Archivio mensile per novembre, 2014

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Immenso Valentino Rossi

Il Dottore pensa già a dare l’assalto al decimo titolo iridato della propria straordinaria carriera. “E’ stata una stagione molto buona perché sono riuscito a migliorare molto la mia velocità e i risultati. Se li paragoniamo all’anno scorso sono molto importanti perché devo decidere se continuare o fermarmi – spiega Rossi nel corso della conferenza stampa di presentazione del GP della Comunità Valenciana -. Mi sono divertito molto, ho fatto delle ottime gare o avuto delle belle bagarre e siamo arrivati a questa ultima prova a Valencia dove saremo in lotta con Jorge per il secondo posto in campionato, che non è il primo, ma è sempre importante. Mi devo concentrare al massimo sul weekend e sulla gara, cercando di essere competitivo anche se è una pista sulla quale ho un po’ di difficoltà”. Il pensiero va, però, anche alla prossima stagione e Rossi non fa mistero delle sue ambizioni: “Il titolo? Penso che l’anno prossimo non sarà impossibile.

Recensione libro: Rethinking Positive Thinking

Rethinking Positive Thinking

Inside the New Science of Motivation

Gabriele Oettingen

Current – Penguin Group, 2014, p.219

In my job as mental coach, I often find myself in the situation where the athletes said: “My performance was great, all was going very well, than suddenly I did a mistake, I do not know the reason, I did the same things done just at that moment. I was not mentally ready to cope with an error, beacuse I was so well prepared. Since that moment the quality of my performance started to decrease and I lose myself and the competition.” This event is possible and fequent because often the athletes are too optimistics about them. They think: “I’m fit, with a strong and right preparation. I’m mentally tough, What could it happen to me? Nothing!” A tennis player lose a match after she was 3-0 and 40-0 for her, she lose this game and the set for 3-6. It’s possible she started to be too positive “I will win” and she was not prepared to cope with difficulties. The book by Gabriele Oettingen entitled “Rethinking Positive Thinking” talks exactly about this subject and her research on different kind of groups have  always showed the same results: you can dream and think positively but at same time you have to take in consideration the obstacles that you will meet to reach your goals and for each of them you need to have a solution.

The key words of this new approach are: to contrast the future and the present, in order to do a better performance to achieve relevant goals. In brief, to reach them, the individuals need to foresee the obstacles that will get in the way of achieving the goals.

Oettingen’s research shows that finding the obstacles for the future is useful in two ways.  First, if the number of obstacles that get in the way is too large, then it can actually help people to decide effectively when they should give up on a goal.   Second, when the obstacles are potentially manageable, then contrasting the present with the future gives people an opportunity to plan for how to overcome those obstacles that do come up.

Rethinking Positive Thinking is not only an overview of Oettingen’s research, it also gives a simple structure for helping people to get motivated during their journey toward new goals.  For this reason she created an acronyme, naming this process WOOP, which means Wish, Outcome, Obstacle, Plan.

Rethinking Positive Thinking is a  highly readable book, opening a new approach to the use of positive thinking, showing the limit that the optimistic approach and the positive thinking have had in these last 20 years. I personally believe that the  extreme use of positive approach as been responsible of the diffusion of the motivators in sport and business. People who try to teach that nothing is impossible if you want. Oettingen showed with research data that this approach is wrong, representing an obstacle to achieve difficult goals. She showed that we need to be optimistic, not in a naive style, but to cope with the difficulties that there will be for sure in any adventure we decide to be involved.

Read also: Stop being so positive by Gabriele Oettingen.

 

 

Juventus: dal baratro alla vittoria

La Juventus era aspettata alla prova di essere ciò che diceva di essere e non una squadra paurosa in Europa. La Juventus è dovuta arrivare sul bordo dell’abisso per conoscere il suo valore. La Juventus in questa partita è stata combattiva con continuità. Ora deve imparare a ragionare meglio come squadra. Dopo essere andata in vantaggio, era prevedibile che i greci avrebbero attaccato per ottenere il pareggio e, purtroppo, è esattamente ciò che è accaduto dopo appena due minuti. Ragionare con calma avrebbe permesso di prevedere questa reazione degli avversari e predisporsi a contrastarla. Anzi sino al secondo goal dell’Olympiacos la Juventus ha giocato ed è andata avanti ma in modo confuso. Poi è successo l’incredibile, la Juventus ha cambiato il suo destino perché alla combattività ha unito l’intensità e la convinzione che era possibile vincere. E questo ha fatto la differenza rispetto al primo tempo. Le prossime volte servirà trovare questa condizione mentale prima di essere a un passo dal baratro, perchè non sempre le altre squadre lo permetteranno. Un bel passo in avanti ma la mentalità europea ancora non c’è.

L’organizzazione della scuola calcio: squadra A e squadra B

Ormai troppo spesso si parla di procuratori per minori di 10 anni, di provini nelle scuole calcio e della ricerca della squadra perfetta … ma non stiamo parlando di serie A. Parlo invece del calcio dei bambini dove frequentemente troviamo la suddivisone in squadra A e squadra B. Cosa vuol dire?

La risposta purtroppo universalmente riconosciuta è : i più bravi e i meno bravi.

L’aggettivo bravo è già di per sé generico e superficiale e se rivolto a bambini dai 6 ai 10 anni che muovono i loro primi passi nel mondo del calcio diventa privo di significato.

Ho compreso nel tempo che l’aggettivo bravo per gli allenatori include: il bambino “al momento” più competente a livello motorio, più veloce, senza problemi comportamentali, facile da gestire e che possiede già alcuni atteggiamenti del calcio professionistico (cadere sui falli, esultare tirando su la maglietta e così via). Sono queste le caratteristiche che  determinano la suddivisione delle squadre? E cosa  rimane fuori da questo ragionamento?  Rimane fuori la considerazione dell’apprendimento tra pari, rimani fuori qualsiasi concetto legato all’inclusione, rimane fuori qualsiasi pensiero legato allo sviluppo e al cambiamento, manca qualsiasi prospettiva futura a vantaggio del “tutto e subito”. Quel “tutto e subito” è la vittoria.

Ricerche europee dimostrano  che quasi il 70% dei bambini che inizia uno sport all’inizio dell’età scolare (5-6 anni), lo abbandona entro i 12-13 anni di età. Indagini realizzate per capire l’origine dell’abbandono riferiscono che i bambini che lasciano hanno la convinzione “di non essere abbastanza bravi”.

Ancora una volta il mondo adulto infrange le barriere del mondo dei bambini appropriandosi del loro linguaggio e convincendo il piccolo calciatore che è lui a non essere bravo.  In questo caso l’errore dell’allenatore è di far ricadere le sue personali aspettative infrante e le sue difficoltà di gestione sui piccoli calciatori, privandoli della possibilità di vivere fino in fondo la loro occasione.

L’utilizzo dell’aggettivo “bravo”sottolinea  in maniera indiscussa la mancanza di competenza di chi usa questo linguaggio scegliendo la strada più semplice  come allenatore e il minor vantaggio per il bambino.

Purtroppo nel calcio giovanile manca una prospettiva a lungo termine e non si accetta la difficoltà di oggi per il beneficio di domani. Viene spesso ignorato il significato dell’apprendimento tra pari ed anche il vantaggio, per i bambini, dei gruppi eterogenei a favore invece della costruzione di gruppi omogenei per competenze. La scelta dell’omogeneità nasconde una scelta egoistica e priva i bambini dell’arricchimento derivante dalle reciproche differenze.

“Ciò che i bambini sanno fare insieme oggi, domani sapranno farlo da soli” (Vygotskij)

(di Daniela Sepio)

US: 87% dei genitori preoccupati del rischio infortuni nello sport

Negli Stati Uniti gli sport giovanili stanno diventando sempre più competitivi, e la maggior parte dei genitori credono che i loro figli ne soffrano.

Secondo un nuovo sondaggio nazionale pubblicato dal espnW: Women + Sport summit, i due terzi dei genitori ritiene che ci sia “troppa enfasi sul vincere piuttosto che sul divertirsi” e  l’87% è preoccupata per il rischio di infortunio nello sport.

I genitori sono più preoccupati dei traumi fisici che avvengono sui campi di football delle scuole, che ultimamente sempre più di frequente sono  in prima pagina. Proprio la scorsa settimana, sono morti tre giocatori di football delle scuole superiori in Alabama, North Carolina e New York, probabilmente a causa di infortunio.

Le preoccupazioni dei genitori sarebbero alla base del calo nella partecipazione sportiva dei  giovani avvenuta negli ultimi anni. Nel 2008, il 44,5% dei bambini di 6-12 anni aveva partecipato a sport organizzati da società sportive. Menre solo il 40% dei bambini lo ha fatto nel 2013, secondo la Sport & Fitness Industry Association. Football, basket, baseball e calcio hanno tutti registrato una flessione a due cifre in partecipazione.

(Fonte: Time)

Juventus e Roma troppo paurose in Europa

Ieri ho scritto che molti allenatori della Serie A non riescono a sollecitare la competitività della propria squadra e che questo fatto determina ovviamente dei problemi. Quanto scrive Massimo Mauro su Repubblica.it va esattamente nella stessa direzione parlando delle difficoltà di Juventus  e Roma.

“La squadra di Allegri è carica dopo la bella vittoria di Empoli, ma troppe volte ci ha abituato alla squadra forte e arrogante in campionato per poi presentarsi umile e paurosa in Europa … Preoccupa ancora di più la Roma. Dalla notte col Bayern sembra essere svanita la bella squadra vista nella scorsa stagione e in questa prima parte di campionato. Sembra svanito il gruppo: chi gioca non ha più gamba e intensità, chi entra è svogliato e non sembra avere la voglia di cambiare le cose. Traspare malumore dietro i titolari. I nuovi che dovevano rafforzare il gruppo (Iturbe e Cole su tutti) non hanno fatto fare il salto di qualità, mentre Destro e Ljiaic non hanno più la pazienza di aspettare”.

Due squadre che all’estero non sono state capaci, fino a prova contraria,  di essere competitive. In altre parole non lottano, non provano a recuperare i palloni persi con determinazione e non entrano in campo decise. Questo atteggiamento della squadra viene prima del gioco e si basa su un’idea di base semplice: prima fai e poi farai meglio, ma se non fai non migliorerai mai. E’ meglio fare e sbagliare piuttosto che non fare. Questo vuol dire essere competitivi. Le nostre squadre invece sono sinora sembrate paralizzate dal dovere fare la cosa giusta senza commettere errori. In questo caso si diventa lenti e insicuri e un avversario più convinto porta a casa il risultato. Sono convinto che allenatori più consapevoli delle proprie incapacità, potrebbero riflettere su questi temi e trovare delle soluzioni adatte per le loro squadre.

Il problema della Serie A è anche un problema di allenatori troppo garantiti

Le partite del nostro campionato dimostrano troppo spesso che concetti quali:

  • Andare oltre i propri limiti e mantenere elevati standard
  • Eccellere per se stessi
  • Rivaleggiare per superare gli altri

non fanno parte della cultura attuale delle squadre se non con rare eccezioni.

La questione è come mai a calciatori professionisti e affermati non venga insegnato a entrare in campo con la determinazione e la concentrazione richieste dalla partita da affrontare. Gli allenatori pensano che la loro squadra giocherà in un certo modo e poi questo non avviene. Forse rispetto ai grandi allenatori italiani del passato quelli attuali sono diventati così presuntuosi da convincersi che basta la loro presenza a infondere coraggio? Forse perché guadagnano troppo e sono troppo garantiti dal punto di vista economico, quindi, in base a ciò ritengono di non essere criticabili e per questa ragione non mettono accanto a sé persone che potrebbero rappresentare la coscienza critica che gli manca.

Al contrario, le esperienze di leadership ad alto livello nel mondo del business insegnano proprio questo, che accanto ai grandi leader vi è sempre un’altra persona esperta con cui si confrontano apertamente e che verifica che le loro idee siano attuate. Forse questi nostri condottieri dovrebbero imparare a servirsi di collaboratori in grado di sapere se i loro calciatori sono disposti a giocare fino in fondo o sono pronti a mollare un centimetro alla volta fino alla fine. Perché è proprio questa la differenza tra vincere e lasciarsi dominare.