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Quando il campione licenzia l’allenatore

Uccidere il padre non è soltanto una tentazione edipica ma, simbolicamente parlando, sta diventando quasi una disciplina olimpica. Jannik Sinner non ha mai vinto tanto come da quando ha cambiato guida tecnica. E il suo dioscuro Matteo Berrettini è solo l’ultimo campione ad avere abbandonato quel padre putativo (a volte, come vedremo, è anche un padre vero e proprio) che è il coach: addio a Vincenzo Santopadre dopo tredici anni pieni di tutto.

Alberto Cei, psicologo dello sport, prova a illustrare la complessità del problema: «A volte si cambia allenatore perché ci si conosce troppo, perché ripetersi stanca o annoia, non è più motivante. Lo diceva pure Trapattoni: dopo cinque anni, gli atleti non ti seguono più. Ma un nuovo tecnico può anche rappresentare uno shock positivo in un periodo di crisi: penso a Jacobs e Berrettini. La novità come stimolo necessario. Infine, non si dimentichi che un campione può aver bisogno di “uccidere il Buddha”, cioè andare oltre il maestro, superarlo grazie ai suoi insegnamenti. Qui si parla di situazioni assolute: con te sono già andato sulla Luna, mi ci hai portato, ora come faremo a tornarci? Tra noi due, cosa potrebbe mai esserci di più?».

Leggi l’articolo completo di Maurizio Crosetti su Repubblica.it

Suarez e Djokovic: senz’anima non si vince

Qualche giorno fa è scomparso un incredibile campione del calcio, Luis Suarez. Nell’intervista rilasciata a Gianni Mura nel 2014 mi hnno colpito due idee che per me sono importanti quando si parla di campioni. Il valore della tecnica: “Senza tecnica non c’è calcio apprezzabile. Oggi, quando vedo tanti cross che finiscono dietro la porta cambio canale”. Il valore delle emozioni: ”Avventura è il termine giusto, perché nel 1961 non è che l’Inter fosse al vertice europeo. Ci puntava, per questo aveva preso il Mago e, di conseguenza, il Mago aveva convinto me, ma senza grandi discorsi. Poi s’è detto che io ero l’anima di quell’Inter, ma non è vero. Quell’Inter aveva molte anime, da Facchetti a Corso, da Picchi a Mazzola. Io ero l’esperienza, questo penso”. Suarez va all’Inter per avventura, per il Mago e per esserne una delle anime.

I campioni ci permettono di fare questi ragionamenti e di capire le ragioni per cui ne abbiamo bisogno.

Il primo riguarda il tema dell’eccellenza della prestazione umana. I campioni ci permettono di conoscere quali siano i limiti attuali dell’esperienza umana nello sport e ci mostrano come oltrepassarli, in una rincorsa a questo miglioramento che sembra infinita. Le scienze che studiano l’essere umano forniscono dati che ispirano gli allenatori migliori che utilizzano la metodologia dell’allenamento per migliorare quegli aspetti tecnico-tattici di cui parla Suarez.

Il secondo riguarda l’anima di una squadra, che si concretizza nella stretta relazione tra pensiero ed emozioni,. A tutti piace vincere, ma non tutti sanno che per esprimersi al meglio bisogna metterci l’anima. Chi non segue questo approccio, molto difficile da vivere giornalmente, cade nella trappola del risentimento verso di sé e verso chi gli sta vicino perchè non ha saputo evitargli questo problema. Anche Novak Djokovic descrive bene questo concetto dicendoci:

“Quando ci sentiamo feriti, risentiti, tristi o sentiamo di aver fallito o di non piacerci o qualsiasi cosa sia, rimaniamo intrappolati in quell’emozione. Succede anche a me, senza dubbio, dentro e fuori dal campo, molto spesso. È normale, è l’esperienza della vita di tutti noi. Ma cerco sempre di essere consapevole di ciò che ho detto o fatto o dell’emozione che provo e di non rimanerne intrappolato troppo a lungo. Torno indietro. Ne esco. Perché non possiamo controllare ciò che accade fuori di noi, ma possiamo controllare il modo in cui reagiamo a queste circostanze”.

Suarez e Djokovic, generazioni diverse di campioni, affermano però la stessa idea  facciamo dialogare i nostri pensieri con le nostre emozioni, restiamo in contatto e dialoghiamo con la nostra anima e con quella dei nostri compagni e di chi lavora con noi.

Cosa pensano i campioni

In partita è meglio pensare? Oppure pensare rallenta l’azione? Nella mia esperienza molti atleti non hanno risposte precise a queste domande e non sanno cosa sia meglio fare. Non voglio entrare nel merito di come da più giovani hanno imparato, se hanno seguito essenzialmente quanto gli veniva richiesto dall’allenatore o se hanno anche sviluppato pensieri autonomi. Anche se è ovvio che ognuno si forma mentalmente nei primi anni di gioco.

Tuttavia a me interessa parlare di come ragiona un giovane, ormai sportivamente competente durante una partita che sia di uno sport di squadra o che riguardi sport situazionali come il tennis, il tennis tavolo, la scherma e gli sport di combattimento. Sport di opposizione in cui l’obiettivo è dominare gli avversari. Per raggiungere questo obiettivo, in gara, si pensa?

Se confronto la mentalità degli atleti di vertice mondiale con cui ho lavorato (in 7 olimpiadi ho collaborato con atleti che hanno vinto 12 medaglie olimpiche nel tiro a volo, scherma, windsurf e lotta e ai Giochi del Commonwealth 2 medaglie con l’India) e quella di atleti di livello internazionale, uomini e donne, ma che non sono tra i primi 10 al mondo nella loro specialità ritengo che la differenza principale riguarda essenzialmente come usano in gara la loro mente. Teniamo sempre presente che anche gli atleti di vertice non sono sempre vincenti, spesso perdono, tuttavia più di frequente degli altri si ritrovano a lottare per una medaglia.

Alcuni esempi di pensieri di atleti di livello assoluto:

Giovanni Pellielo - “L’ultima delle serie di selezione è stata la più pesante, ho fatto zero al penultimo bersaglio in prima pedana, ho chiuso con ventitre ed è stata la serie in cui ho sofferto di più perché bisognava fare il risultato in condizioni difficili e con un carico emotivo altissimo in quanto ero comunque l’uomo che aveva vinto due medaglie alle Olimpiadi. Diciamo che in quell’occasione tutti i fantasmi sono arrivati alla mente: è stato difficile chiudere quel risultato ma l’ho chiuso. Poi ho pensato alla finale facendo riferimento al bagaglio di quattro anni d’esperienza e ho rivissuto tutto quello che avevo fatto nell’ultimo anno a livello di preparazione soprattutto psicologica così da affrontare la finale come io volevo e desideravo.”

Francesco D’Aniello - “Lo stress lo accumuli se pensi al risultato. Nella finale olimpica sapevo che tutti mi guardavano ma convogliavo la mente su quello che serviva per rompere i piattelli. La mia concentrazione era convogliata nel pensare solo a quel che dovevo fare per rompere i piattelli. Sapevo che il cinese mi aveva raggiunto, uno zero non glielo avevano dato e questo fattore mi poteva distruggere. Quindi mi sono detto: “Se faccio uno zero questo mi mangia”, quando ho realizzato che non potevo più fare zero mi sono concentrato solo sul mio gesto tecnico”.

Manavjit Singh Sandhu – Competere testa a testa con due campioni olimpici in un solo giorno e avere la meglio su entrambi è stato davvero speciale. Tuttavia, ritengo che nel tiro si cerchi semplicemente di centrare il proprio obiettivo e che il punteggio parli da sé. Psicologicamente, può essere intimidatorio sparare contro le leggende, ma non ho lasciato che questo mi disturbasse”.

Emerge in modo evidente, che nei momenti di pressione agonistica, dopo un errore, quando le emozioni potrebbero determinare un blocco mentale, questi atleti s’incoraggiano e si concentrano su quello che devono fare. Se pensano al risultato è solo per pochi momenti, perchè la mente va subito alla prestazione, a cosa fare. Come Roberta Vinci quando nella partita vinta contro Serena Williams si ripeteva: “Corri e buttala di là”. Questo è l’autocontrollo dei campioni che dobbiamo allenare nei giovani atleti.

Le competenze psicologiche degli atleti e delle atlete di élite

La ricerca dell’eccellenza ha avvicinato molte/i atlete/i alla psicologia dello sport. Spinti dal desiderio di potenziare, oltre al fisico, anche la mente, diversi professionisti si sono rivolti a questo tipo di sostegno, così da aumentare la probabilità di fornire prestazioni eccezionali. 

Negli ultimi 20 anni l’allenamento mentale è entrato a far parte della preparazione svolta per gareggiare nelle competizioni più importanti, come i campionati del mondo e le Olimpiadi.  Negli anni ’60 si pensava che il segreto per vincere le medaglie fosse la padronanza della tecnica migliore ma si scoprì che da sola non bastava e che se i risultati non venivano era perché non si era preparati fisicamente. 

Così negli anni ’70  salirono alla ribalta i fisiologi: analizzavano le richieste fisiche degli sport e fornivano programmi per rendere più adeguata la condizione atletica. Nonostante questo tipo di preparazione molte/i atlete/i con eccellenti fisici, un’ottima condizione atletica e tecnica continuavano a fallire. Ciò determinò anche uno caratterizzazione dell’attività sportiva in termini professionali, una preparazione a tempo pieno ai più alti livelli tecnici e di preparazione fisica e il risultato fu una maggiore omogeneità delle prestazioni.

Negli anni ’80 gli esperti cominciarono a pensare che la psicologia umana poteva giocare un ruolo centrale nel favorire il successo, quello che gli americani hanno chiamato il vantaggio mentale. Oggi sappiamo che a parità di abilità tecnica e di preparazione atletica la differenza la fa la testaovvero che il successo per l’80% è mentale. Esiste una relazione circolare positiva per cui una condizione mentale ottimale permette di fornire le prestazioni migliori e il successo ottenuto sviluppa un approccio mentale positivo alla prestazione.

Le principali abilità utilizzate da atlete/i top level possono essere così sintetizzate: 

  • Capacità di gestire lo stress agonistico attraverso l’autoregolazione dei livelli di attivazione ed emozionali.
  • Livello elevato di fiducia in se stessi e, in particolare, percepirsi in grado di affrontare le situazioni agonistiche più intense.
  • Capacità di stabilire obiettivi  a breve e a lungo termine che siano sfidanti e raggiungibili.
  • Abilità a concentrarsi solo sulle cose essenziali per la prestazione.
  • Abilità a ri-concentrarsi rapidamente dopo una fase negativa o un errore.
  • Percepirsi determinati e impegnati a raggiungere gli obiettivi.
  • Avere un dialogo positivo con se stessi, essere abituati a guidarsi in maniera affermativa (dicendosi esattamente solo quello che deve essere fatto, senza mai pensare a ciò che non deve essere fatto).
  • Prendersi cura del proprio benessere mentale e fisico.

L’attenzione nei campioni del mondo

Gli atleti possono commettere tre tipi di errori dovuti alla tipologia di attenzione di cui si servono in un determinato momento della gara: il primo riguarda la distrazione ambientale (pubblico, condizioni metereologiche, avversari), il secondo si riferisce al sovraccarico mentale (preoccupazioni eccessive, aspettative elevate) e il terzo è relativo al sovraccarico emotivo (ansia, paura, rabbia).

Sulla base di questi dati, i detentori di record del mondo sono particolarmente competenti nel ridurre al minimo gli errori dovuti alla distrazione ambientale e al sovraccarico di pensieri rispetto agli altri atleti di livello internazionale nelle tre tipologie di sport (closed skill, open skill e di squadra) e agli atleti adolescenti.

Tuttavia, anche per loro, la principale fonte di distrazione riguarda la componente emotiva dei loro pensieri che, nei momenti di maggiore importanza, può prendere il sopravvento e disturbare la qualità della loro loro prestazione (Fonte: Cei Consulting, 2017).

Viaggio nella mente dei campioni

Per presentare l’edizione del Master di psicologia dello sport organizzato da Psicosport che si terrà a Roma nel 2022, abbiamo organizzato questo webinar dedicato al tema “Viaggio nella mente dei campioni”.

Da Robert Nideffer e dagli atleti di élite ho imparato che ciò che hanno in comune i top performer in qualsiasi ambito professionale come i top manager o i corpi speciali dell’esercito consiste nell’abilità a prestare attenzione, a non farsi distrarre e a rimanere focalizzati su un compito alla volta. Se sei un manager o un atleta non potrai fornire prestazioni efficaci se non sei concentrato.

Parleremo di questo tema e di come si sviluppa questa mentalità che considera, come ha detto Novak Djokovic, lo stress come un privilegio.

Aspetti mentali del tennis tavolo

Tennis tavolo intervista Alberto Cei su aspetti psicologici di questo sport

Tennistavolo ieri, oggi, domani - Alberto Cei - YouTube

La flessibilità mentale dei campioni

La flessibilità mentale dei campioni è stata ben riassunta da Ripoll [2008] con queste parole:

“La grande arte dei campioni assoluti è di avere una concentrazione estrema che li blocca su un obiettivo unico, che permette loro d’ignorare tutto ciò che è estraneo a questo obiettivo e di entrare in un altro stato. E’ a questa sola condizione che tutte le sensazioni sono esasperate e che il sistema di trattamento delle informazioni ha uno svolgimento ottimale. Per riprendere le loro stesse parole, questi campioni entrano in una bolla sufficientemente a tenuta stagna per occultare tutto ciò che non è necessario all’azione, ma sufficientemente porosa per lasciare entrare solo ciò che è utile”. 

 

Higuain e Dybala: difficile giocare sempre da campioni

Higuain e Dybala sono l’ultimo esempio di come due campioni vanno in crisi per la pressione dovuta alla richiesta di giocare sempre al meglio, che per un attaccante significa segnare delle reti. Niente di strano in questa richiesta che rappresenta l’essenza del loro lavoro ma che talvolta collide con il proprio modo di pensare e di vivere le emozioni. Infatti, la necessità di corrispondere sempre alle aspettative del club, dei tifosi, dei media e degli sponsor stimola da un lato, una piacevole sensazione di sentirsi importanti e valutati in modo estremamente positivo ma ovviamente a un costo, che consiste nel dovere sempre dimostrarsi all’altezza di questa richiesta. Ciò genera tensioni, che determinano effetti negativi sulle prestazioni in campo e, quindi, così si spiegano le reti non segnate di Higuain e i rigori sbagliati di Dybala. Episodi da cui ci si riprende facilmente secondo Allegri concentrandosi sulle prossime partite. Personalmente, penso che a questi ragazzi manchi qualcuno che sappia ascoltare le loro paure, che gli insegni ad accettarle come parte integrante di quello che fanno e che gli insegni a restare focalizzati sulle proprie abilità quando arrivano i dubbi e le preoccupazioni. Di solito questo è il lavoro dello psicologo e non può essere quello della famiglia o degli amici, che per quanto amorevoli servono a fornire un contesto psicologico e fisico in cui potere essere se stessi e non il campione, ma non aiutano a risolvere questi problemi.

La depressione di Serena Williams

La depressione di cui sta soffrendo Serena Williams si aggiunge a quella che hanno avuto molte altre stelle del mondo dello sport fra cui Lindsey Vonn, Ian Thorpe, Gianluigi Buffon. Due aspetti vanno tenuti in grande considerazione quando parliamo di depressione nello sport. Il primo,  la psicopatologia prodotta da nevrosi e comportamenti instabili è poco frequente tra gli atleti di alto livello, perché lo sport è già una sorta di vaccino contro questo tipo di manifestazioni. L’avere imparato a vivere situazioni emotive molto intense e talora estreme, nonché il loro ripetersi in modo continuo nel corso degli anni con esiti spesso vincenti, ha permesso all’atleta di sviluppare un’elevata stima di sé. Accanto a questo lato positivo derivato dall’esposizione continua allo stress agonistico e dalla scoperta positiva di saperlo affrontare, vi è  un altro aspetto che può invece aumentare il rischio di depressione e corrisponde alla scelta di fare dipendere la propria vita dal raggiungimento dei risultati sportivi. Così in caso d’insuccesso, a essere messo in discussione è il proprio valore come persona. Un fallimento che può portare a una depressione molto grave e in casi limite al suicidio. Non è un caso che Serena Williams avesse già sofferto in precedenza di depressione quando aveva dovuto smettere di giocare a causa di due problemi di salute. In un caso, si tagliò un piede con i vetri di un bicchiere, subendo due interventi chirurgici e così ha descritto il suo stato d’animo di quel periodo: “Specialmente quando ho avuto la seconda operazione (al mio piede), ero veramente depressa, piangevo tutto il tempo. Non volevo farmi vedere”. Nel 2011 soffrì anche di un problema polmonare e venne ricoverata in ospedale e operata. Quando rientrò in campo disse che non sapeva cosa aspettarsi, non voleva avere fretta e sperava che sarebbe ritornata a giocare come sapeva.  La sconfitta con Roberta Vinci, dopo un’annata trionfale, è stata lo stimolo che l’ha nuovamente messa in questa condizione di sofferenza. Se avesse vinto il torneo sarebbe diventata la prima tennista dopo quasi 30 anni a vincere nuovamente il Grande Slam, risultato raggiunto in precedenza solo da altre tre tenniste. Serena Williams si è portato questo macigno di aspettative per tutta la durata degli US Open, poi non l’ha più retto ed è crollata. Continuava a ripetere “Non sento la pressione”, come fosse un mantra che può cancellare la verità mentre invece questo approccio mentale le ha permesso solo di posticipare il suo dramma. Meglio avrebbe fatto ad accettare la paura di non riuscire a vincere nonostante sia attualmente la più brava. Non è facile ragionare in questo modo, quando il mondo pensa che devi vincere e non considera nessun altro risultato. In quei momenti non si hanno vie di fuga perché gli altri ti spingono con entusiasmo verso il baratro; l’unica alternativa sarebbe dovuta nascere da lei stessa: accettare che perdere era una possibile soluzione e che sarebbe potuto capitare. Se si vive nella convinzione che non si può perdere, che si deve sempre corrispondere alle aspettative degli altri e alle richieste del proprio Ego smisurato, quando invece la sconfitta si presenta, non si hanno strumenti per comprendere come questo evento sia potuto accadere e questo genera depressione per non avere saputo affrontare quella situazione con successo. La depressione inizia in quel momento con il disprezzo verso di sé. Mi auguro che Serena Williams si affidi a un bravo psicoterapeuta, che l’aiuti a capirsi e a confrontarsi con se stessa in modo più costruttivo.