Archivio mensile per gennaio, 2024

Pagina 2 di 2

Lavoro: trend 2024 dell’American Psychology Association

Quando si tratta di occupazione, gli americani in varie professioni, dai lavoratori dell’auto agli attori di Hollywood, dai fondatori di startup ai camerieri nei ristoranti, si sentono incerti a causa dell’intelligenza artificiale (IA), delle ripercussioni della pandemia, della progettazione del lavoro e di altri fattori, sostengono gli psicologi.

“L’instabilità del lavoro è qualcosa che fa parte dell’umanità, e sembra che stia peggiorando in alcuni modi perché effettivamente sta peggiorando”, afferma David Blustein, PhD, professore nel Dipartimento di Counseling, Psicologia dello Sviluppo ed Educativa del Boston College.

“La cosa più importante che le persone desiderano ora è la stabilità, soprattutto nei loro luoghi di lavoro”, afferma Ella F. Washington, PhD, psicologa organizzativa e professore presso la McDonough School of Business della Georgetown University.

Ma il futuro del lavoro non è del tutto cupo: un terreno instabile sta rafforzando la determinazione dei lavoratori nel difendere significato, benessere ed equilibrio tra lavoro e vita, e gli psicologi sono pronti ad aiutare.

[Correlato: Un senso di appartenenza è cruciale per i dipendenti. Come i datori di lavoro possono favorire connessione e supporto sociale]

“Sappiamo come migliorare i lavori e motivare, aumentare la soddisfazione delle persone e fare in modo che aggiungano valore”, afferma Susan J. Lambert, PhD, co-direttrice della Rete di studiosi sull’instabilità dell’impiego, il benessere familiare e le politiche sociali presso l’Università di Chicago.

In altre parole, lavorare per una maggiore stabilità, aggiunge, “è vantaggioso per gli affari e è vantaggioso per le persone, e penso che sia davvero vantaggioso per la società”.

Origini dell’instabilità

L’instabilità sul lavoro non significa solo la minaccia o la realtà dei licenziamenti. I ricercatori la definiscono come “uno stato in cui le conseguenze di una discrepanza tra le capacità funzionali e/o cognitive di un individuo e le richieste del proprio lavoro possono minacciare l’impiego continuativo se non risolte” (Brain Injury, Vol. 20, No. 8, 2006).

Forse qualcuno non viene pagato abbastanza per mantenere il proprio stile di vita, forse non riesce a tenere il passo, forse gli manca un senso di appartenenza, forse il suo ambiente è semplicemente tossico.

Comunque lo vivano, la pandemia è forse il più evidente motore dell’instabilità sul lavoro, continuando a scuotere il terreno letterale su cui molti dipendenti si trovano mentre i datori di lavoro sperimentano con orari ibridi. Sebbene la ricerca suggerisca che maggiore flessibilità benefici principalmente la salute mentale e la produttività dei lavoratori, le rapida evoluzione delle direttive su chi dovrebbe lavorare dove e quando può essere destabilizzante, così come un ambiente d’ufficio che non è più lo stesso.

I dipendenti “non sono necessariamente nello stesso luogo quando sono ‘sul luogo di lavoro’. Non sono necessariamente, o raramente, con le stesse configurazioni di persone e attività di prima”, afferma Amy Wrzesniewski, PhD, professore di gestione alla Wharton School presso l’Università della Pennsylvania, che studia il significato del lavoro. “Quindi forse le persone sono in ufficio alcuni giorni alla settimana, ma l’ufficio non è più l’ufficio”.

Anche la progettazione del lavoro contribuisce all’instabilità, afferma Lambert, professore presso la Crown School of Social Work dell’Università di Chicago, che studia le pratiche di pianificazione del lavoro tra i lavoratori a basso reddito. “Molti lavori sono stati così frammentati che le persone non possono completare un lavoro dall’inizio alla fine e non possono essere orgogliose di esso”, afferma.

È più facile per un venditore che segue un acquisto fino in fondo trarre soddisfazione, ad esempio, rispetto a chi ha il compito di fissare i prezzi degli articoli. In altre parole: quando i lavori sono progettati in modo che le persone possano essere sostituibili, si sentiranno sostituibili. In modo correlato, una crescente dipendenza dai lavoratori autonomi rispetto a quelli con stipendio fisso sta contribuendo all’instabilità, afferma Blustein.

Questo si è manifestato nello sciopero degli operai dell’auto dell’autunno 2023, afferma, dove i lavoratori hanno chiesto alle aziende di smettere di assumere così tanti lavoratori temporanei per svolgere i loro compiti. Anche le incertezze sugli sforzi di equità, diversità e inclusione (EDI) possono contribuire all’instabilità sul lavoro, specialmente tra i dipendenti provenienti da gruppi emarginati, afferma Washington, un’esperta di EDI che è fondatrice e CEO di Ellavate Solutions a Washington, D.C.

Washington afferma di aver visto molte organizzazioni ridurre il loro impegno per l’EDI, a volte in modo non intenzionale e spesso silenzioso, come ad esempio rendere inattiva una pagina sul loro sito web sull’inclusione o lasciare vacante un ruolo di direttore dell’EDI.

“Per me, questa è la parte più spaventosa del cambiamento perché, a differenza del cambiamento nel 2020, non puoi vederlo fino a quando non è troppo tardi”, afferma. Ma i dipendenti delle popolazioni sottorappresentate possono sentirlo e, di conseguenza, iniziano a ritirarsi psicologicamente.

Ciò ha implicazioni sia per loro che per i loro datori di lavoro, dice Washington. “La ricerca mostra che quando i dipendenti possono essere se stessi autentici e possono lavorare secondo i loro punti di forza, non solo sono più felici e sentono più sicurezza psicologica, ma fanno anche un lavoro migliore”, afferma. Infine, il modo in cui l’intelligenza artificiale sta e influenzerà i mezzi di sussistenza delle persone contribuisce sia all’instabilità pratica che a quella emotiva tra i lavoratori.

Una nuova indagine in seguito al sondaggio del 2023 dell’APA sul lavoro in America specificamente sull’IA, il 38% dei rispondenti ha riferito di preoccuparsi che l’IA potrebbe rendere obsolete alcune o tutte le loro mansioni lavorative, e il 64% di coloro che erano preoccupati ha dichiarato di provare tensione o stress durante la giornata lavorativa.

Sono ancora troppo pochi gli italiani che fanno sport

L’inizio dell’anno è anche tempo di buoni propositi, di pensieri per migliorare il nostro stile di vita e avere uno stile di vita fisicamente attivo.

I dati che l’Istat ci fornisce non sono però così ottimisti tanto che ci pongono al 21° posto fra 27 nazioni europee nella graduatoria della percentuale di persone adulte che praticano attività fisica nel tempo libero.

  • 26,7% pratica attività fisica di tipo aerobico almeno una volta a settimana, in Europa la percentuale è del 44,3%.
  • 14,4%  pratica un’attività di potenziamento muscolare in Europa la percentuale è dell 26,3%.
  • 1,2% è l’incremento dell’attività aerobica tra il 2019 e il 2014 mentre la media europea è passata dal 42,8%  al 44,3 %.
  • 20% della popolazione italiana nel 2019 pratica attività fisica aerobica per almeno 150 minuti a settimana mentre la media europea è del 33%.

Eppure, si potrebbe essere fisicamente attivi non solo praticando sport o facendo movimento nel tempo libero, ma anche scegliendo modalità più “fisiche” negli spostamenti quotidiani, ad esempio per andare al lavoro, a scuola o a fare la spesa.

 

 

Cos’è l’ottimismo

A scuola: i voti servono?

Non mi occupo di scuola ma l’altro giorno ho ascoltato un dibattito alla radio in cui si parlava ancora dei voti, voto sì vs voto no, e comunque della questione dell’apprendimento e della sua valutazione.

Lavorando nello sport anche con adolescenti che frequentano le scuole superiori, ci poniamo gli stessi interrogativi degli insegnanti: come insegnare e valutare gli apprendimenti e come tenere in considerazione i risultati delle prestazioni agonistiche, che equivalgono ai voti della scuola.

Sappiamo che gli esseri umani vogliono sentirsi autonomi, autodeterminanti e competenti. Pertanto quale che sia l’insegnamento, quello sportivo o quello scolastico o altri ancora come quello artistico deveorientarsi a soddisfare queste esigenze con una didattica adeguata in funzione delle caratteristiche delle attività a cui si rivolge.

Non si tratta quindi nel XXI° secolo di fare guerre ideologiche ma di servirsi di ciò che la scienza ci dice su questi temi e trarne dei programmi di apprendimento. Anche il voto in questa dimensione può essere uno dei modi valutativi con cui identificare le conoscenze e le prestazioni di uno studente, così come la classifica nello sport. Nello sport è riconosciuto che il risultato è una misurazione di quanto si è stati in grado di fare più gli errori e per la prossima prestazione si lavora per ridurre quegli errori.

E’ chiaro che ciò può avvenire solo se gli allenatori e gli insegnanti si percepiscono anche loro responsabili delle prestazioni dei loro allievi, secondo una regola per cui io ti insegno/alleno a migliorare e tu t’impegni a imparare. Senza questa alleanza ognuno va per la sua strada. Quindi, a mio avviso, abbiamo bisogno di una valutazione analitica che identifichi le competenze dei giovani in modo specifico e poi di momenti di valutazione come le gare nello sport e le prove scolastiche che forniscono un dato globale. Non vedo contraddizione tra queste valutazioni che secondo me dovrebbero sempre procedere insieme come basi per il contino miglioramento.

Funzione dello sport nella nostra società

Nello sport ci troviamo nella curiosa situazione per cui è dimostrata la sua importanza per condurre uno stile di vita fisicamente attivo, ridurre lo stress quotidiano e favorire il benessere individuale dall’altra parte per gli atleti lo sport può esse fonte di stress, di stimolo per l’insorgenza di psicopatologie e per allontanarli dalla realtà della vita quotidiana.

Abbiamo atleti come il calciatore inglese Henderson che è andato a giocare in Arabia Saudita per 40milioni e ora si considera scontento s vorrebbe andarsene e persone che si considerano felici perchè sono riusciti a vincere la battaglia contro la sedentarietà e le limitazioni quotidiane che determina.

Cosa impariamo da queste situazioni, che non lo sport a fare bene come spesso con molta retorica si è affermato. Lo sport, come lo studio e come il lavoro è un’attività umana il cui effetto positivo/negativo sulla persona dipende da come viene questa attività svolta.

Lo sport come attività ricreativa viene svolta sulla base della scelta di prendersi cura di se stessi, come attività del tempo libero, piacevole e realizzata a propria misura. Su queste basi è un percorso che attraverso il movimento produce benessere e lo sviluppo nel tempo di nuove abilità.

Lo sport di prestazione richiede invece un impegno totale da parte di chi lo sceglie e le gare rappresentano rappresentano il momento di confronto delle proprie competenze con quelle di altri atleti. Lo sport di prestazione di livello assoluto richiede una dedizione totale, così come qualsiasi altra attività umana che una persona consideri come fondamentale per realizzare se stessa. E’ un’attività per la quale si decide abbandonare altre attività che sono percepite come ostacoli all’impegno totalizzante dello sport. A mio avviso, sono gli atleti migliori e con maggiori aspettative che possono sviluppare seri problemi psicologici, mentre è probabile che quelli che hanno meno successo o che non vogliono svolgere un’attività così impegnativa tendono a costruirsi altre situazioni nella loro vita che senza volerlo li difendono da queste problematiche.

La questione per me allarmante è che queste problematiche non sono solo frequenti fra gli atleti di livello assoluto ma anche fra gli atleti adolescenti. Si tratta di ragazzi e ragazze di 14-19 anni o anche di età inferiore se si parla di sport ad avviamento precoce, che per le loro capacità sono entrati in un circuito federale o di organizzazione sportive che svolgono un’attività molto impegnativa come atleti, hanno l’obiettivo di farla diventare la loro professione ma ovviamente non sanno se ci riusciranno.

Noi che lavoriamo con loro cosa vogliamo per loro? Che svolgano l’attività come i senior per vedere chi ci riuscirà? Che frequentino scuole facilitate per potersi allenare e gareggiare per più tempo? Qual è il ruolo delle famiglie? Sono tante le domande e credo che al momento abbiamo poche risposte.

 

Quando fare progetti per il nuovo anno è inutile

Ogni inizio anno ci poniamo obiettivi per i successivi mesi, ne parliamo con gli amici, c’è chi vuole dimagrire, chi fare sport, dedicare più tempo alle persone che ama e così via. Di solito dopo pochi giorni vengono abbandonati perchè ci si sente dominati dalle necessità della vita quotidiana. Per cui si giunge alla spiegazione del classico “vorrei ma non posso”. Non sono io che non voglio era vita che me lo impedisce.

Suggerisco, quindi, a tutti noi di evitare di giocare al cambiamento se tanto sappiamo che poi facilmente abbandoneremo questi buoni propositi.  In tal senso pensare in positivo, e quindi credere che ce la faremo a soddisfare i nostri obiettivi, è fuorviante. Il pensiero positivo è velleitario se non si accompagna alla consapevolezza che sarà difficile raggiungere quanto ci proponiamo e se non siamo disposti a fare dei sacrifici.

Vuol dire impegnarsi a prescindere dai risultati. Bisogna essere disposti a impegnarsi sapendo che potremmo fallire. Dobbiamo pensare che cambiare abitudini richiede tempo ed è difficile, per la ragione che dobbiamo iniziare a pensare e ad agire in modo diverso dal solito nello stesso momento in cui saremmo portati a comportarci nel modo abituale.

Se vogliamo avere successo partiamo da obiettivi a breve termine, in cui spendere un tempo limitato ma quotidiano, ragioniamo in termini di: “Cosa mi va di fare per me oggi e che è diverso da ciò che faccio abitualmente”. Se diamo una risposta affermativa a questa richiesta ci stiamo muovendo sulla strada giusta, anche solo un minuto passato diversamente ci darà un segnale positivo, senza fretta impariamo a raccoglierli.

Le ragioni del crollo del calcio italiano spiegate con i numeri

Un articolo apparso su Lo Slalom di Angelo Carotenuto e ripreso oggi da Repubblica.it ci ricorda chi sono i giocatori comprati all’estero con la scusa di fare quadrare i bilanci delle società di calcio, molti di essi non sono certamente campioni e tantomeno hanno fornito contributi significativi alle squadre italiane in cui hanno giocato.

Ricordare i numeri di questa vicenda come fa Carotenuto, per noi che non siamo addentro alle politiche del calcio, è veramente avvilente:

“Le cifre della serie A in corso raccontano che fra i 508 giocatori andati in campo, ci sono 78 stranieri utilizzati finora per meno di 200 minuti, cinque di media a partita. Altri 28 sono rimasti sotto i 340 minuti, cioè la soglia dello spezzone minimo da 20 minuti a partita. In tutto fanno 106 stranieri fantasma, arrivati e dimenticati, pagati e impalpabili. Fanno il 20 per cento del totale del campionato. Questo stop riguarderà soprattutto loro, i fantasmi della serie A. Più visibili nei bilanci che in campo”.

Gianni Cerasuolo su succedeoggi  scrive a ulteriore conferma di questi dati:

“Nella stagione 2012-2013 in serie A giocarono 368 calciatori stranieri su 705 tesserati, il 52,19 %: 1 giocatore su 2 veniva da un altro paese. L’Inter ne aveva 33 su 49, la Fiorentina e la Lazio 23 su 34. Alzi la mano chi si ricorda di Facundo Parra (Atalanta), Uros Radakovic (Bologna), Erick Cabalceta (Catania), Allan Blaze (Genoa), Vykintas Slivka (Juve), Morten  Knudsen (Inter), Pavol Bajza (Parma). Un campionato dopo, 2013-2014, gli stranieri arrivarono a 522 su una base più larga di ben 1161 tesserati: 44,96 %. Nella scorsa stagione è sceso il numero dei tesserati (555), ma gli stranieri sono stati 304, il 54,7 %. Questi numeri uniti ad un’analisi molto concreta sono contenuti in un libro edito da “ultra sport” e scritto a quattro mani da due giornalisti, Mirko Nuzzolo ed Enrico Turcato, che ha per titolo: Stranieri. Che vale la pena sfogliare anche per le tabelle, molto esplicative, che contiene.

Non credo ci sia bisogno di aggiungere che questa strategia d’importare giocatori stranieri rappresenti la causa principale della decadenza del calcio italiano.

Cervello ed esercizio fisico

I dati che emergono dalle ricerche delle scienze motorie o come preferisco dire della scienza del movimento dimostrano la reciproca influenza tra l’esercizio fisico e le strutture e le funzioni del cervello. Sono noti i legami tra sedentarietà e salute e l’influenza positiva tra movimento e benessere. A questo riguardo le ricerche dimostrano come l’esercizio fisico nelle sue varie declinazioni e in funzione della sua intensità, svolgimento nel tempo, durata delle singole sedute e loro frequenza influisce sul sistema nervoso centrale, su quello immunitario e cardiocircolatorio e sulle altre funzioni vitali. Di questi sistemi fanno parte anche i processi cognitivi (memoria, attenzione e percezione), quelli affettivi e più in generale quelli che permettono la pianificazione,  l’organizzazione e la valutazione delle nostre azioni quotidiane.

Appare evidente che parlare ancora di motorio e psicomotorio come di processi diversi non ha più senso mentre dobbiamo sapere che vi sono sistemi tra loro interagenti che partecipano a determinare quello che siamo e facciamo. Quindi ogni movimento e ogni nostra azione è espressione dell’interazione di questi temi che in modo meraviglioso ci forniscono la possibilità di soddisfare i nostri bisogni e obiettivi quotidiani.

Negli sport abbiamo sempre parlato di sport closed (chiusi) e di sport open (aperti) per distinguere fra discipline con movimenti ciclici e ripetitivi (ad esempio: corsa di breve durata: 100 e 200m, salti e lanci, ciclismo su pista) e discipline a prevalenza tattica o situazionali in cui le condizioni di gara sono in continuo cambiamento (ad esempio sport di squadra, tennis, ciclismo su strada). Detto in questo modo, sembrerebbe che vi siano sport in cui il pensiero sia più importante rispetto ad altri. La questione è però molto più complessa. Infatti, anche gli sport di squadra hanno aspetti ripetitivi – i fondamentali di questi sport, abilità chiuse come le punizioni e i rigori – così come le prestazioni negli sport closed sono influenzate ad esempio dall’atteggiamento pregare degli atleti e dalla loro capacità di gestire le aspettative e la pressione agonistica.

Le classificazioni sono utili per identificare le differenze più significative fra gli sport ma nel contempo non devono diventare delle scatole rigide, perchè questo approccio non permette di mantenere viva la complessità e il valore della prestazione umana.

Sapere trasformare una passione nel proprio lavoro

La dimensione personale che ammiro di più negli umani è quella di sapere trasformare una passione nel proprio lavoro.

Atleti e artisti sono fra quelli a cui si riconosce un legame diretto tra la loro attività professionale e la passione per lo sport e per l’arte. Questo può comunque avvenire in qualsiasi dell’agire umano. Ci vogliono coraggio e tenacia nel voler perseguire questo progetto personale, poichè nulla è garantito quando si decide d’intraprendere questa strada. E’ la passione che sostiene questo modo di darsi una prospettiva senza anche che non si ha la certezza di raggiungere un risultato che soddisfi quest esigenza, che inoltre può essere raggiunta ai livelli del massimo successo  o di risultato magari meno evidente ma ugualmente soddisfacente per chi lo raggiunge.

E’ un legame difficile da mantenere quello che unisce passione e lavoro e tante sono le domande e i dubbi che le persone si pongono lungo questa strada. E’ un legame basato sul pensare in grande, soddisfare il proprio sogno, mentre bisogna agire quotidianamente nel proprio piccolo ambiente. Bisogna andare avanti a testa alta, orgogliosi delle scelte fatte, ma anche stare con i piedi per terra, assaporare la fatica e gli insuccessi che accompagnano questo viaggio verso l’autorealizzazione.

E’ un gioco in cui si deve imparare in fretta ad accettare gli errori e le sconfitte, sapendo che meglio ci si equipaggia, più ci si rialzerà facilmente dalle sconfitte.

In un mondo che chiede sicurezza e garanzia di successo questo approccio rappresenta esattamente il contrario dicendoti: “Ti troverai in situazioni difficili, sbaglierai, avrai paura di non migliorare. Bene! Questi saranno i momenti in cui metterai alla prova la tua passione. Se continuerai a volerimparare nonostante gli errori vorrà che sei veramente appassionato, se invece lascerai perdere vuol dire che non hai abbastanza voglia di trovarti in difficoltà per volerne uscire”.