Archivio mensile per gennaio, 2023

Pagina 2 di 3

Accettare lo stress positivo

Se partiamo dal presupposto che “la vita è una cosa meravigliosa ma che potrebbe trasformarsi anche in un inferno se non si fa attenzione”, allora si capisce rapidamente perché lo stress, a sua volta, può essere altrettanto meraviglioso oppure fatale. Sono le situazioni di difficoltà che spingono le  persone a impegnarsi al massimo per superarle ed ottenere i risultati che si sono prefissati. Pensiamo al primo appuntamento con una ragazza o un ragazzo, come ci si sentiva, si era tranquilli, no di certo. Si pensava verrà o non verrà, sarò goffo/a?  E’ solo mettendosi in quella situazione stressante, che si è potuto vivere quella sensazione d’incertezza e poi di piacere. E’ dalle sfide (che sono gli stressor) che nasce la risposta o stress positivo. Per sfide non bisogna solo intendere quelle estreme dei campioni olimpici o quelle legate alla propria realizzazione professionale, ambedue richiedono un lavoro a lungo termine di acquisizione e miglioramento continuo delle competenze.

La sfida è anche altro. Sfide anche apparentemente semplici, come quella di trovare del tempo da dedicare durante la settimana a fare qualcosa che piace (una passeggiata, andare al cinema, incontrarsi con gli amici). In questo caso la sfida consiste nel fare qualcosa che piace, per il gusto di farla, per raggiungere obiettivi immediati, per provare piacere o per divertirsi. In tal senso, già molti fa Michael Argyle (1987), studioso della psicologia della felicità, affermava che lo svago al di fuori del lavoro rappresenta uno dei migliori fattori di previsione del benessere e che il divertimento influenza positivamente le relazioni di coppia e la vita sociale, che sono altrettanti indici fondamentali di benessere. Quello che si propone è, quindi, di sviluppare uno stile di vita attivo, sinonimo di una vita non solo schiacciata sui doveri professionali e famigliari ma in cui vi sia spazio per attività promotrici di piacere e soddisfazione. E’ un invito alle persone a preferire le esperienze alla passività determinata dalle comodità (“Perché dovrei uscire, faticare, quando posso stare tanto comodo sul divano a guardare la TV”), a fare piuttosto che avere (“ma se mi compro quel marchingegno elettronico che mi fa dimagrire stando seduto, perché dovrei seguire una dieta e andare in palestra?”).

Queste idee non sono nuove!! Benjamin Franklin, scienziato e politico del XVIII secolo, sosteneva che insegnare a un giovane a farsi la barba e a tenere il suo rasoio tagliente avrebbe contribuito molto di più alla sua felicità che dargli 1.000 ghinee da sperperare. Il denaro avrebbe lasciato solo rimorsi. Mentre il sapersi radere libera l’uomo dalle vessazioni del barbiere, dalle sue dita talvolta sporche, da respiri offensivi e dai rasoi non taglienti. Adam Smith, economista e filosofo, sempre nello stesso secolo affermava che era un piacere stare ad osservare come era fatto un bel orologio, anche se l’estrema accuratezza nella sua costruzione non era di alcuna utilità pratica.

Assumere questo nuovo modo di pensare riguarda il prendersi cura di se stessi, significa prestare attenzione non tanto alla grandiosità dei cambiamenti che potremmo raggiungere dopo un anno e a prezzo di grandi sacrifici. In genere, porsi obiettivi a lungo termine indica più che altro l’aspirazione della persona a raggiungere un determinato risultato ambizioso ma proprio perché si è nel contempo consapevoli di quanto bisognerà impegnarsi nel raggiungerlo può essere percepito come irraggiungibile. Al contrario il ragionare su obiettivi settimanali e percepiti come raggiungibili motiverà a iniziare a dedicare del tempo a qualcosa che piace.

Ansia e pensiero

Oggi a lezione mi stato chiesto in che modo un allenatore può insegnare a gestire l’ansi di gara ai giovani che allena. A questo riguardo riporto alcuni paragrafi dal mio libro “Affrontare lo stress”.

Il pensiero svolge un ruolo essenziale nell’affermazione della risposta ansiosa. Infatti per sviluppare comportamenti definibili come ansiosi non è solo sufficiente prendere in esame le alterazioni di carattere fisiologico. Un aumento anche rilevante della frequenza cardiaca lo si può avere per una serie piuttosto ampia di situazioni quali il fare le scale di corsa, il portare un peso eccessivo, il camminare ad una passo veloce e molte altre ancora. Queste condizioni si riferiscono a stati psicologici in cui un individuo potrebbe al più sentirsi  stanco o affaticato ma certamente non si definirebbe ansioso. La frequenza cardiaca può essere accelerata anche in altre occasioni, ad esempio le situazioni di valutazione (l’interrogazione a scuola, l’esame all’università, un colloquio di lavoro, una prestazione sportiva, una nuova responsabilità professionale); in quegli istanti mentre si è consapevoli dell’alterazione della propria frequenza cardiaca è possibile avere due tipi di pensieri:

  1. fiducioso – “E’ così che mi sento ogni volta che faccio bene, il cuore mi trasmette energia,”
  2. insicuro   – “Ho il cuore in gola, mi rimbomba tutto dentro, non ci sto capendo più niente, sbaglierò sicuramente.”

Si evidenzia così che sono i pensieri a determinare in larga parte se le reazioni fisiologiche che si avvertono sono favorenti o ostacolanti la prestazione. E’ quindi il pensiero che guida l’interpretazione delle sensazioni fisiche, per cui identiche condizioni fisiologiche possono essere vissute come adeguate a fornire prestazioni ottimali nonostante, all’apparenza, possano sembrare ostacolanti. Questa puntualizzazione è particolarmente importante da comprendere e soprattutto da ricordare nei momenti che contano, poiché ci attribuisce la  possibilità di guidare le nostre azioni attraverso lo sviluppo di pensieri che possiamo noi stessi costruire in modo consapevole. Nello sport di eccellenza questo aspetto è particolarmente evidente, poiché non è certo possibile restare calmi e sereni prima di una finale olimpica, in special modo se si può vincere. Gli atleti sanno che l’ansia che provano è positiva, è energia allo stato puro che stanno provando in quei e che gli dice: “Forza, tutto il corpo è con te, datti da fare, vai e fai quello che sai fare: fai il tuo meglio.” E’ proprio da loro che dovremmo imparare ad avvertire lo stress, a sentire la paura, vivendola come una dimostrazione che stiamo per fare qualcosa che per noi è molto importante, e se è importante come si fa a non avere il cuore il gola?

Quello che distingue chi poi fornirà una prestazione eccezionale è la sua capacità di gestire in termini positivi la sua ansia pre-gara, traducendola in energia che lo spingerà ad esaltare le sue competenze, perché hanno imparato a servirsene in modo positivo In queste situazioni l’atleta vincente non si lascia dominare dalle proprie emozioni, perché se ciò avvenisse sarebbe paralizzato dalla paura di fallire e dalla responsabilità di dovere ad ogni costo fornire una grande prestazione. Ecco cosa hanno detto a questo riguardo alcuni grandi campioni.

Si è forti di testa se si riesce a rimanere sereni e divertirsi anche quando le cose non vanno bene, e se si riesce a non perdere mai la fiducia in se stessi e nel lavoro di squadra.”(Valentino Rossi, pilota, 7 volte campione del mondo)

“Dipende dai caratteri, la tensione nervosa mi mangiava. Dimagrivo tre chili in gara: più mangiavo, più scendevo di peso. E la notte non dormivo, avevo gli occhi sbarrati. Ero una pila accesa, pronta a saltare dalla troppa tensione.” (Mark Spitz, nuotatore, 7 medaglie d’oro alle Olimpiadi di Monaco ’72) (da E. Audisio,  Hackett e il club degli eletti, La Repubblica, 22 marzo 2007)

“Quel giorno a Los Angeles gridai che volevo la mamma, volevo  che  qualcuno mi cullasse tra le braccia, desideravo essere considerata per la prima volta una creatura fragile, tenera, non a prova di bomba. Sì io ero quella che si dominava, quella che cercava le emozioni forti facendole esplodere nella maniera più giusta. Ma in un attimo mi accorsi che tutto quello stress mi aveva bruciato dentro, che a forza di vivere sempre in bilico convinta che con le mie ultimissime energie mi sarei tirata su, avevo consumato tutto e intaccato anche quella piccola riserva personale che uno si tiene per le occasioni speciali.” (Sara Simeoni, salto in alto, 3 medaglie alle Olimpiadi del ’76, ’80 e ’84) (da E. Audisio, Quanti modi per dire mi arrendo, La Repubblica, 13 luglio 1987)

La constatazione che anche i campioni possono essere ansiosi prima di una gara importante dovrebbe essere di aiuto per tutte le persone. Talvolta si è portati a pensare che i vincenti siano individui freddi e calcolatori, che non provano le stesse emozioni che prova la gente comune e che questa loro condizione è un dono che si portano dietro dalla nascita e che hanno ereditato da qualcuno della loro famiglia. Le loro prestazioni sportive diventano imprese memorabili e così taluni diventano dei miti, in cui il racconto diventa leggenda e supera la realtà dei fatti. Invece anche i campioni hanno faticato per assurgere a questo ruolo e come ha giustamente ribadito un grandissimo scrittore come Ernest Hemingway il genio è 10% talento e 90% sudore.

Ciò significa che la gestione delle proprie emozioni è un’abilità che si può migliorare e che quella condizione psicologica che chiamiamo ansia, stress o tensione eccessiva e che deriva da situazioni che non sono oggettivamente pericolose non è di per se stessa negativa, perché anche chi fornisce prestazioni ai massimi livelli, come i campioni dello sport, può sentirsi molto ansioso prima della gara. La differenza fra le persone è, quindi,  nella capacità di uscire positivamente da questo stato psicologico. Un’ulteriore conferma viene dalla notevole diffusione che hanno avuto negli ultimi 100 anni le tecniche di rilassamento; è la dimostrazione pratica di come persone ansiose possono imparare a ridurre queste loro reazioni e a svolgere una vita quotidiana soddisfacente.

E’ noto che l’apprendimento a rilassarsi consiste nell’imparare ad influenzare alcune funzioni fisiologiche (frequenza cardiaca e respiratoria e funzioni viscerali) e la tensione dei muscoli, in parallelo con una graduale distensione mentale. In questo ambito, non è un caso che una fra le tecniche più diffuse, il training autogeno ideato da Schultz nei primi anni del xx secolo, consiste in un allenamento a rilassarsi che l’individuo si genera da se stesso. Allenamento che richiede un’applicazione quotidiana di almeno 10 minuti consecutivi per alcuni mesi. Questa impostazione rivela che lo stato psicologico chiamato rilassamento  è una condizione che può essere ottenuta in modo volontario attraverso un’attività che è assolutamente analoga a quella che ogni persona ha effettuato ogni volta che ha imparato qualcosa di nuovo sia esso un’attività cognitiva come è stato a scuola per la matematica e l’italiano o un’attività motoria o sportiva.

Il segreto risiede nella disponibilità a volere imparare, nel seguire un metodo corretto e nella ripetizione per un periodo di tempo sufficiente a sviluppare il livello di abilità che si intende raggiungere o che è necessario per superare con successo determinate condizioni psicologiche, come ad esempio l’ansia prima di un evento personalmente importante.

I problemi dei giovani atleti

In questi giorni ho scritto poco rispetto al solito perchè mi sono posto domande a cui ho avuto difficoltà a rispondere.

Sono queste e riguardano indistintamente ragazzi e ragazze:

  • Nel tennis, a molti piace tirare forte, il che potrebbe anche andare bene se la palla la maggior parte delle volte cadesse in campo, in realtà avviene il contrario. Perchè è così difficile togliere questa idea dalla loro testa?
  • Toni Nadal ha detto che una differenza importante fra Rafa e i giovani di oggi è che Rafa quando migliorava manteneva quel livello senza ritornare indietro, mentre oggi questo non avviene: si migliora, si gioca bene qualche partita e poi si torna indietro. Anch’io vivo la stessa situazione. Come mai?
  • Perchè molti atleti raggiunto un ranking mondiale importante si spaventano della fatica che devono fare per migliorarlo e quasi preferiscono retrocedere in classifica?
  • Cosa spinge un atleta negli sport di opposizione (tennis, tennis tavolo, scherma), in cui bisogna superare più turni di gara per arrivare almeno a giocarsi l’entrata in semifinale o finale, ad accontentarsi di un risultato inferiore e smettere di giocare al meglio?
  • Perchè alcuni atleti spiegano una sconfitta dicendo che l’avversario era più forte? Quasi che essere forti fosse una categoria assoluta che non lascia chance?
  • E lasciamo perdere quelli che attribuiscono i loro insuccessi a problemi tecnici; se fosse vero perchè giocano o competono anziché smettere e aspettare di  migliorare la tecnica?

 

 

Coesione e condivisione obiettivi

Continuo il ragionamento del blog di ieri sull’importanza della relazione fra i calciatori, sottolineando che questa è alla base della coesione. Infatti, l’interpretazione degli eventi da parte dei membri del gruppo, in special modo la valutazione di quelli negativi, è influenzata dal grado di coesione. Se il gruppo mostra uno scarso livello di coesione i singoli giocatori tendono ad attribuire agli altri componenti del team la responsabilità di quanto è accaduto. D’altro canto se invece la squadra è unita i calciatori tendono a essere più oggettivi nelle loro valutazioni e ammettono con più facilità la loro parte di responsabilità.

Da quanto illustrato emerge chiaramente che la prestazione di squadra è più efficace se vi è accordo sugli obiettivi e sui mezzi per raggiungerli. Questa constatazione è anche presente nella definizione stessa di coesione, intesa come processo dinamico che riflette la tendenza di un gruppo a stare insieme e a rimanere unito nel perseguire i suoi obiettivi. Uno dei problemi più frequenti che si presentano è che, talvolta, gli obiettivi che si è data la squadra non corrispondono a quelli scelti dal club. Nello sport accade, ad esempio, che gli obiettivi dei giocatori possono divergere da quelli della loro società e gli allenatori si trovano nella condizione di dovere trovare modalità di comunicazione efficaci per conciliare queste esigenze diverse.

E’ infatti necessario che i membri di una squadra s’identifichino con gli obiettivi della società sportiva al fine di fornire prestazioni ottimali come squadra. Per approcciare questo problema si può fare riferimento al sistema utilizzato 70 anni fa da  Kurt Lewin durante la seconda guerra mondiale e riportato da Forsith [1983] in uno studio sulle dinamiche di cambiamento dei gruppi. A causa della mancanza di carne di vitello, il National Research Council chiese a Lewin di sviluppare una strategia per modificare le abitudini alimentari della popolazione. Veniva concesso un breve periodo di tempo per convincere le casalinghe a servire piatti rapidamente pronti, ma meno desiderabili per le famiglie. Lewin ideò una strategia basata su due approcci diversi.

Nel primo, gruppi di casalinghe partecipavano a conferenze in cui venivano loro illustrati i benefici nutrizionali della nuova dieta all’interno di un discorso che comprendeva appelli al patriottismo. In questa situazione non era prevista alcuna forma d’interazione fra le partecipanti. Nel secondo approccio furono invece introdotti momenti di discussione sugli stessi temi affrontati dalla conferenza. Le partecipanti erano stimolate a trovare un accordo su almeno una questione.

Successivamente Lewin verificò che solo il 3% delle casalinghe che avevano partecipato alla prima situazione avevano cambiato abitudini alimentari, di contro questo valore saliva al 32% fra coloro che avevano partecipato alla situazione interattiva. Lewin verificò la validità di questo approccio interattivo di gruppo anche in relazione ad altre situazioni problematiche, giungendo alla conclusione che è più facile cambiare gli individui quando sono uniti in gruppo, piuttosto che agire singolarmente su di essi.

Da questi risultati si può quindi concludere che, sebbene possano essere utilizzati vari approcci per convincere gli individui della bontà degli obiettivi scelti, un approccio centrato sulla valorizzazione del gruppo sarà certamente molto efficace. In tal modo, si viene a costruire una relazione positiva fra motivazione e impegno individuale, che portano a prestazioni efficaci e a una conseguente percezione positiva del valore del contributo individuale al lavoro collettivo.

Le squadre devono dare più valore al lavoro di squadra

I risultati altalenanti del campionato di queste prime due giornate di ripresa dopo il mondiale, l’Inter batte il Napoli ma poi si blocca contro il Monza, così come l’eliminazione del Milan dalla Coppa Italia mettono in evidenza come sia difficile dare continuità alle prestazioni e come questo sia più un problema che riguarda il collettivo e non tanto il singolo calciatore. E’ più facile criticare il singolo calciatore o un singolo reparto della squadra mentre è più difficile analizzare i risultati in termini di gioco di squadra. Anche fra i team non sportivi, ad esempio i team sanitari, è stato rilevato che quelli che lavorano per migliorare la collaborazione su obiettivi specifici di squadra hanno una probabilità 2,8 volte maggiore di raggiungere alte prestazioni rispetto ai team che non lo fanno.

Ciò accade poiché le squadre sono unità di lavoro identificabili, composte da più persone con diverse caratteristiche uniche che interagiscono continuamente tra di loro.

Le caratteristiche di un team includono:

  • interazioni sociali dinamiche con interdipendenze significative,
  • obiettivi condivisi e apprezzati,
  • una durata di tempo discreta,
  • competenze distribuite
  • ruoli e responsabilità chiaramente assegnati.

Quindi l’interdipendenza dei compiti fra i player se praticata in modo costruttivo favorisce la relazione tra lavoro di squadra e prestazioni, dimostrando l’importanza del lavoro di squadra.

In tal senso, trova conferma il detto che scegliendo gli 11 calciatori migliori per ogni ruolo, non è detto che si formi la squadra migliore.

I goal decisivi vengono segnati a fine partita

In questi giorni si discute delle ragioni per cui si fanno più reti nel finale delle partite e spesso proprio nei minuti di recupero. Sembra una novità determinata dall’avere allungato la durata delle partite. In realtà questo fenomeno è da sempre presente nel calcio. Già 40 anni fa, Desmond Morris, famoso antropologo e appassionato di calcio, scriveva nel suo libro “La tribù del calcio” che, analizzando i 9000 goal effettuati tra aprile 1978 e novembre 1980 in partite di campionato e di coppa inglesi, la  frequenza dei goal aumentava con il passare del tempo. Erano circa 5000 quelli segnati nel secondo tempo, di cui 1800 erano stati messi a segno negli ultimi 15 minuti della partita, evidenziando globalmente che la probabilità di segnare aumentava col procedere della partita.

Pertanto, se la mentalità vincente deve essere mantenuta per l’intero arco della partita, sembra altrettanto chiaro che vi siano momenti chiave nel corso dei 90 minuti + recupero in cui è necessario avere un livello di attenzione particolarmente efficace e che una squadra si deve allenare per evitare cali di concentrazione e di fiducia.

Per verificare la validità dei risultati rilevati da Morris più di 10 anni ha ho registrato per tre anni consecutivi dal 2006 al 2009 quando venivano segnati le reti non solo in Serie A ma anche in Spagna, Inghilterra e Olanda. I risultati hanno confermato questa tendenza. L’andamento complessivo in Serie A dei goal nelle tre stagioni evidenzia un andamento di crescita dalla fase iniziale della partita a quella finale. Si può notare che il numero minore di reti è messa a segno nella prima mezz’ora di gioco (12%), in seguito la percentuale cresce mantenendosi costante dal 31° al 75° minuti (17% circa) e poi ha un picco negli ultimi 15 minuti (24,5%).

Risultati analoghi si rilevano anche nei tre campionati europei. Nei primi 15 minuti viene messo a segno circa il 10% dei goal che nel periodo successivo cresce, variando tra il 14% e il 15,7%. Tra il 31° e il 75° minuto vi sono variazioni tra il 15% e il 18%, mentre come nel campionato italiano il maggior numero di goal è realizzato negli ultimi 15 minuti, variando tra il 24% e il 26%.

Inoltre, l’ultimo periodo di gioco è quello in cui vengono messe a segno le reti decisivi quale che sia il risultato finale con il 44,2% di goal. L’altro periodo con maggiore frequenza di reti è quello immediatamente precedente con il 24,6%. L’ultima mezz’ora della partita è quella più importante per il numero di goal segnati che rappresentano il 68,8% dei goal. Solo 16,3% dei goal decisivi sono effettuati nel primo tempo, questo dato è molto vicino alla percentuale di goal messi a segno nei primi 15 minuti della ripresa (14,7%).

Mi sembra evidente che l’aumento del tempo di gioco dopo il 90° minuto rappresenti una ulteriore opportunità per segnare le reti decisive. Aumentare anche solo di 5 minuti la durata media del secondo tempo, rispetto agli ultimi 15 minuti del match, significa aumentare di un quarto il tempo a disposizione delle squadre per mettere a segno i goal che possono determinare il risultato finale.

ISSP Master Class sulla salute mentale nello sport di base

ISSP Master Class – Session #1

At The Starting Line: Promoting and Protecting Mental Health in Community Sport

Date: Thursday, February 9, 2023
Speaker: Stewart Vella, PhD
University of Wollongong
Length of Session: 75 minutes (45 minute lecture, 30 minute Q&A)
Time: 1:00 pm UTC
(Toronto 8:00 am, Sao Paulo 10:00 am, London 1:00 pm, Paris 2:00 pm, Beijing 9:00 pm, Tokyo 10:00 pm)

Program Overview
The protection and promotion of mental health in non-elite sport settings has become a hot topic worldwide. However, in many respects, we are barely at the starting line. This presentation will explore the ways and means through which mental health can be addressed in community sport settings – including mental health programs and mental health guidelines.

About The Speaker
Dr. Stewart Vella is the Director of the Global Alliance for Mental Health and Sport at the University of Wollongong – Australia. He is the most published researcher in the world on the topic of mental health and sport. Vella’s work spans mental health programs and guidelines, and psychological safety with a focus on community sport. His “Ahead of the Game” program is being scaled globally including as the official program of the Rugby League World Cup.

Program Format
Attendees can participate in an ISSP Master Class session right from their office or home. Registrants will be provided the Zoom link upon registration to access the presentation right on the web in real time. If you are unable to watch the session live, a recording will be provided afterward to all registrants.

Cost (in USD)

Giusto per non dimenticarlo mai

 

@Keepitonthedeck

 

 

 

 

 

 

 

 

Gianluca Vialli

“Devo dire che in partita nei momenti negativi non ho mai giocato pensando: “non c’è niente che possiamo fare”. Questo non mi è mai accaduto. Ma sono stato fortunato a giocare in una squadra che aveva la capacità e la forza di uscirne fuori” (Gianluca Vialli da Momentum in soccer, 2005)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il killer instinct secondo Rod Laver

Killer Instinct. E ‘un attributo che tutti i campioni  di tennis hanno – innato o appreso che sia. Mite, gentile e umile, Rod Laver, è stato probabilmente il più grande giocatore di tennis di tutti i tempi, l’aveva e l’ha usato per diventare l’unico giocatore a vincere due volte il Grande Slam di tennis. Nel suo libro di memorie di recente aggiornato e ripubblicato LA FORMAZIONE DI UN GIOCATORE DI TENNIS ($ 19.95, nuovo capitolo Press, www.NewChapterMedia.com) Laver parla del killer instinct (un estratto qui di seguito).

Di Rod Laver

Quando ero un ragazzino,  cominciando a giocare bene, un po ‘meglio dell’ordinario, ho sperimentato il piacere di giocare di fronte a un pubblico. E ‘stata una bella sensazione di essere ammirato per i miei colpi, ed io non aveva fretta di uscire dal campo. Come risultato ho lasciato troppi avversari nei guai. Ho scoperto che si deve giocare con l’intenzione che sia un viaggio breve,  fare il lavoro rapidamente e completamente.

Non voglio dire in fretta. Tutt’altro. Ma quando si ha la possibilità di colpire allora ti rendi conto che nessun vantaggio è grande come sembra. Se il tuo avversario è sotto di 1-4, ci si sente abbastanza bene: tre giochi di vantaggio. Ma sono solo una pausa di servizio, e se non si desidera mantenere la pressione  si andrà incontro a delle difficoltà. Non è certo il momento di sperimentare nuovi colpi.
Ho sentito dire che o sei uno nato con l’istinto assassino o non lo sei. Non sono d’accordo con questo. Mi sento che ho dovuto sviluppare questa visione assassina che, per me, significa fare il tiro richiesto per vincere il punto. Non ci si complica la vita quando si ha un colpo facile e il tuo avversario è fuori posizione.
Le buone occasioni non sono frequenti, e il killer sicuramente le prende quandosi presenta l’occasione. L’assassino non molla. Questo si può imparare. Bisgna essere certi dei tiri facili – concentrarsi duramente in più su quelli. Tutti hanno problemi con i colpi difficili, ma l’assassino ottiene il suo scopo perché è meticoloso.
Non bisogna elogirsi quando si è in vantaggio. Concentrati su stare lì. Quando Charlie Hollis, il mio allenatore, ha deciso che non ero abbastanza omicida, mi ha allenato con l’intento di vincere ogni partita 6-0, 6-0. Forse vi sembra strano, ma l’idea di Charlie era buona e precisa: corri e non lasciare che nessuno si senta a suo agio.