera e Meroni, Messi e Balotelli, per citarne solo alcuni. Si può essere vincenti e depressi, anzi l’essere continuamente sotto l’occhio dell’opinione pubblica piuttosto che il dovere/volere continuare a vincere creano ulteriori pressioni psicologiche che aumentano il conflitto tra quella parte di sé che soffre del male di vivere e quell’altra che vuole continuare a dare il meglio di sé.

E’ la testa che comanda!

Tiger Woods rappresenta lo spot migliore per gli psicologi dello sport, poichè è l’esemplificazione di quanto la mente sia decisiva per vincere e che la tecnica da sola può solo creare illusioni ma non basterà mai se non è associata all’autocontrollo personale. Non deve esser affatto semplice per un campione come Woods accettare che il crollo della prestazione possa avvenire da un momento all’altro, riportandolo a essere solo un bravo giocatore come tanti altri. Per un fuoriclasse abituato a fare quello che vuole sul campo da golf, con più di 70 tornei vinti, di colpo (in seguito alla storia della separazione dalla moglie) non essere più se stessi può creare anche problemi d’identità, perché non sei più quello che eri. Un po’ come quegli artisti che non sono stati più capaci di ripetere i loro capolavori perché erano diventati alcoolizzati.

La fragilità dei più forti

Le Olimpiadi sono diventate da tempo un business incredibile che dissangua gli Stati che li ospitano, determinando debiti da pagare in vari decenni successivi; ciò non toglie che continuano a affascinare tutti noi anche se smaliziati a ogni tipo di spettacolo e di truffa. Infatti, noi, gli spettatori e loro, gli atleti, siamo accomunati da un unico desiderio. Noi speriamo di vedere prestazioni incredibili che ci facciano sognare mentre loro, alcuni sperano di fornirle e la maggior parte vuole potere dire “io c’ero.”
Per la maggior parte degli atleti partecipare alle Olimpiadi è la realizzazione di un sogno per cui si sono impegnati a riuscirci con tutte le loro forze. Facciamo qualche esempio. La rappresentativa italiana sarà composta da alcune fra le più grandi atlete di tutti i tempi. “Le anziane” Alessandra Sensini, Josefa Idem e Valentina Vezzali, vogliono continuare a vincere anche questa volta per dimostrare che l’età non conta. Federica Pellegrini, star del nuoto, anche lei vuole ripetersi per terza volta e su distanze diverse. Infine la più giovane Jessica Rossi, non ancora ventenne, è la favorita nella fossa olimpica femminile. Ognuna di loro persegue il proprio sogno, sono divise da più di vent’anni di età e di esperienza ma l’obiettivo sarà lo stesso.
Sotto questo punto di vista le Olimpiadi non sono cambiate affatto, poiché continuano a rappresentare il massimo risultato sportivo a cui un atleta può aspirare. Salire sul podio significa entrare nella storia dello sport. Forse è solo retorica dirà qualcuno, personalmente non lo penso. Si partecipa alle Olimpiadi per diritti acquisiti sul campo sportivo e infatti è possibile che un vincitore di medaglia olimpica nella precedente edizione non vi partecipi, perché non ha ottenuto nei quattro anni seguenti quel risultato che glielo avrebbe permesso.
Le Olimpiadi sono ogni quattro anni e non tutti vi partecipano due volte, a differenza dei mondiali o delle più importanti gare internazionali che sono in larga parte su base annua. Chi sbaglia un mondiale può ripeterlo l’anno successivo, chi sbaglia un’Olimpiade deve aspettare quattro anni, sempre che si qualifichi. Lo stress raggiunge livelli incredibili. Un’atleta che ho allenato mentalmente, sbagliò un’Olimpiade, giurò a se stessa che a quella seguente sarebbe partita dall’Italia solo 10 giorni prima dell’inizio della gara e non un mese prima come aveva fatto la volta precedente andata male. Ebbe ragione perché vinse la medaglia d’argento. Un altro prima dell’inizio della finale olimpica mi disse di dirgli qualcosa che lo motivasse perché aveva voglia di scappare, sentiva la nausea e stava a pezzi. Gli parlai brevemente dei sacrifici che aveva fatto per giungere al quel momento, vinse la medaglia d’argento. Per i favoriti al podio i traumi di una sconfitta si portano dietro per anni, non sono facili da superare anche se nel frattempo si è vinto un altro campionato del mondo. Conosco un atleta che ha vinto tre volte il campionato del mondo ma non è mai entrato in finale alle Olimpiadi, lui cambierebbe questi tre titoli per una medaglia ai giochi olimpici.
Questi atleti non reagiscono in questo modo perché sono psicologicamente fragili ma perché il loro investimento personale sulla preparazione di questo evento agonistico è così totalizzante e prolungato nel tempo che la sconfitta è spesso vissuta da loro come una vera e propria disfatta personale. Vincere le olimpiadi significa avere fatto in quel determinato giorno “la gara della vita”, forse non dovrebbe essere così drammatico ma è quasi impossibile vivere questa prestazione in modo diverso. E’ la realizzazione di un sogno e di tanti sacrifici, è certamente ben retribuito dal punto di vista economico, ma non ci scrolleremo mai d’addosso questa percezione estrema e romantica della prestazione olimpica come composta da momenti irripetibili che tutti sperano siano vincenti.