Archivio mensile per marzo, 2022

Le componenti psicosociali del camminare

Muoversi camminando è una delle attività umane primarie. Oggi è invece possibile vivere seduti passando da un mezzo ad un altro. Pertanto un progetto che abbia lo scopo di promuovere il camminare diventa innovativo e quanto mai necessario per promuovere il benessere dei cittadini.

Diversi sono gli aspetti psicosociali coinvolti nella riuscita di questa idea; riguardano nella sostanza la percezione che i cittadini hanno di:

  1. quanto sia apprezzabile e gratificante camminare nella loro città,
  2. quali motivazioni il camminare soddisfi,
  3. quanto il loro benessere globale ne esca rafforzato.

Questi tre aspetti dovrebbero giungere a costituire un unico modello integrato personale, che permetta di passare con facilità dall’intenzione di camminare (voglio farlo) all’azione (lo sto facendo).

Essere consapevoli di questi tre aspetti e della loro interazione diventa, quindi, necessario per la riuscita di questo progetto sul camminare. I dati delle indagini hanno dimostrato che si apprezza il camminare in città se:

  1. si vedono altri camminare per andare a lavorare o come espressione di attività fisica,
  2. vi sono spazi verdi, spazi sicuri ed esteticamente piacevoli,
  3. le strade sono sicure,
  4. gli incidenti ai pedoni sono rari,
  5. vi sono scuole dove si cammina,
  6. il traffico è ridotto.

In relazione alle motivazioni individuali si è rilevato che le persone sono orientate a svolgere un’attività che

  1. riduca lo stress quotidiano e migliori l’umore,
  2. migliori il rapporto con il proprio corpo,
  3. si svolga all’aria aperta,
  4. si possa fare in compagnia,
  5. rispetti i propri ritmi individuali e che sia moderatamente intensa,
  6. sia semplice e accessibile.

Il terzo aspetto di questo approccio riguarda la promozione del proprio benessere. Questo risultato deriva dall’interazione fra i due aspetti descritti e che si riferiscono ai criteri di camminabilità e alla motivazione. Quando questi s’incontrano l’individuo mostra un livello di soddisfazione personale superiore, che gli fornisce una percezione di benessere migliore.

Il valore della storia

«Non esiste una Storia muta. Per quanto la brucino, per quanto la rompano, per quanto mentano a riguardo, la Storia umana si rifiuta di stare zitta»

Eduardo Galeano

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Nel calcio manca il senso di responsabilità di un bene comune

Come ha scritto @RobertoRenga: “Ho dedicato la mia vita professionale e un libro alla Nazionale. Una volta ci si disperava per un terzo posto mondiale, per un titolo perso ai rigori, per Moreno. Mai vissuto un periodo così”.
Mentre oggi ci rallegriamo dei tre goal alla Turchia senza riflettere che quando servivano non li abbiamo segnati, a conferma di quanto ansia e superficialità abbiano determinato quei risultati.
La questione è la mancanza di senso di responsabilità di un bene comune, il calcio, da parte di chi guida il calcio italiano.
Un’organizzazione con una mentalità vincente dopo la vittoria dell’europeo avrebbe considerato il percorso svolto e il risultato finale in termini di raggiungimento di una tappa intermedia verso l’obiettivo di assicurarsi la partecipazione ai mondiali. A sua volta quest’ultimo risultato sarebbe stato un ulteriore passo in avanti verso il raggiungimento di obiettivi di risultato ambiziosi durante il mondiale. Dopo di che l’eventuale risultato positivo in questa manifestazione mondiale avrebbe rappresentato un ulteriore passo avanti verso l’obiettivo di mantenere quello standard di risultati e quello di porre la basi per lo sviluppo di giovani calciatori che avrebbero dovuto sostituire quelli precedenti.
Quindi la crescita del sistema nazionale di calcio non termina con il raggiungimento di un risultato, come è invece stata concepita dall’organizzazione e dai calciatori stessi ma è un processo continuo di miglioramento che non avrà mai fine. Ora la pochezza intellettuale dei nostri dirigenti, i limitati interessi dei Club ad andare oltre i loro obiettivi immediati  e la ristrettezza mentale degli staff tecnici composti solo da ex-calciatori che si confrontano sulla base di un background culturale comune (che conferma i loro stereotipi conservatori) e poco aperto a nuovi approcci, sono alla base di questo fallimento generazionale.

10 problemi dell’attività giovanile

  1. Gli atleti in età di sviluppo competono troppo e si allenano poco.
  2. Programmi per adulti sono imposti ad atleti in età di sviluppo.
  3. La preparazione è centrata su obiettivi a breve termine – vincere – anziché su obiettivi a lungo termine.
  4. L’età cronologica piuttosto che l’età biologica è usata per pianificare l’allenamento e le competizioni.
  5. In larga misura gli allenatori non insegnano ai giovani a correggersi e autovalutarsi.
  6. Gli allenatori dello sport giovanile sono poco retribuiti rispetto alle competenze che dovrebbero possedere.
  7. I genitori non sono educati a ragionare in termini di sviluppo a lungo termine del loro figlio.
  8. I sistemi d’identificazione del talento sono in larga parte basati su capacità fisiche e tecniche.
  9. Non c’è integrazione fra apprendimenti tecnico-tattici e sviluppo cognitivo ed emotivo dei giovani
  10. La capacità di risolvere problemi e di prendere decisioni raramente vengono allenate.

Il disastro del calcio era già previsto

Continuano le spiegazioni del fallimento della nazionale di calcio. Vi sono almeno due tipologie di spiegazione.

La prima riguarda un gruppo di calciatori che indipendentemente dal loro valore tecnico non sono stati capaci di gestire lo stress determinato da partite decisive. Nessuno può dire che questo dato non fosse prevedibile poiché è stato il filo conduttore delle ultime partite della nazionale. Non sappiamo cosa sia stato fatto per cambiare questo tipo di atteggiamento. Secondo me The disasternulla, tranne che fornire all’opinione pubblica delle frasi rassicuranti (vinceremo il mondiale, i ragazzi appena superati i cancelli di Coverciano dimenticano ogni altra preoccupazione). Questa responsabilità come ovvio ricade sullo staff tecnico nonché sui giocatori.

La seconda, come sottolineato da molti, riguarda  il mancato sviluppo dei giovani calciatori. Fra questi Billy Costacurta ha detto che dopo avere visto qualche partita del campionato Primavera si è reso conto che  “i giovani non corrono più, non crossano e non dribblano. Nessuno glielo insegna. Invece di occupare l’area avversaria, girano al largo”. Quindi il problema è di formazione dei calciatori e non solo della successiva opportunità di giocare in prima squadra.  Ma la questione non è nuova e riporto dei dati. Già nel 2000, quindi 22 anni fa, quando ero responsabile dell’area psicologica del settore giovanile della Federcalcio una ricerca di Stefano D’Ottavio metteva in luce che i giovani di 15 anni non eseguivano dribbling e non tiravano in porta. Inoltre, nel 2013, 10 anni fa, a un convegno internazionale di calcio avevo mostrato dati che dimostravano come gli adolescenti migliori di 15 anni del calcio italiano non utilizzavano alcun sistema per prepararsi mentalmente alle partite.

Ora a distanza di molti anni, e non lavorando più nel calcio giovanile, mi sembra che il problema sia di molto peggiorato e sia diventato cronico, poiché si tratta di problematiche già documentate molti anni prima.

 

Belle e inutili le parole di Mancini

Sono belle le parole di Mancini.

Roberto Mancini rompe il silenzio.

“Il calcio a volte sa essere metafora spietata di vita. L’estate scorsa eravamo sul tetto d’Europa dopo aver portato a termine una delle imprese più belle della storia della Nazionale. Poche ore fa ci siamo risvegliati in uno dei punti più drammatici. Siamo passati dalla gioia totale ad una frustrante delusione.

È davvero dura da accettare, ma accogliere anche le sconfitte nella vita fa parte di un sano percorso di crescita umana e sportiva. Prendiamoci del tempo per riflettere e capire con lucidità. L’unica mossa azzeccata ora è rialzare la testa e lavorare per il futuro. Grazie al pubblico di Palermo per il calore e grazie a tutti i tifosi che da sempre ci hanno trasmesso entusiasmo e affetto”.

Ma vorrei sapere cosa è stato fatto in questi mesi, per la preparazione delle partite con la Svizzera e le altre, per prevenire quanto è accaduto. Vorrei sapere quali sono stati gli obiettivi perseguiti per allenare i calciatori a giocare queste partite con calma e determinazione. Vorrei sapere quali sono state le azioni che, Roberto Mancini e il suo staff, hanno messo in atto per stimolare ogni calciatore ad affrontare questi match e quello con la Macedonia del Nord in modo combattivo ma nel contempo che facendo leva sulle responsabilità individuali.

Non lo sapremo mai. Perchè a mio avviso non è stato fatto nulla per colmare le assenze mentali dei calciatori. Non ci si può nascondere dietro la mancanza di raduni. Ora il mondo vive online perchè non si è usato anche questo sistema per ragionare con i calciatori? Perchè si è continuato con proclami ideologici sulla vittoria del mondiale, forse perchè si pensa che i calciatori sono così infantili da non reggere pensieri realistici, mentre vanno blanditi con pensieri fantasiosi?

Ovviamente nessuna pensa che uno psicologo dello sport avrebbe potuto svolgere un ruolo importante in questa tragedia. Noi usiamo ancora sistemi basati sull’estro di vecchie glorie, che per il fatto di avere giocato vengono arruolati come esperti nella gestione degli uomini.

La disfatta della nazionale di calcio e del suo staff

Da dire “vinceremo il mondiale” alla eliminazione da parte della Macedonia del Nord c’è un abisso di differenza che dovrebbe essere capito. Le interpretazioni di oggi parlano di una squadra priva di personalità servendosi di parole quali sbiaditi interpreti, regia lenta, rinuncia alla rete, fatica inutile e tiri sgangherati. Mancini nelle dichiarazioni aveva toccato vari tasti dell’immaginario. Ha parlato di partita della vita ma ha detto anche di stare tranquilli e di mantenere la concentrazione. L’effetto positivo di questi messaggi in campo non si è visto, non basta attaccarsi al solita frase che sottolinea l’impegno dei calciatori, poiché se questo sforzo collettivo non determina il goal non serve a niente. Una squadra si valuta sui goal che segna e non certo sulle occasioni costruite. Regola confermata in questa partita, dove i macedoni hanno fatto un tiro, un goal.

Alla squadra è mancato l’entrare in campo con l’atteggiamento di chi vuole sfruttare ogni occasione in modo decisivo. E’ l’atteggiamento che nello sport s’intende con “istinto del killer”, che si riferisce a quando calciatori esperti giocano con determinazione e tenacia agonistica. Sappiamo che ogni competizione prevede la paura di non riuscire a esprimersi al meglio, di non essere in grado di corrispondere alle aspettative dei tifosi e di se stessi; non è questo il problema. Tuttavia, lo può diventare se nei giorni precedenti la partita non si prende in considerazione questo fattore, chiedendosi come squadra: “E se fossimo troppo tesi cosa dobbiamo fare?”. Questo a mio avviso dovrebbe essere lo scopo di questi raduni pre-partita degli azzurri fornire delle pillole di fiducia e di determinazione di cui servirsi nel gioco.

Riflessioni sul clamoroso ritiro della Barty

Il ritiro della Barty, numero 1 del tennis da 112 settimana a soli 25 anni porta a riflettere sulla vita e carriera di queste campionesse e dell’intreccio con le loro priorità di vita.

Lo sport non è più per tutti

Muoversi è una necessità vitale, lo è stato per migliaia di anni quando l’uomo doveva muoversi per procurarsi il cibo per vivere, continua ad essere un’impellenza biologica e psicologica per l’essere umano che cresce e si sviluppa proprio attraverso l’acquisizione della libertà di movimento. La piaga della sedentarietà continua a perseguitarci tanto che da sempre siamo fra gli europei meno attivi in termini sportivi e, inoltre, negli ultimi 20 anni anni la percentuale dei praticanti è cresciuta solo del 5,7% mentre i sedentari sono diminuiti solo del 2%. L’unico dato aumentato in modo vistoso è la prevalenza di persone in sovrappeso e con obesità che cresce al crescere dell’età, tanto che se l’eccesso di peso riguarda 1 minore su 4, la quota quasi raddoppia tra gli adulti, raggiungendo il 46,1 per cento tra le persone di over-18.

Lo sport non è per tutti. Il concetto che lo sport dovrebbe essere declinato a misura di ciascuno non ha trovato la diffusione che avrebbe meritato. Sarebbe stato un grande cambiamento di mentalità metterlo in pratica, oltrepassare le barriere psicologiche e sociali che impediscono questo tipo di affermazione. Ciò non è accaduto, anzi, la sedentarietà ha trovato invece ampia diffusione. Lo rileva l’ultima indagine condotta da UISP e SVIMEZ in collaborazione con Sport e Salute su “Il costo sociale e sanitario della sedentarietà”.

La conoscenza dei dati è alla base di qualsiasi politica sportiva che si voglia intraprendere. Purtroppo questi risultati dicono, ancora una volta, che nel Centro-Nord si pratica con più frequenza lo sport. Infatti, il 42% degli adulti lo pratica in modo continuativo e il 26,8% in modo saltuario. Al contrario, nel Centro-Sud questi dati scendono al 27,2% e al 33,2%. Il dato peggiore riguarda i giovani. Fra gli under-16 del Sud sono solo l’8,6% coloro che praticano lo sport a livello agonistico contro il 24,8% di quelli che risiedono nel Centro Nord. Invece, coloro che praticano sport in modo continuativo ma senza fare gare sono al Sud il 45,3% e al Nord il 53,7%.  Pertanto al Sud i giovani che praticano sport sono il 54% mentre al Nord diventano il 78%. Nel Sud circa 1/4 dei giovani under-16 pratica sport in modo saltuario mentre questo dato corrisponde solo al 7% di quelli residenti al Nord. Inoltre, il tasso di bambini e ragazzi sedentari al Sud è pari al 21,9% rispetto al 14,4% registrato nel Centro-Nord.

Infine, altri dati ISTAT ben si relazionano a questi nuovi risultati evidenziando che il titolo di studio e sedentarietà dei genitori e risorse economiche della famiglia sono dei validi predittori del coinvolgimento sportivo dei giovani. I ragazzi che vivono in famiglie con status socioculturale più basso presentano i livelli più elevati di sedentarietà: il 32,1% di quanti vivono in famiglie i cui genitori hanno al massimo la scuola dell’obbligo contro il 12,9% di chi vive in famiglie in cui almeno un genitore è laureato. I giovani i cui genitori dichiarano di non praticare sport e attività fisica hanno uno stile di vita sedentario nella misura del 47,9% se entrambi genitori sono sedentari contro 9,8% se i genitori conducono uno stile di vita fisicamente attivo.

Speriamo che l’approvazione del Senato relativo al disegno di legge costituzionale che inserisce il diritto di accesso allo sport come strumento di sviluppo della persona possa determinare un processo di costruzione di azioni programmatiche per diffondere nel paese uno stile di vita fisicamente attivo.