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Anche loro fanno parte della meglio gioventù

Gli atleti fanno parte di quella che è stata chiamata la meglio gioventù. Ovviamente non si tratta di fornire patenti morali a qualche categoria rispetto ad altre, ma mi serve questa metafora per evidenziare un aspetto che da noi non è preso in considerazione. Si tratta del passaggio da una carriera di atleta a quella di ex atleta, e già la scelta del termine “ex” sta a indicare persone che vengono identificate per cosa non sono più e non per cosa sono o vogliono diventare. Perchè al di là delle parole, l’atleta  finisce un’attività che è stata totalizzante e nella maggior parte dei casi non  è pronto e nonsa come organizzare il proprio futuro. Sono invece convinto che al termine della loro carriera sportiva gli atleti sono un valore importante per una nazione che non deve essere assolutamente perso. Qui al massimo si sente dire “ma quello è ricco, che vuole?” oppure “lo sapeva che sarebbe finita.” Si passa in quella condizione sociale che gli americani molto pragmaticamente hanno definito “from hero to zero.” Da noi non esiste alcun programma in nessuno sport per la qualificazione di queste persone in nuovi ruoli, sono totalmente abbandonati a se stessi. Al massimo qualche azienda gli trova un posto che consente di ricevere un salario come successe per gli Abbagnale. Invece gli atleti sono un valore non solo perchè il loro lavoro li ha formati a essere affidabili, responsabili, scrupolosi e onesti. Dico questo senza retorica, so benissimo che non tutti hanno queste qualità, ma la maggior sì. Noi come paese non li prendiamo in considerazione, non gli forniamo opportunità per imparare nuove professionalità, tanto ormai il loro dovere l’hanno fatto. Chissà perchè nei paesi anglosassoni piuttosto che in Francia non è così, sono dei filantropi? Il problema è sempre lo stesso, le istituzioni non se ne preoccupano perchè non portano più medaglie (come con le donne quando aspettano un figlio) e allora basta, avanti con un altro finchè dura.

Si vince con l’ottimismo

Spesso mi sono chiesto perchè gli atleti di alto livello continuano a gareggiare pur sapendo che sono molte di più le gare in cui perderanno rispetto a quelle in cui saranno vincenti. Come superano questa frustrazione? La mia risposta è stata che questa convinzione si basa sull’idea che il futuro sarà migliore del passato e questo atteggiamento è noto come “il pregiudizio dell’ottimismo.” Per migliorare si può solo immaginare di poterlo fare e ciò conduce a ritenere che questo risultato possa essere raggiunto. Tale credenza in se stessi motiva l’atleta, come chiunque altro, a perseguire i suoi obiettivi. Inoltre questo modo di essere comporta una riduzione dello stress e questo aiuterà la persona a competere al suo meglio nei momenti di maggiore pressione agonistica. Quindi impegnamoci come i campioni a perseguire un approccio ottimistico alle difficoltà anche se ci potrebbe apparire un po’ irrealistico.

Tempo supplementare

E’ uscito un libro che credo per la prima tratta in Italia la questione del passaggio di carriera dell’atleta (calciatore) nella sua nuova vita sociale. E’ un percorso molto difficile e anche chi non è psicologo può immaginare che non è difficile cadere in depressione soprattutto se si ha avuto successo. Voglio qui sottolineare che in Italia non viene fatto a oggi assolutamente nulla per aiutare gli atleti in questa fase difficile della loro vita e riportare alcuni esempi di iniziative svolte in altri paesi in questo sicuramente più avanzati:

  • Olympic Atlete Career Centre, è stato lanciato in Canada nel 1985 per assistere gli atleti di alto livello nel preparare il passaggio a una vita professionale diversa.
  • US Olympic Committee ha sviluppato un Career Assistance Program for Athletes nel 1988.
  • Australian Institute of Sport ha promosso programmi del tipo Life Skills for Elite Athletes oppure Athlete Career and Education Program.
  • National Football League (come pure la NBA) fornisce programmi per lo sviluppo dei giocatori nella finanza, sviluppo di nuove carriere, acquisizione di titoli scolastici/universitari e per affrontare i problemi della vita quotidiana, a cui va aggiunto un network di aziende intenzionate a permettere una formazione on the job.

Gli atleti hanno bisogno dell’allenatore

Talvolta nello sport di alto livello si fa strada l’idea che l’atleta forte quando va in gara e nei giorni precedenti la competizione ormai non ha più bisogno dell’allenatore perchè è pronto ed è l’atleta a quel punto che deve dimostrare il suo valore. Si pensa che l’aspetto psicologico dell’avvicinamento alla gara e la gestione della stessa sia un fatto privato, anzi è giunto il momento di dimostrare di “avere le palle”. La mia esperienza professionale è assolutamente di tipo opposto, proprio perchè possono fornire prestazioni eccezionali questi atleti hanno bisogno di una persona qualificata al loro fianco che sappia indirizzarli a vivere questa esperienza in maniera efficace e positiva. Ho in mente atleti che ti chiedono cosa devono fare o più semplicemente hanno voglia di parlare con qualcuno che li conosce e che è disponibile ad ascoltarli. Senza quest’ultima fase, che può essere svolta dall’allenatore o dallo psicologo, è invece possibile  buttare via  mesi o anni di preparazione per non averne apprezzato l’importanza. Ho davanti agli occhi atleti che prima della finale olimpica dicono che hanno la nausea e che non vogliono andare in campo o che tre ore prima ti dicono che non si ricordano cosa devono fare, o allenatori che si stupiscono di prestazioni insoddisfacenti senza però avere fatto nulla per prevenirle. Oggi che tutti si sentono dei motivatori o mental coach questa carenza è ancora più paradossale, ponendo in evidenza che ci vogliono delle competenze professionali per esserlo e che non basta solo appicicarsi addosso questa etichetta, senza capire che la gara è uno dei momenti fondamentali del consolidamento della conoscenza tra allenatore e atleta e tra psicologo e atleta.

L’angoscia competitiva

Sul tema “vincere è l’unica cosa che conta” si è detto molto parlando dei giovani atleti che giustamente non devono essere oppressi dall’idea del risultato, mentre si dovrebbero concentrare sul fare del loro meglio. Penso invece che sia stato poco discusso in relazione allo sport agonistico di livello assoluto e in riferimento a quel numero limitato ma sotto gli occhi di tutti rappresentato dagli atleti fortissimi. Gli americani nel loro pragmatismo hanno coniato la frase: “from hero to zero” per identificare quella linea sottile su cui si muovono questi atleti che hanno l’obbligo di vincere. Gli atleti conoscono bene questa regola del gioco e per quanto siano talentuosi e vincenti sanno di non potere corrispondere a queste aspettative che li vorrebbe sempre sul podio, belli e sorridenti. E’ per questa pressione con cui devono convivere che improvvisamente emergono le loro debolezze, quelle della Pellegrini con gli attacchi di ansia, quelle dell’Inter in cui si è inceppato quel sistema di collaborazione in campo che ha permesso i risultati della scorsa stagione e molti altri. L’antidoto più semplice a cui ricorrere è quello illegale, il doping e l’abuso di farmaci. L’antidoto ecologico è vivere in un ambiente sociale (famiglia e amici) comprensivo e affettivo. Può non bastare, perchè l’atleta deve imparare a vivere con questa angoscia esistenziale, che si può chiamare angoscia competitiva, che consiste nel sapere che non sempre si può corrispondere alle proprie aspettative e a quelle degli altri. Bisogna imparare di più a accettare i propri limiti, soprattutto chi è impegnato a allargarli sempre di più. Come diceva Sartre bisogna volere tutto sapendo di non poterlo raggiungere.

Cos’è la competitività

“Portare a termine qualcosa di difficile. Padroneggiare, manipolare o organizzare oggetti fisici, esseri umani o idee. Farlo il più rapidamente e autonomamente possibile. Andare oltre gli ostacoli e mantenere elevati standard. Eccellere per se stessi. Rivaleggiare e superare gli altri. Incrementare la consapevolezza attraverso l’osservazione delle proprie esperienze di successo frutto del proprio talento.” L’ha scritto H.A. Murray nel 1938. Queste parole le dedico ai giovani atleti che in Italia negli sport di squadra giocano poco per via degli stranieri. Negli sport individuali certamente possono gareggiare, poichè nessuno gli può togliere il posto di squadra, però spesso devono allenarsi da soli o da sole, nel migliore dei casi con allenatori e allenatrici altrettanto volenterosi ma soli anch’essi. Auguri e che la vostra tenacia e dedizione vi siano sempre amiche.

Le sfide della Pellegrini

La Pellegrini mantiene la sua motivazione elevata proponendosi e affrontando sempre nuove sfide. Sembra questa l’arma vincente di una ragazza che ha già vinto tutto e che continua a fornire prestazioni vincenti su una distanza diversa da quelle in cui ha dominato sinora. E’ un’atleta che ha più volte ammesso le sue paure ma che non hai rinunciato a superarle. Si conferma così ancora una volta un dato consolidato della psicologia dell’eccellenza. Secondo cui la differenza tra chi è in grado di fornire più volte prestazioni di livello assoluto e chi, invece, le fornisce solo una volta risiede nella capacità di sapere affrontare i problemi che le varie fasi della carriera sportiva propongono, senza lasciarsi impadronire dalla nausea per l’allenamento e per tutte le sue implicazioni (fatica, sacrifici, stile di vita). Chi non riesce a trovare le ragioni per affrontare queste nuove sfide è destinato a retrocedere da campione di una stagione ad atleta di successo incompiuto.