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Il Giuoco del calcio fra i giovani

Quando si inizia a prendere a calci un pallone, in un campetto improvvisato o in una moderna struttura sportiva, all’inizio e prima di tutto il resto, c’è un gioco. Anzi, meglio, un “giuoco”, come recita ancora la dizione ufficiale dei regolamenti e il nome stesso della federazione sportiva di chi gioca a pallone: il “giuoco del calcio”.
E’ proprio questo il titolo di una trasmissione televisiva condotta da Giusi De Angelis che va in onda su Super 3, rete di Roma e del Lazio, il giovedì alle 21.30. “Il Giuoco del calcio” parla del mondo giovanile: scuole calcio, piccoli amici, pulcini, esordienti, allievi e juniores. “ Vuole fare conoscere un mondo ricco, vivace e in continua espansione nonostante i problemi e le difficoltà del calcio “dei grandi” di cui poco si parla. Il programma esamina il rapporto  tra bambini, scuole calcio e genitori, anche attraverso le opinioni e le esperienze di chi il calcio lo ha vissuto in prima persona. Ma anche il rapporto tra cultura e calcio, quando lo sport dà un messaggio culturale o diventa uno strumento di educazione sociale e civile. E poi il calcio dei bambini con le sue diff icoltà, il problema dei piccoli giocatori immigrati e il commercio di chi promette sogni che raramente si riescono a realizzare. Molto bella la trasmissione di ieri sera sulla Scuola Calcio di Scampia a Napoli e su quella di Torbellamonaca a Roma, aree a forte disagio sociale in cui queste due società sportive operano da anni per consentire ai bambini di vivere esperienze positive di convivenza attraverso il calcio. Sono esperienze che più di ogni altra parola ci fanno bene all’animo e trasmettono un messaggio concreto di speranza. Vai a: www.ilgiuocodelcalcio.it   www.arciuispscampia.it   www.fondazionecannavaroferrara.it/arci-scampia-25-anni-e-non-sentirli?lang=it

 

 

Il movimento nei bambini

Spesso i genitori sono preoccupati dello sviluppo motorio dei loro figli e non hanno informazioni su come interagire con loro negli anni che precedono la scuola elementare. Qui di seguito riporto un breve articolo che ho scritto su questo tema. Nei primi anni di vita un giovane deve imparare i movimenti di base e lo scopo dell’educazione motoria è di insegnare in modo divertente ai bambini e alle bambine a muoversi in modo efficace e efficiente, in un ambiente sicuro e con la consapevolezza di ciò che stanno facendo. Per la formazione del giovane il raggiungimento di questo risultato è tanto importante quanto l’acquisizione dell’alfabetizzazione linguistica e matematica.
Nello specifico dai tre ai sei anni i bambini devono acquisire le abilità motorie di base (ad esempio, piegarsi sulle gambe) che rappresentano il fondamento di tutta l’attività fisica e dalla cui combinazione nascono le principali competenze di ogni sport. Sono questi gli anni in cui vanno sviluppate le seguenti abilità: passo (andatura), piegamento sulle gambe, muoversi rapidamente in avanti, flessione, spingere, tirare, ruotare e fare una torsione. I movimenti complessi sono composti da questi differenti elementi di base e le azioni del bambino saranno adeguate se saprà integrare fra loro le diverse sequenze motorie. Ad esempio, saltare si basa sul movimento del piegarsi sulle gambe mentre nel lancio del frisbee a questo movimento si aggiungono lo spingere e la rotazione. In ogni gesto sportivo, anche nel più complesso, sono rintracciabili questi schemi motori di base. Pertanto, se un giovane non ha imparato a padroneggiarli con maestria, i suoi ulteriori apprendimenti motori potrebbero essere compromessi o ridotti.
Non è, però, solo questione d’insegnare in modo letterale i movimenti di base, poiché ogni forma di schematizzazione comporta una semplificazione eccessiva della realtà motoria e una riduzione delle esperienze di movimento. E’ quindi necessario fornire ai bambini l’opportunità di sperimentare il più ampio numero di comportamenti. Ad esempio, a partire dall’età di due anni si può già insegnare ad andare sui pattini in linea, in bicicletta o ad arrampicarsi se i genitori sono disposti a insegnare ai propri figli come fare. Questo dato evidenzia il ruolo decisivo che gli adulti, in questo caso i genitori, svolgono nel favorire o ostacolare lo sviluppo motorio, comprese le implicazioni psicologiche e sociali ad esso connesse. Bambini iperprotetti che ha tre anni non salgono da soli sull’altalena o camminano poco perché è più comodo portarli in passeggino o lasciarli a casa a guardare la televisione, sono esempi di come si può quotidianamente sviluppare una riduzione della motricità e sviluppare uno stile di vita sedentario.
Si può affermare che nel corso dello sviluppo il bambino è il principale artefice della costruzione dei propri processi conoscitivi siano essi tipicamente motori, cognitivo-affettivi o sociali. Alla base di questo percorso evolutivo vi sono alcuni fattori che, come ha identificato Piaget, costituiscono le cause dello sviluppo. Il primo si riferisce alla maturazione del sistema nervoso, necessario perché forme più avanzate di autonomia si affermino. Questo non è comunque l’unico fattore poiché l’esperienza acquisita e l’interazione sociale rappresentano due altri fattori di sviluppo altrettanto necessari. Nel primo caso ci si riferisce alle azioni e alle ripetizioni di azioni, agli esercizi che il bambino effettua autonomamente sulla realtà ambientale in cui vive e alla percezione di consapevolezza che ne deriva. In tal modo conosce le proprietà degli oggetti, ne fa esperienza, li pone in relazione con se stesso, arricchendo così la sua conoscenza del mondo e del modo di rapportarsi ad esso. Pensiamo ai diversi modi di salire e poi di scendere, ad esempio da un divano, che il bambino mette in atto attraverso un numero ampio di ripetizioni. Prova così gli schemi motori di base, ogni volta in modo diverso da quella precedente, li compone spontaneamente in sequenze differenti e attraverso la ripetizione giunge a sviluppare un’abilità motoria specifica. Questo processo di apprendimento può essere accelerato attraverso l’interazione sociale, che avviene essenzialmente per mezzo del linguaggio. A tale riguardo l’interazione con un adulto che osserva il bambino in questa sua azione sarà positiva se è volta a incoraggiarlo e a garantirgli lo svolgimento in un ambiente sicuro. Diventerà negativa e, pertanto, ostacolante l’esperienza se l’adulto interviene per inibire l’azione o per renderla troppo facilitata. Di conseguenza l’opportunità di fare esperienza e le interazioni sociali rappresentano il contesto al cui interno il bambino svolge le sue azioni. Il fattore causale decisivo per lo sviluppo è il fattore di equilibrio, che delinea un bambino attivo e non passivo, che si modifica attraverso il suo rapporto con l’ambiente. Questo fattore deve essere inteso come ottenimento di un equilibrio tra perturbazioni esterne e attività del bambino. Diventa così più evidente la ragione per cui l’ambiente fisico e sociale rappresentano degli scenari in cui esercitare le proprie azioni. L’equilibrio e il conseguente adattamento si raggiungono attraverso i processi di assimilazione e accomodamento. L’assimilazione consiste nel fare propri gli elementi di novità che vanno ad arricchire gli schemi motori e mentali, così facendo vengono incorporati i dati dell’esperienza in funzione delle strutture interne già esistenti. L’accomodamento, invece, è il processo per mezzo del quale le strutture interne vengono cambiate dalle esperienze esterne, consentendo ai processi di sviluppo del bambino non tanto di arricchirsi di nuovi elementi ma di svilupparsi a livelli evolutivi superiori. Pertanto, l’assimilazione è un processo di conservazione e arricchimento delle competenze mentre l’accomodamento rappresenta una novità nel processo di sviluppo.
In conclusione, l’evoluzione motoria del bambino avviene attraverso un migliore adattamento all’ambiente. Il bambino evolve a partire dai movimenti primari attraverso la maturazione del sistema nervoso, l’esperienza e l’interazione sociale che costituiscono il terreno su cui interviene il fattore di equilibrio. Questo fattore consente al bambino di agire sull’ambiente attraverso le competenze motorie e psicologiche che possiede ma nel contempo queste stesse vengono modificate in funzione delle situazioni.

Infortuni alle ginocchia nei bambini

Negli USA sono in aumento nei bambini gli infortuni al legamento crociato anteriore, che svolge la funzione di stabilizzare i movimenti del ginocchio, patologia che di solito non colpisce questa fascia di età. Gli effetti sono gravi e studi condotti su calciatori svedesi adulti dimostrano che 12/14 anni dopo l’infortunio il 51% delle donne e il 41% degli uomini sviluppano gravi forme di artrite alle ginocchia (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/21330645). Altri, più giovani, non sono in grado di tornare a giocare (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/213306459). Ciò avviene probabilmente perché i bambini si allenano per troppe ore con sistemi che non sono adatti alla loro età e perché lo sport è cambiato notevolmente tanto che vi sono squadre di giovani calciatori di 5 anni. La soluzione è di incoraggiare i bambini ma soprattutto convincere i genitori a fare praticare più sport diversi durante l’anno e seguire programmi adeguati alla età dei loro figli.

Specializzazione e sport giovanile

Questa è la fase dell’anno in cui i genitori si chiedono quale sport scegliere per i propri figli. Voglio dire in modo diretto che questa è un domanda sbagliata poichè dovrebbero svolgere un’attività multisportiva. Infatti, la specializzazione è errata per almeno due valide ragioni. Sport diversi permettono di sviluppare quelle abilità che una singola disciplina esclude, ma che sono necessarie per lo sviluppo globale e equilibrato dei giovani. Inoltre restringendo la scelta solo a uno sport, il bambino che ha invece bisogno di varietà e di affrontare situazioni nuove rischia di annoiarsi e di abbandonare lo sport scelto magari per un altro che gli sembra più divertente.
Certamente è molto difficile nel nostro paese trovare organizzazioni sportive che praticano la multisportività ma bisogna almeno essere consapevoli che ciò che si sta facendo non corrisponde a quello che realmente servirebbe e cioè divertirsi e imparare facendo sport diversi e questo almeno sino a 12 anni. Per un approfondimento su questo tema l’articolo di oggi sulla Repubblica Salute in cui riporto queste stesse idee, sostenute anche dal parere del medico sportivo: http://www.repubblica.it/salute/interattivi/2011/10/11/news/bimbi_e_sport_guida_alla_scelta_giusta-23038702/

L’attività fisica nei primi anni di vita

Sulla Repubblica di oggi vi è un interessante articolo di Vera Schiavazzi sull’obesità dei bambini italiani, i più grassi d’Europa insieme ai ciprioti. E’ utile ricordare che sono i genitori i primi educatori dei propri figli al movimento sino dal momento in cui cominciano a gattonare. Non basta un’alimentazione adeguata: bisogna lasciarli muovere liberamente, insegnando come non farsi male. Due esempi. I bambini anche con meno di un anno amano salire e scendere da divani, sedie e letti. Può essere pericoloso se cadono di testa, bisogna quindi spendere del tempo nell’insegnare loro che non si scende di testa ma che bisogna girarsi e scendere con le gambe. Il genitore che prova questa esperienza vedrà la propria figlia fare questo gioco per minuti e minuti. Secondo: si può insegnare a andare in bici (su due ruote) e sui pattini in linea sin dall’età di due anni, l’unico problema può essere rappresentato dal mal di schiena del genitore mentre per il bambino questa attività sarà eccitante e divertente. Sono solo due dei tanti  modi per insegnare a muoversi in sicurezza, naturalmente il sabato o la domenica bisogna poi portarli per ore al parco e stare con loro. Chiunque lo può fare basta volerlo.

Educare in mezzo alla natura

Il tema dello sviluppo del bambino attraverso la vita all’aria aperta, la conoscenza della natura e di come viverla è trattato nel nuovo libro “A piedi nudi nel parco” di Anna Oliverio Ferraris e Albertina Oliverio. Fa piacere che anche il mondo accademico ponga questo tema al centro dell’attenzione e che non sia demandato solo a chi si occupa di psicologia dello sport. Se si riuscisse a creare anche da noi un movimento di opinione a favore del recupero della intelligenza motoria e del suo sviluppo non solo attraverso lo sport ma grazie a un più frequente contatto con la natura, si potrebbe orientare la politica delle organizzazioni sportive di ogni tipo (dalle federazioni sportive a quelle dello sport per tutti) a valorizzare e fare praticare questo tipo di esperienza. Anche per i genitori dei bambini una vita più all’aria aperta sarebbe certamente un valore positivo da aggiungere alla loro esistenza. Oltretutto lo stare su un prato è ancora gratuito.

Tifo e ragione: Una guerra senza fine

Voglio riprendere quanto espresso da Gramellini nel suo articolo di oggi sulla Stampa a proposito dell’irrazionalità del tifoso. Ebbene diciamo intanto che è tifoso chi è un accanito sostenitore di una squadra verso cui dimostra entusiastica ammirazione. Quindi la sua fedeltà trascende ogni altra considerazione oggettiva. Per questo motivo   il tifo viene spesso associato all’entusiasmo dei bambini e il tradire questa fiducia come un insulto al bambino che c’è in noi. Mi sembra invece più corretto pensare che l’ammirazione del tifoso sia una forma irrazionale di pensare, che per essere tale determina un’estrema semplificazione del modo di ragionare e porta a distinguere solo due categorie: il bene (la squadra) e il male (gli altri); questo modo di pensare non ha nulla a che fare con il ragionamento infantile che è molto più complesso e in costante sviluppo. Al tifoso piace pensare che la delusione potrebbe comportare la rottura definitiva del suo essere bambino perchè così ha un motivo in più per difendersi da questa eventualità; lo fa incrementando questa sua credenza e continuando così a vivere in questo eccesso emotivo. Se pensasse che è lui come adulto che attribuisce valore a qualcosa che ora non ce l’ha più (perchè la squadra gioca male o le partite sono truccate) dovrebbe affrontare un processo di analisi razionale che lo porterebbe fuori da questo pensiero magico che è il tifo.

L’abbandono dei bambini dello sport

I bambini abbandonano l’attività sportiva principalmente perchè non si divertono e non gli viene fornito abbastanza tempo per giocare. Non si divertono perchè gli allenamenti sono noiosi, non gli si permette loro di sbagliare, c’è troppa enfasi sul risultato e meno sull’impegno, i genitori pensano di avere un campione in casa, gli allenatori hanno poche competenze psicologiche, fanno giocare solo i migliori. Gli allenatori dovrebbero osservare di più cosa fanno i bambini quando giocano fra di loro e, soprattutto, guardarli in faccia per capire cosa stanno facendo quando si divertono e quando si invece si annoiano.