Archivio mensile per gennaio, 2011

Genitori e doping

Tre notizie. La prima buona. L’Atletico, la terza società romana di calcio, ha eseguito test antidoping sui suoi ragazzi di 16 anni. La seconda cattiva: tre sono stati trovati positivi e sono stati sospesi. La terza,  è peggiore di quella precedente. Gianni Rivera, presidente del settore giovanile e scolastico della FIGC, afferma: “Molti genitori purtroppo pensano che usare una sostanza vietata possa migliorare la prestazione sportiva, sperando così che il proprio figlio possa emergere meglio e più rapidamente, in prospettiva di un veloce guadagno. Non si rendono conto che magari il danno non arriva subito, ma potrebbe essere ancora maggiore in futuro. Per questo è importante la prevenzione…” http://www.repubblica.it/sport/calcio/2011/01/28/news/doping_giovani-11758485/?ref=HREC1-10

La ricerca del successo a ogni costo spinge i genitori a pensare di avere in mano degli assegni con molti zeri da intascare piuttosto che dei figli da educare. Il degrado si allarga da Contador ai giovani. Lo sappiamo non è certamente una novità ma quello che facciamo come adulti è sempre troppo poco. Ma se anzichè continuare a dire le solite sciocchezze sulla pigrizia dei giovani, si finanziassero programmi per educare i genitori a assumersi delle responsabilità educative? Perchè è la carenza di autorevolezza degli adulti che spinge a percorrere queste o altre scorciatoie che sono sulle prime pagine dei giornali ogni giorno.

Gli psicologi dello sport inglesi per Londra 2012

Leggete il bellissimo articolo, apparso sul quotidiano Independent, sugli psicologi dello sport che lavorano con gli atleti inglesi per prepararsi a gareggiare alle Olimpiadi di Londra.

http://www.independent.co.uk/student/career-planning/mastery-over-the-mind-gets-ailing-athletes-back-on-track-2192288.html

Loro sono andati via

Dall’articolo di Gianni Clerici su Repubblica: “… non c’è davvero un modo di evitare la fuga di questi cervelli all’estero, invece che rendergli la vita difficile in patria?” Questo è il caso di Claudio Pistolesi, allenatore di tennis, emigrato all’estero. Ma quanti sono gli italiani che allenano fuori perchè non vi sono più progetti e opportunità, perchè la competitività sta scomparendo e si spera in qualche atleta naturalizzato o nel caso. Non sono i giovani che non vogliono impegnarsi; la mancanza è delle organizzazioni sportive. Vi è mancanza di volontà di conoscenza e se gli atleti vogliono migliorare o fare qualcosa di diverso devono mettere mano loro stessi al portafoglio.

Quando la passione è etica

Oggi si è svolta a Roma la 12° Corsa di Miguel, corsa di 10km intitolata alla memoria di Miguel Benancio Sanchez, poeta argentino desaparecido. E’ un evento sportivo e culturale che nasce dalla passione civile di Valerio Piccioni e che vede coinvolti migliaia di giovani delle scuole romane già nei giorni che precedono la gara (con 6000 partecipanti). Non è certo retorico ricordare e fare sapere che esistono persone che traducono la propria passione in iniziative che di anno in anno testimoniamo che le buone idee guidate dalla volontà di realizzarle sono vincenti.
http://www.lacorsadimiguel.it/sito/

La cultura è un peso inutile

L’Italia ad personam esiste nello sport anche in positivo. Vuole dire che determinate attività, ricerche, iniziative vengono intraprese solo perchè vi sono persone che vogliono perseguirle, perchè sono dirigenti appassionati e competenti. E’ altrettanto vero che quando si stufassero ciò che hanno fatto non esisterà più. E’ il caso, ad esempio, di Mario Gulinelli l’animatore instancabile della più prestigiosa rivista italiana di scienze dello sport, SdS – Rivista di cultura Sportiva del Coni, che svolge questo lavoro editoriale da più di 30 anni, quando si ritirerà da questo impegno non vi è nessuno che è stato preparato a ricoprire lo stesso ruolo. Un classico esempio italiano: tolta la persona, persa la funzione. Già, forse la cultura non interessa. Non è possibile fare una pianificazione di persone da affiancare perchè imparino, mica a tradurre dal tedesco, ma piuttosto la filosofia, la ricerca delle innovazioni non per forza di lingua inglese, l’originalità del pensiero? La cultura sportiva forse non deve esistere, meglio spendere dei soldi per il doping o al massimo del positivo per i laboratori antidoping.

Esperienza vs gioventù

In Inghilterra nella Premier League il numero dei calciatori over-30 è aumentato di molto rispetto a pochi anni fa. Non giocheranno ogni partita e certamente non per 90 minuti, ma i club della Premier League stanno riconoscendo il valore dell’esperienza sull’esuberanza giovanile. Dal punto di vista della coesione di squadra questa scelta sembra confermare l’esigenza di avere gruppi basati non solo sul talento e sulla maggiore disponibilità atletica dei giovani ma anche su calciatori esperti e non più giovani in grado di mantenere sul campo la squadra unita nei momenti di maggiore pressione e di assumere un ruolo positivo anche nello spogliatoio. Una sorta di mentori per i più giovani. Ricordo una risposta di Liedholm quando un giornalista gli chiese quale fosse stato il ruolo di Superchi, secondo portiere della Roma, che non aveva giocato in quel campionato. Disse: “Sa raccontare bene le barzellette.” Nell’umorismo filosofico di Liedholm credo che questa spiegazione nascesse dalla stessa convinzione  che, a distanza di anni, ha spinto le squadre inglesi in questa direzione.

In vista di Londra 2012

Se si mettono su un motore di ricerca queste parole “London olympic games mental preparation” potete farvi un’idea dell’importanza che ha acquisito l’allenamento mentale nel mondo sportivo, di cui non si può che essere soddisfatti. Facendo la stessa ricerca in italiano si raccolgono pochissime notizie e lo sconforto è d’obbligo. In un articolo scritto dopo le Olimpiadi di Pechino, http://www.ceiconsulting.it/it/publications/articles/doc008.pdf,  avevo messo in evidenza come dalle dichiarazioni ai giornali di allenatori e atleti si evidenziasse la presenza di ostacoli a fornire prestazioni vincenti che rientravano nella dimensione psicologica e sociale. A queste difficoltà solo alcuni atleti e Federazioni rispondono servendosi della consulenza di psicologi dello sport, mentre la gran parte si affida più semplicemente a soluzioni fondate sull’idea che l’allenamento, l’esperienza di anni di gare e il tempo dovrebbero risolverle. Il fatto che tutt’oggi non vi sia nulla che metta in evidenza che si stia lavorando in questa direzione sembra, purtroppo, confermare il disinteresse  da parte delle nostre organizzazioni sportive a investire risorse nell’allenamento mentale.

La fiducia spiegata dai campioni

“Nella mia carriera ho sbagliato più di 9.000 tiri. Ho perso circa 300 partite. Per 26 volte ho creduto di fare il tiro-partita e l’ho sbagliato. Nella mia vita ho fallito spesso e ho continuato a sbagliare. Ed è per questo che ho avuto successo” (Michael Jordan, basket).

“I campioni non sono fatti nelle palestre; sono fatti di qualcosa di profondo che hanno dentro di sé, un desiderio, un sogno, una visione” (Muhammad Ali, pugilato).

“Dato che sono un’eterna insoddisfatta, traggo la mia soddisfazione dalla riuscita dei miei progetti, sovente nelle avversità, è vero. Ho dovuto spesso affrontarle. Quando è accaduto, per me che vengo dalla Guadalupa, un’isola dove tutto è bello, adattarmi ai mattoni rossi dell’INSEP, cambiare l’allenatore e lottare contro il razzismo … mi sono ritrovata piccola dentro qualcosa che non era fatto per me, ma sono tignosa, un ragazzo mancato e mi sono arrampicata. In effetti, tutti quelli che hanno cercato di demotivarmi, perché ero giovane o perché ero nera, al contrario, mi hanno rinforzata nella mia determinazione” (Laura Flessel, scherma).

“Dopo il raggiungimento di un obiettivo riparto da zero. Usando un linguaggio attuale direi che mi resetto. Passate le emozioni, i festeggiamenti, torno in campo proponendomi degli obiettivi intermedi, come per esempio la vittoria in una gara internazionale. Per capirci meglio, è come se mi trovassi alla base di una scala, pronto per salire sino al piano superiore. Mi concentro quindi nell’affrontare il primo gradino della scala che, alla fine, gradino dopo gradino mi porterà al piano superiore, il mio obiettivo finale” (Francesco D’Aniello, tiro a volo).

“Un altro episodio che ricordo volentieri e che insegna che nella vita niente è impossibile riguarda il Giro d’Italia del 1956. Era l’ultimo Giro della carriera e a scendere da Volterra caddi e mi fratturai una clavicola. Il giorno dopo ricaddi su quella frattura e fermai l’ambulanza che mi voleva portare in ospedale. Affrontai la salita del monte Bondone con la clavicola rotta e chiusi il Giro al secondo posto. Bisogna sempre guardare avanti e mai adagiarsi. Io adesso punto ai cent’anni e non è una battuta” (Gianni Magni, cliclismo ).

“Graziano è un buon padre ed è stato fondamentale per la mia carriera. E’ stato un pilota di grande talento che però per sfortuna – infortuni, cadute e incidenti – non ha vinto quel che doveva vincere. Io sono arrivato per finire il lavoro che lui aveva cominciato. Umanamente mi ha insegnato che bisogna fare le cose divertendosi, essere seri, lavorare, però allo stesso tempo senza prendersi troppo sul serio. Ho fatto mio il suo modo di pensare.” (Valentino Rossi, motociclismo).

Primo: non prenderli

Questo è il principio base a cui si è sempre ispirato Trapattoni. Su questa base vorrei fare delle domande (virtuali perchè il destinario non le saprà mai) a Delneri relative alla preparazione della sua squadra. Primo, se la squadra  è così evidentemente debole (mentalmente? fisicamente? tecnicamente? tatticamente?) come mai non gioca per soddisfare questa regola trapattoniana? Secondo, ho letto sui quotidiani che avrebbe posto particolare attenzione, in questo periodo, alla condizione mentale dei calciatori, cosa ha fatto? Terzo, visto l’esito cosa ha sbagliato? Quarto, capisco che il gioco di una squadra è distribuito fra tutti i reparti, ma oltre a calciatori più talentuosi, non servirebbero anche altri, vogliamo dire, più volitivi? Quinto, giacchè siamo noi a guardarvi in Tv o sui media non sarebbe più intelligente dire quando si perde in maniera così vistosa “abbiamo un problema a difenderci” piuttosto che sostenere che si è giocato senza attaccanti? Sesto, una curiosità: avete mai chiesto ai vostri calciatori cos’è per loro “avere orgoglio” e come questo si dovrebbe manifestare in campo? Settimo, avete mai fatto allenamenti in cui si deve dimostrare l’orgoglio di appartenenza a questo club. Ottavo, ai giornalisti avete mai pensato che queste sono domande  che potrebbero interessare i lettori appassionati di calcio?

Stiamo tornando a 30 anni fa

Pochi giorni fa durante un corso per allenatori, diversi partecipanti mi hanno chiesto come mai i giovani non sono più disposti a fare sacrifici e a impegnarsi, mentre quando erano giovani loro era tutto diverso. Questa domanda è sempre più ricorrente in questi ultimi anni e questi allenatori non chiedono se la loro impressione sia vera o falsa ma la ritengono giusta e vogliono sapere cosa dovrebbero fare. Inoltre, la risposta implicita che si aspettano di ricevere è non solo di conferma a questa loro convinzione ma soprattutto vorrebbero sentirsi dire che l’unica risposta da dare in questi casi è una giusta punizione. Sembra di essere tornati indietro a 30 anni fa quando era comune dare punizione del tipo: 20 piegamenti sulle braccia o quattro giri di campo di corsa. Ma perchè non s’investe di più sulla formazione degli adulti a cui affidiamo i nostri figli? Non dimentichiamoci che la maggior parte delle società sportive esiste solo perchè i genitori le finanziano. E se smettessero di pagarle?