Archivio mensile per novembre, 2021

Le idee di Arsene Wenger

Il francese Arsene Wenger è stato il manager di calcio più longevo della Premier League inglese, essendo entrato all’Arsenal nel 1996. Il suo soprannome “Le Professeur” lo ha definito lungo tutti gli anni di attività.
Le sue idee.

  • Costruire il giusto ambiente per l’apprendimento e la mentalità, “… nel calcio c’è bisogno di un talento speciale, ma quando un giocatore supera i 20 anni, ciò che è nella mente è più importante del resto ed è ciò che fa una carriera … Per me essere un manager di calcio è essere una guida. Una guida è qualcuno che conduce le persone da qualche parte … deve identificare ciò che vuole … convincere tutti gli altri e cercare di ottenere il meglio da ogni individuo”.
  • Valori come il multiculturalismo, il rispetto, l’onestà, l’equità e la fiducia sono rilevanti.
  • Solidarietà di squadra: il legame emotivo di passare attraverso le esperienze insieme può dare agli individui molto di più che concentrarsi solo su se stessi.
  • Età cruciale per i giovani professionisti è tra i 19 e i 22 anni in quanto è “un periodo della tua vita in cui il tuo ego è enorme … il mondo ti gira intorno – e questa è una cosa normale nello sviluppo per una persona. Ma a quell’età credono che  il leader svolga un ruolo decisivo, va bene tu sei importante, ma tutti insieme siamo ancora più importanti”.
  • “Una delle difficoltà nel lavoro è quella di avere 25 persone che lottano per giocare il sabato e il venerdì sera hai 14 che sono disoccupati e gli dici il lunedì, ricominciamo, hai un’altra possibilità”.
  • Enfatizza un’adeguata mentalità mentale incoraggiando i suoi giocatori ad avere autonomia e a guardare i propri standard fuori dal campo tanto quanto su di esso. Wenger invita costantemente i giocatori a valutare come pensano di stare facendo e poi è ansioso di vedere quanto accuratamente si valutano.
  • L’approccio olistico con la squadra si basa su un impegno a lavorare con le emozioni, identificando le convinzioni e le motivazioni, e rafforzando l’autoregolazione dei giocatori.

Che allenatore sei? Differenze tra gli sport

Insegni a essere autonomi o a dipendere da te?

Il campione britannico di tennis da tavolo Matthew Syed descrive i grandi allenatori come “capaci di progettare la pratica in modo che il feedback sia incorporato nell’esercizio, portando a un riaggiustamento automatico, che a sua volta migliora la qualità del feedback, generando ulteriori miglioramenti, e così via”.

Ad esempio, l’allenatore di Michael Johnson, Clyde Hart, ha introdotto il feedback nelle sessioni di Johnson cablando un cercapersone attraverso altoparlanti da pista per dare un feedback del ritmo di Johnson in ogni sessione per 15 anni. Come un metronomo in musica, lo ha aiutato a giudicare il suo ritmo e la sua velocità, permettendogli di giudicare istantaneamente la sua forma ai punti di controllo chiave e di perfezionare la sua tecnica e tattica.

Il golfista Jack Nicklaus ha illustrato questo punto quando ha detto: “Jack Grout mi ha insegnato fin dall’inizio. Ha detto che devo essere responsabile del mio swing e capire quando ho problemi sul campo da golf come posso correggere quei problemi … io stesso senza dover correre da qualcuno. E durante gli anni in cui ho giocato la maggior parte del mio golf agonistico, ho visto Jack Grout forse una o due volte all’anno per un’ora… Ma mi ha insegnato da giovane le basi del gioco. Mi ha insegnato a valutare quello che facevo. Quando commettevo un errore, quando facevo delle cose, come si fa sul campo da golf a rimediare senza mettersi fuori da un torneo di golf e poi insegnare a se stessi”.

Mentre nel calcio

Guardando al ruolo centrale degli allenatori professionisti nel calcio, un approccio “tradizionale” all’allenamento è stato invece descritto da una serie di studi nei club di calcio della Premier League League (EPL). Questo “è caratterizzato da un approccio altamente direttivo, autocratico e prescrittivo all’istruzione” con limitata indipendenza del giocatore (Cushion et al., 2012).

Per esempio, quando è stata misurata la quantità di tempo che gli allenatori della EPL hanno dedicato a diversi compiti durante gli allenamenti, sono emersi alcuni risultati interessanti. L’istruzione (60%) è stata di gran lunga l’attività più comune, seguita proporzionalmente dalla lode (15%), con l’osservazione (13%), occupando meno tempo e molto meno tempo utilizzato per l’allenatore a fare domande (3%). Il restante nove per cento del tempo è stato impiegato dal coach per gestire e portare avanti la sessione (Potrac et al., 2007).

Questo contraddice in qualche modo le lezioni che Jack Nicklaus ha raccolto nel corso degli anni sulla capacità di pensare e risolvere le cose da solo. Con il 60% del tempo utilizzato per l’istruzione – compreso il feedback – fornisce troppe informazioni e chiacchiere nelle sessioni. L’uso eccessivo di lodi potrebbe anche essere considerato come un segno di feedback non specifico che può diluire i suoi effetti motivazionali.

In uno studio simile, gli allenatori di calcio di alto livello in Norvegia, hanno impiegato l’osservazione silenziosa due volte e mezzo di più degli allenatori inglesi (37% contro il 15%). Incoraggiare gli individui a risolvere le cose da soli è una cosa, ma forse il vero mestiere per gli allenatori di squadra è quello di impostare situazioni in cui i gruppi possono rispondere e risolvere i problemi.

(Fonte: Ben Oakley, 2015)

Gli allenatori svolgono con piacere un ruolo psicologico?

Spesso i giovani atleti/e mi dicono che non parlano con il loro allenatore delle loro convinzioni sullo sport e sulle loro paure.

Come mai ciò avviene?

  • Mancanza di tempo.
  • Non è responsabilità dell’allenatore.
  • Allenatori non si sentono competenti in questo campo?
  • Il loro lavoro è tecnico.
  • Dare retta ai ragazzi/e darebbe una giustificazione alla loro mancanza d’impegno.
Sarebbe interessante conoscere cosa ne pensano gli allenatori.

 

Come valutare la concentrazione in campo

Molti esperti di calcio sono concordi nel ritenere che vi sono alcuni momenti specifici della partita in cui si può valutare la concentrazione di una squadra.

“I momenti chiavi di una partita sono proprio prima della fine del primo tempo, proprio dopo l’inizio del secondo tempo e, in funzione del risultato, anche gli ultimi 10 minuti della partita. Proprio prima della fine del primo tempo perché ci potrebbe essere un elemento di fatica mentale e non solo fisica in quanto hai lavorato con molto impegno per 40 minuti. Se concedi un gol proprio prima della fine del tempo, non avrai tempo per recuperarlo. Ti senti abbattuto perché́ non c’è la possibilità̀ di tornare indietro. Per cui è una fase vitale. 

E’ anche importante l’inizio del secondo tempo. Guardando la partita Inghilterra – Brasile nei quarti di finale della Coppa del Mondo del 2002. Se mai due gol sono stati dei killer, questi due lo sono stati: uno cinque prima la fine del primo tempo e l’altro cinque minuti dopo l’inizio del secondo tempo[1]”. 

Appare evidente da queste parole che, se è pur ovvio che la concentrazione debba essere mantenuta per l’intero arco della partita, sembra altrettanto chiaro la presenza di alcuni momenti chiave nel corso dei 90 minuti in cui è necessario avere un livello di attenzione particolarmente efficace. Un momento critico per la concentrazione della squadra si presenta dopo che è stato segnato il primo goal della partita. E’ possibile che i calciatori si sentano in qualche modo appagati e riducano così il loro livello di concentrazione per qualche minuto. Questo calo attentivo può costare molto caro se viene sfruttato dalla squadra avversaria. Infatti, esultare in modo eccessivo dopo un goal, può ostacolare il mantenimento del giusto livello di concentrazione. Dopo la rete è invece necessario rifocalizzarsi immediatamente sul gioco, mantenendo inalterata la voglia di successo e lo stesso impegno. Se invece i calciatori continuano a compiacersi del successo appena ottenuto o si fanno distrarre dall’esultanza dei tifosi difficilmente riusciranno in questo compito.

Secondo molti allenatori un sistema efficace per contrastare questa tendenza consiste, alla ripresa del gioco, nell’impegnarsi a vincere immediatamente il primo contrasto mentre chi guida la squadra in campo dovrà incitare i compagni ad avere un comportamento aggressivo, tale da spingere sulla difensiva la squadra avversaria anziché́ lasciarla attaccare. Agendo in questo modo si mantiene un livello di intensità̀ agonistica costante e si trasmette il messaggio agli avversari che si è pronti a continuare a fare il proprio gioco. L’obiettivo psicologico, che si fonde con quello di gioco, è di non concedere agli avversari il vantaggio di potere recuperare grazie alla distrazione della squadra causata dalla rete appena messa a segno.

 


[1]Ray Clemence, allenatore inglese, citato in Higham, A., Harwood, C., e Cale, A. (2005). Momentum in soccer: Controlling the game. Leeds: Coachwise Ltd., p. 96.

 

16° Congresso Europeo di Psicologia dello Sport

Cari Psicologi dello Sport, prestate attenzione all’opportunità di inviare un abstract al Congresso Europeo di Psicologia dello Sport che si terrà a Padova il prossimo 11-16 luglio.

https://fepsac2022.eu/call-for-abstracts/ 

Si vince o si perde per un “niente”: come si allena?

Nello sport il punteggio finale che divide i vincitori dai perdenti è  spesso molto ridotto. Non mi riferisco solo al calcio dove si vince per lo scarto di un goal. Non a caso Mourinho dice che è più contento quando la sua squadra vince 1-0 piuttosto che 5-0, poiché quella vittoria è sinonimo di tenacia e concentrazione.

Lo sport insegna molto a tutti, perchè si perde per un punto, per una manciata di centesimi di secondi, per un centimetro. Nel golf spesso la pallina non va in buca per qualche millimetro e lo stesso vale nel tiro a segno dove Campriani ci ha spiegato che la differenza fra un 8 e un 1o equivale a tre monete da un centesimo di euro sovrapposte. Nel celebre discorso di Al Pacino alla squadra nello spogliatoio, nel film Ogni maledetta domenica, l’allenatore afferma che si vince o si perde per un centimetro e che la somma di tutti i centimetri vinti o persi in una partita farà la differenza fra vivere o morire.

Questo ragionamento non deve certo angosciare.

  1. E’ la condizione usuale che tutti gli atleti affrontano in gara; le condizioni sono uguali per tutti.
  2. Lo sport richiede un’estrema attenzione con lo scopo di favorire il fluire della propria azione tecnica e l’autocontrollo di se stessi.
  3. Per quanto tempo? Sino alla fine. Scordiamoci che sia più facile mantenere la concentrazione se la gara dura pochi secondi come nei 100m piuttosto che due ore come nel tennis. La tenacia è l’ingrediente necessario di una prestazione vincente ed è figlia dell’intensità con cui ci si allena e di quando si è orientati reagire psicologicamente dopo un errore.
Domanda: quanto sono allenati in questo i vostri atleti e quanto voi come allenatori siete consapevoli della rilevanza e allenabilità di questi tre fattori?

Incontro su sport e psicologia

Le occasioni pubbliche per parlare di psicologia dello sport sono poco frequenti e questa iniziativa guidata da Patrizia Steca è una di queste volte in cui si parlerà di esperienze di resilienza e scoperta di nuove pratiche. L’incontro potrà esser seguito in presenza ma anche online, come ormai d’abitudine: E’, quindi, aperto a chiunque sia interessato a questi temi quale che sia la sua residenza geografica. Gli esperti che parleranno sono totalmente coinvolti nello sport come allenatori, psicologi e dirigenti e suggerisco di non perdere questa opportunità.

La pandemia ha cambiato il lavoro con gli atleti

Stiamo giungendo al termine del secondo anno dall’inizio della pandemia. Il primo lockdown iniziò a marzo 2020, da quel momento il lavoro di consulenza è completamente cambiato e a tutt’oggi questo cambiamento continua essere stabile ed è diventato, almeno nella mia esperienza, il modo di lavorare.

Il lavoro in remoto o online è diventato, infatti, il modello dominante con cui interagire con atleti e allenatori. In precedenza questo tipo di esperienza l’avevo vissuta solo in relazione alle Olimpiadi di Rio dove non ero andato ma avevo mantenuto i contati con gli atleti tramite WhatsApp o Skype.

Attualmente, quindi, a distanza di 21 mesi da marzo 2020 il lavoro che svolgo è per l’80% online. Funziona: abbastanza bene. Permette di seguire atleti che non avrebbero potuto intraprendere un programma di mental coaching poiché risiedono in altre città.

Il limite principale riguarda la mancanza del rapporto in presenza, in special modo durante allenamenti e gare. Si vive sul resoconto di quanto è avvenuto e, inoltre, non partecipando alle gare non è possibile fare interventi nel momento in cui sarebbe necessario.

Mi sembra che sia questa la mancanza più grave, l’impossibilità di lavorare sul qui-ed-ora, poiché si può solo lavorare sul prima e sul dopo.

Risparmiano le Federazioni che riducono le spese di soggiorno e viaggi e compensi del professionista che fosse presente alle gare. E’ un modo un po’ cieco d’impostare un lavoro ma questo è ciò che avviene.

Si potrebbe dire molto di più e a questo riguardo sono all’INSEP di Parigi proprio a condividere le esperienze di questi anni con un gruppo di psicologi provenienti da tutto il mondo e per provare a capire cosa fare meglio in previsione dele prossime Olimpiadi di Parigi 2024 da cui ci separano poco più di 900 giorni.

Gli atleti hanno continuato a fornire prestazioni eccezionali anche se si sono allenati di meno e si sono riposati di più a causa del lockdown e della mancanza di eventi sportivi. Questo dovrebbe fare riflettere sul ruolo rilevante del recupero e del conseguente fatto che allenarsi di più non è sempre produttivo.

E poi quante volte la durata dell’allenamento di una seduta corrisponde realmente al tempo reale di allenamento?

Inoltre, è opinione condivisa dai colleghi europei, qui in Francia, che gli atleti abbiamo acquisito in questo periodo una migliore autoregolazione, consapevolezza e autonomia. Avendo dovuto gestire da soli dei lunghi periodi, in assenza dell’abituale rapporto con l’allenatore e lo staff. Hanno avuto più tempo per sviluppare competenze psicologiche, anche diverse da quelle più tradizionali come la meditazione e la gestione del sonno.

I pensieri vincenti di Thomas Tuchel

“Per alcuni giorni mi sono sentito diverso, mi sono sentito abbastanza bene!”. Ha detto Thomas Tuchel sulla vittoria del Chelsea in Champions League a maggio.

“Alla fine, niente è come vincere. Potete chiedere a me, ho raggiunto la finale con la mia squadra la stagione precedente e ho avuto la sensazione che fosse un grande risultato, ma non fare l’ultimo passo è una differenza enorme quando ti rendi conto di cosa significa quando lo fai. La percezione dall’esterno, la gioia, l’esperienza, la fiducia che la tua squadra ottiene vincendo.

“Ho sperimentato questo per la prima volta, forse nell’accademia, quando siamo stati in grado di vincere il titolo tedesco con l’Under-19 di Mainz, ero il capo allenatore. Avevamo la sensazione di essere qualificati per la semifinale e la finale era già un grande risultato, ma quando vinci e fai l’ultimo passo, non c’è niente in confronto. Cambia davvero qualcosa per tutti.

“La cosa più importante è non guardare indietro ma mantenere la sensazione e la fame. Quella sensazione alimenta e crea la fame di altro, crea dipendenza. Questo gioco consiste nel vincere, cambia completamente la tua sensazione e l’atmosfera di lavoro. Ti dà una fiducia spontanea, ma allo stesso tempo è assolutamente necessario dimenticare e ricominciare da zero per mostrare di nuovo questa fame e mentalità. Questo è ciò che sento ed esigo da me stesso e da tutti gli altri intorno, che non si cambi in termini di fame”.

“Non voglio entrare nella situazione in cui la paura di perdere è più grande della fame di vincere, quindi guardiamo troppo a ciò che abbiamo ottenuto e vogliamo proteggere ciò che abbiamo”.

Solo un miracolo farà migliorare i comportamenti degli allenatori!

Un tema poco indagato riguarda il processo di automiglioramento degli allenatori. Mentre nelle aziende è piuttosto usuale che giovani talenti piuttosto che manager affermati seguano un programma di miglioramento di se stessi i relazione alle loro capacità di leadership, questo valore non viene percepito dagli allenatori.

Anzi nelle aziende questo tipo di lavoro viene percepito dalle persone coinvolte come un benefit che l’azienda fornisce.

Nello sport questo non avviene sia nel caso si tratti di allenatori giovani che per quelli più affermati. E’ proprio una questione di mentalità e credo anche di arretratezza culturale e professionale. La filosofia dominante è: “Va bene così come sono”. A mio avviso la maggioranza degli allenatori non parteciperebbe neanche ai corsi di aggiornamento se non fossero obbligati dalla loro Federazione.

Bisognerebbe chiedere loro: “Cosa fate per migliorarvi quando siete in difficoltà con il vostro gruppo di lavoro?”. Molti a mio avviso ritengono che la competenza tecnica che hanno acquisito sia sufficiente per allenare bene o che i problemi sorgono con i giovani perchè sono loro a non essere motivati e attenti al lavoro che gli viene proposto.

Non ho visto in questi anni un miglioramento di mentalità degli allenatori, anzi la massiccia professionalizzazione tecnica a cui sono stati sottoposti è servita a nascondere questo problema, complice anche il disinteresse delle società sportive e delle federazioni verso questa tematica.

Speriamo in un miracolo.