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Cercasi talenti? No, ha sbagliato nazione

Mentre nel mondo le aziende più importanti conducono tra di loro da anni una guerra per assicurarsi i migliori talenti e su Google troviamo decine di pagine selezionando “talent war”, noi invece viviamo in una nazione in cui questi due termini suscitano poco interesse. E’ quanto emerge da uno studio condotto da Bruno Pellegrino, Università della California, e Luigi Zingales, Università Chicago, secondo cui gli imprenditori italiani, non tutti per fortuna, preferiscono avere come diretti collaboratori degli “yes manager”, pronti in ogni istante a compiacerli nelle loro scelte a discapito di uomini e donne indipendenti e competenti. Si conferma la scarsa propensione dell’imprenditoria italiana alla cultura della prestazione che coniuga insieme la capacità di assumersi dei rischi e d’innovarsi con la necessità di mantenere in attivo il bilancio mentre al suo posto si diffonde il familismo amorale, che seleziona le persone per cooptazione. In tal modo ci si pone sulla strada che abbandona la ricerca del successo come massima espressione delle qualità aziendali e ci si avvia su quella in cui favoritismi e clientele diventano i fattori dominanti del successo. Il mondo del calcio professionista ancora una volta si rivela essere specchio di questo paese e di questo tipo d’imprenditoria: tanti stranieri mediocri e pochi giovani italiani talentuosi. Infatti, nella maggior parte delle squadre sono presenti pochi calciatori italiani e solo quest’anno sono stati introdotti 84 nuovi giocatori, che limitano ulteriormente l’accesso in squadra ai nostri giovani talenti.  Il danno che si viene a creare è molto grave. S’impedisce di fatto ai giovani italiani di giocare, si rende inutile l’attività giovanile poiché i migliori non troveranno squadre disposte a inserirli nell’organico, li si obbliga ad andare all’estero come è il caso di Immobile, Cerci e Verratti, si spendono inutilmente soldi per giocatori stranieri che non sono di valore, le squadre perdono ulteriore valore perché non possono contare su giocatori tenaci e che vogliono vincere. Non vi sono spiegazioni che permettono di comprendere questo fenomeno così auto-lesionista per i club. Certamente la professionalità dei dirigenti di calcio esce sconfitta da questo approccio e dato che questa pratica è così diffusa evidentemente non preoccupa anzi ne esce rinforzata. Naturalmente esistono aziende e squadre che si fondano sulla cultura della prestazione, seguiamole perché sono un pezzo importante della soluzione dei nostri problemi.

(leggilo su http://www.huffingtonpost.it/../../alberto-cei/)

Il progetto dei club di calcio: comprare uno straniero

L’Italia non è un paese per giovani neanche in quel particolare mondo del lavoro che è il calcio. Secondo i dati dell’ Associazione Italiana Calciatori nella stagione 1999-2000 i tesserati  stranieri erano 249, nel 2002-2003, 535, nel 2007-2008, 846 (in serie A percentuale stranieri/italiani 38,72%), nel 2009-2010, 1032 (in Serie A percentuale stranieri/italiani 40,24%), nel 2011-2012 in A 47,82%, nel 2012-2013 in serie A 50,26%  per un totale di 774 calciatori. Quindi per la prima volta più stranieri che italiani.  In sostanza fra chi dopo tante selezioni potrebbe giocare in serie A solo uno su due potrà realizzare questo obiettivo, perchè l’escluso sarà rimpiazzato da uno straniero. E’ un altro esempio di una nazione che non investe sui giovani e che per forza di queste scelte è probabilmente destinata a fallire. Infatti, si può dire con certezza che dalla scuola al calcio non si mettono risorse umane, finanziarie e organizzative significative per invertire questa tendenza. Quale effetto psicologico determina questa cultura: anno dopo anno insegna che vi sono limiti insuperabili, che competenza professionale e volontà di riuscire non sono decisive, e che si è scelti sulla base di decisioni finanziarie che non hanno nulla a che vedere con il successo sportivo. Tanto è vero che i club pure imbottiti di stranieri non riescono più a vincere in nele coppe europee.