Archivio mensile per settembre, 2011

Pagina 3 di 4

Sport e depressione

Un rigore sbagliato in una finale di calcio, un centesimo di ritardo in un’Olimpiade, un infortunio senza fine. Sono i passi falsi della carriera di molti grandi eroi dello sport. Eventi che in molti casi possono pregiudicare l’equilibrio psicologico degli atleti. Decidere tra la gloria e il fallimento, mettere ‘ko’ il cervello del grande campione o del giovane talento . “Almeno il 20% degli atleti soffre di depressione, il fenomeno riguarda poi uno sportivo su due quando si arriva alla fine della carriera”. A fotografare per l’Adnkronos Salute il peso del ‘male oscuro’ nel mondo dello sport è Alberto Cei, psicologo dello sport della Facoltà di medicina dell’università Tor Vergata di Roma. Continua su: http://adnkronos.com/IGN/Daily_Life/Benessere/Salute-depressione-per-20-atleti-rischio-piu-alto-per-calciatori-e-ciclisti_312427067586.html

L’importanza della mente dai numeri

Giacchè sono ai campionati del mondo di tiro a volo: qualche numero per spiegare quanto la mente sia decisiva nelle prestazioni sportive, proprio di quelle dei fortissimi. Una gara si svolge su cinque serie da 25 piattelli, in due giorni, per un totale di 125 piattelli, che se vengono presi tutti corrisponde al punteggio massimo. I primi nove atleti hanno preso 122 piattelli su 125 e il 47% degli errori li hanno fatti nella prima e nell’ultima serie. Quindi all’inizio perchè non hanno saputo gestire lo stress dovuto al cominciare bene un mondiale e nell’ultima serie perchè, anche in questo caso, dovevano controllare la tensione della fase finale in cui è sempre crescente, soprattutto quando stai fornendo un’ottima prestazione. Lo stesso andamento ha avuto chi ha sbagliato 4/5 piattelli su 125, questi atleti nella prima e nell’ultima serie hanno accumulato il 48% degli errori. Lo stesso fenomeno si è verificato con quelli che sono stati leggermente meno bravi, sbagliando 6/7 piattelli, anche per loro il 48% degli sbagli è andato sempre in queste due serie. Al contrario nelle seconda e nella terza serie sono stati compiuti da tutti un numero minore di errori. Partendo dai numeri di chi commette pochi errori, ne deriva che le fasi iniziali (prima serie) e finali (quinta serie) sono quelle in cui il controllo dello stress viene messo maggiormente a dura prova. Inoltre, fra i sei atleti che sono andati in finale solo tre non hanno fatto errori nell’ultima serie, mentre due ne hanno fatto uno e un altro ne ha fatti due. Possono sembrare insignificanti questi errori, ma valgono oro per chi su 125 colpi ne sbaglia al massimo tre, e  i numeri aiutano a capire come ci si deve allenare.

“Che … c’avete dentro”

Doveva essere proprio furioso con la sua squadra Pianigiani per arrabbiarsi così con i suoi durante la partita con Israele. Un po’ di dignità, chiede, fate almeno un fallo. Quando la disperazione porta a dire queste parole, la delusione per non essere riusciti a trasmettere ai giocatori cosa fare deve essere terribile. Comprensibile e giusto questo sfogo. “Che …. c’avete dentro”: chissa come è rimbombata questa frase in ognuno, forse è caduta in un baratro sordo ma spero che almeno qualcuno si sia indignato contro se stesso. E per restare sulla stessa linea d’onda terminerei: “altrimenti che campate a fare”.  http://tv.repubblica.it/sport/basket-time-out-l-ira-di-pianigiani-diventa-un-cult/75466/73828

Lo sport è in decadenza

Sulla Repubblica di oggi Fabrizio Bocca si pone la questione se lo sport italiano sia in decadenza visti i recenti risultati di calcio, basket e atletica. Ovviamente in relazione a queste discipline non si può certo dire che siamo ai vertici. La questione è comunque complessa e una risposta risiede di certo nella possibilità di fare lavorare allenatori capaci. A tale scopo faccio un esempio che conosco direttamente in uno sport, il tiro a volo in cui siamo fra le nazioni più forti. Ebbene in questo sport vi è da noi mancanza di allenatori, abbiamo bravi istruttori che insegnano la tecnica ma quasi nesun allenatore fatta eccezione per quelli della nazionale. Ci salviamo perchè chi è forte ha davanti una carriera molto lunga potendo vincere un’olimpiade anche oltre i 40 anni. Il punto è che gli allenatori italiani esperti ci sarebbero ma allenano all”estero. Infatti siamo un paese esportatore di competenza e alleniamo in Brasile, Cipro, India, Iran, Danimarca e Turchia, perchè si dice che da noi non ci sono i soldi. Allora un aspetto dello sport italiano è di non fare fuggire i migliori allenatori e di fornirgli opportunità vantaggiose di carriera, altrimenti è scontato che, proprio perchè sono bravi, non rimarranno qui a perdere tempo.

Tiro a volo e mente

Sono a Belgrado ai campionati del mondo di tiro a volo. Sport poco conosciuto e che ogni olimpiadi regala qualche medaglia all’Italia. E’ uno sport che spesso non piace perchè l’attrezzo sportivo è un’arma che viene associata alla guerra e alla caccia. In ogni caso è uno sport pacifico che richiede un prontezza mentale degna di uno sprinter, con la differenza che ogni partenza viene ripetuta per 125 volte, quanti sono i tiri da effettuare. La preparazione di un solo tiro dura 7/8 secondi e l’azione susseguente di tiro è della durata di 60 centesimi di secondo. Talvolta questi atleti quando sono sotto pressione riescono a distrarsi proprio dutante questa manciata di secondi. Perchè ciò non succeda l’allenamento mentale è per loro fondamentale ed è teso a determinare quella condizione mentale che gli permette di restare focalizzati solo sulla loro azione tecnica e non sull’idea di dovere rompere il piattello.

L’atletica italiana non esiste

Se fossi la Federazione di Atletica Leggera istituirei un bel concorso per richiedere progetti che rifondino questo sport in Italia e nominerei un piccolo gruppo di uomini e donne, di intelligenze brillanti e operative, che non abbiano mai ricoperto incarichi nell’atletica per scegliere alcuni di questi progetti e realizzarli. Sogni.

Atteggiamenti poco frequenti

Talvolta le frasi colpiscono per semplicità e chiarezza del contenuto: ” Mi piace … soprattutto conversare con persone con cui sia possibile chiacchierare pacatamente di tutto” (Valentino).

Steve Jobs e il narcisismo produttivo

Alcuni anni fa lo psicologo Michael Maccoby, sulla scia di Kohut, ha illustrato il concetto di narcisismo produttivo. Si fonda sull’ipotesi che per avere successo è probabilmente necessario rendere produttiva questa fiducia che potremmo definire smisurata nelle proprie intuizioni, nel saperla trasformare in strategie aziendali e nell’organizzare le successive azioni. In tal senso il narcisismo si rivela utile se non addirittura necessario e si può così assumere che esista un narcisismo produttivo che consente di realizzare le grandi visioni personali e uno non-produttivo che si alimenta di illusioni grandiose che possono produrre clamorosi fallimenti. Questo è stato sinora Steve Jobs ma come lui molti altri a partire da Bill Gates al boss di Oracle Larry Ellison. I leader narcisisti produttivi sono individui indipendenti e non facilmente influenzabili, innovatori, dotati di una spiccata visione del futuro, strateghi efficaci, hanno successo negli affari per ottenere potere e gloria. Sono degli accentratori e vogliono imparare ogni cosa che possa influenzare lo sviluppo dell’azienda e dei suoi prodotti/servizi. Vogliono essere ammirati ma non amati. Sono in grado di perseguire i loro obiettivi in maniera aggressiva. Nel momento del successo corrono il rischio di perdere il contatto con l’ambiente. La loro competitività e il loro desiderio di riuscita li spingono continuamente verso nuove mete, nell’identificare i nemici da sconfiggere, in casi estremi e sotto stress possono manifestare comportamenti paranoici. Hanno bisogno di avere accanto a loro persone fiduciose, coscienziose, orientate alla concretezza e alla gestione operativa. Un’altra componente essenziale dei narcisisti produttivi consiste nella loro abilità ad attrarre le persone, attraverso il loro linguaggio convincono gli altri che ce la faranno a raggiungere quegli obiettivi che ora sembrano solo abbozzati. Molti li ritengono individui carismatici, abili oratori che sanno trasmettere entusiasmo e forti emozioni a quanti li ascoltano; in breve sanno far partecipare al loro sogno e sanno farlo sembrare realizzabile solo se vi sarà  l’impegno di tutti. Questo perché, nonostante la loro indipendenza, hanno comunque bisogno di avvertire la vicinanza degli altri. A questo riguardo, sono ormai parte della storia del XX secolo le parole di John F. Kennedy durante il suo discorso d’insediamento quando disse agli americani: “Ora l’appello risuona di nuovo: non ci chiama alle armi, per quanto le armi siano necessarie, non alla battaglia, per quanto già si combatta, ma a sopportare il peso di una lunga e oscura lotta che può durare anni…una lotta contro i comuni nemici dell’uomo: la tirannide, la miseria, la malattia e la stessa guerra…Pertanto, cittadini, non chiedete che cosa potrà fare per voi il vostro paese, ma che cosa potrete fare per il vostro paese.” Rappresentò un mattone significativo per la creazione del mito dei Kennedy, in quanto riuscì a trasmettere un solido messaggio di speranza e d’impegno, dopo il discorso inaugurale quasi tre quarti degli americani approvavano il loro giovane presidente. http://www.maccoby.com/Articles/NarLeaders.shtml  http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/09/01/quando-il-re-senza-eredi.html