Archivio mensile per marzo, 2023

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Lo sport è sociale

L’intervento iniziale di @TizianoPesce presidente della UISP di cui ha aperto oggi l’assemblea congressuale:

“La riforma dello sport deve arrivare a riconoscere il valore sociale dello sport, per questo parliamo di transizione, crediamo fortemente che lo sport sia un veicolo importante”.

Il bello di questa affermazione è che vale per tutte le categorie di persone che svolgono dalla semplice attività motoria per puro piacere personale, a chi si serve dello sport come strumento riabilitativo, ai giovani atleti adolescenti a qualsiasi livello competano ma anche agli atleti e le atlete professionisti/e.

Lo sport ancora una volta è per tutti perchè il benessere e la salute mentale di tutti è un valore sociale che riguarda Messi e De Maria come chi è lontano da questi livelli assoluti ma gli piace uscire a camminare.

Su questa base, la ricerca del benessere, siamo tutti uguali e il valore attribuito alla propria comunità di appartenenza non conosce distinzioni.

E’ un bene prezioso non solo difendiamolo ma allarghiamolo.

I giovani vivono poco all’aria aperta

Spesso i paesi del Nord-Europa mi colpiscono per le domande semplici e dirette che pongono, nonché per le soluzioni che trovano. Da tempo in Gran Bretagna si sono posti la domanda: Quanto spesso i tuoi bambini giocano all’aria aperta? Più o meno di quando eri bambino? Le tua paure di sicurezza ti fanno tenere i tuoi figli in casa? I tagli del governo hanno ridotto le opportunità di fare sport vicino a casa?

Insomma ci si pone il problema della necessità di aumentare il tempo in cui i giovani passano all’aria aperta e in ambiente naturale perché lo si considera  come necessario al loro benessere e  allo sviluppo dell’autonomia personale. Pertanto si auspica che gli adulti siano sempre più consapevoli di questa necessità e agiscano di conseguenza.

Noi stiamo ancora discutendo da anni se aumentare le ore di educazione a scuola senza giungere a una soluzione, quando le avremo inserite … forse qualcuno si porrà questa ulteriore domanda e cioè che bisogna fare qualcosa in più poiché non sono sufficienti … a questo punto passeranno altri anni e, forse, ne usufruiranno i nostri nipoti … quelli che nel frattempo non sono andati a vivere in un altro paese.

Intanto segui in Gran Bretagna: https://loveoutdoorlearning.com/

La particolarità del rapporto allenatore-atleta in Italia

Nel nostro paese vi è ancora una concezione artigianale dello sport di alto livello in particolare modo negli sport individuali. Nella maggior parte dei casi lo sviluppo e l’affermazione di un atleta si basa su una profonda relazione di collaborazione con il suo allenatore. Non è raro che l’allenatore sia il marito dell’atleta o il genitore (padre/madre). E’ evidente che questo sistema è soggetto a tutte quelle interferenze che sono tipiche dei rapporti di coppia.

Le componenti psicologiche di ognuno hanno in queste relazioni una rilevanza incredibile, perchè l’allenamento consiste nel costruire situazioni con livelli di stress predeterminati che l’atleta deve affrontare con successo così da permettere un miglioramento delle sue prestazioni di gara.

In questo contesto, gli allenatori hanno un ridotto scambio di idee e di confronto professionale con gli altri colleghi e l’uso delle innovazioni prodotte dalle scienze dello sport dipende solo dalla loro curiosità e dal desiderio di aggiornarsi.

Il limite di questo approccio non consiste solo nel limitato uso dei contributi della scienza da parte degli allenatori ma anche della difficoltà dei ricercatori di ascoltare e comprendere quali sono le esigenze e le richieste degli allenatori. In altre parole, vi è necessità da parte dei ricercatori e degli allenatori di parlare di più insieme, di condividere idee, di criticarsi reciprocamente in modo costruttivo e di costruire piani di lavoro basati sulla collaborazione.

Quanto è difficile essere competitivi

“Portare a termine qualcosa di difficile. Padroneggiare, manipolare o organizzare oggetti fisici, esseri umani o idee. Farlo il più rapidamente e autonomamente possibile. Andare oltre gli ostacoli e mantenere elevati standard. Eccellere per se stessi. Rivaleggiare e superare gli altri. Incrementare la consapevolezza attraverso l’osservazione delle proprie esperienze di successo frutto del proprio talento.”

L’ha scritto H.A. Murray nel 1938.

Queste parole le dedico ai giovani atleti che in Italia negli sport di squadra giocano poco per via degli stranieri.

Negli sport individuali certamente possono gareggiare, poiché nessuno gli può togliere il posto di squadra, talvolta si allenano da soli o da sole, nel migliore dei casi con allenatori e allenatrici altrettanto volenterosi ma soli anch’essi.

Auguri e che la vostra tenacia e dedizione vi siano sempre amiche.

Allenare emotivamente i giovani

Simeone, l’allenatore dell’Atletico Madrid, dopo la finale di Champions League persa dichiarò che “si può vincere perdendo se dai tutto te stesso”. E’ un concetto chiave per lo sviluppo di un atleta e dovrebbe venire insegnato sino dal primo giorno che un bambino o una bambina entrano su un campo da gioco. Al contrario si vedono giovani che appena commettono un errore si arrabbiano con se stessi o si deprimono. Sappiamo che ciò succede per la congiunzione di motivi diversi:

  • i genitori spesso non riconoscono il valore dell’impegno e pensano che conti solo vincere, pertanto si arrabbiano con i figli per gli errori commessi e vorrebbero sostituirsi all’allenatore per dargli indicazioni tecniche,
  • gli allenatori sono più concentrati a insegnare la tecnica e non allenano emotivamente gli atleti,
  • i giovani stessi non sono capaci a esprimere le loro emozioni in modo costruttivo e mancano di auto-controllo.

E così si vedono giovani tennisti che sbattono la racchetta a terra dopo un errore alternando stati d’animo di rabbia e depressione contro di sé o in altri sport commesso un errore ne conseguono quasi rapidamente altri, perché negli atleti domina la frustrazione dovuta dal primo sbaglio.  Per cambiare questo modo di vivere le sconfitte e gli errori servono genitori e allenatori più consapevoli che il loro ruolo prevede anche l’insegnamento dell’auto-controllo, lavorando con i propri figli e atleti per modificare questi comportamenti distruttivi. Non bisogna di certo imporre le nostre soluzioni di adulti ai loro problemi. Bisogna ascoltare in modo empatico e non per giudicare, così che i giovani si sentano sostenuti e rispettati nei loro stati d’animo. Solo dopo questa fase si dovrebbe iniziare a parlare di cosa si potrebbe fare di diverso, dando tempo ai ragazzi di esprimere le loro idee e a noi di stimolare la loro consapevolezza nei riguardi del loro modo di agire e d’identificare le possibili soluzioni. Agire in questo modo richiede tempo e spesso è per questa ragione che gli adulti non seguono questa strada. Bisogna però essere consapevoli che se spesso si rinuncia a intervenire, i giovani cominceranno a pensare che le loro reazioni non interessano a genitori e allenatori e, peggio ancora, continueranno a comportarsi con se stessi in modo negativo. Se vogliamo che i nostri ragazzi sviluppino l’abilità di gestire con efficacia e soddisfazione i loro stress quotidiani dobbiamo spendere del tempo a insegnare loro come comportarsi, sentire e pensare in quei momenti.

Il ruolo degli allenatori

Da quanto scritto nel blog precedente emerge con evidenza il ruolo decisivo svolto da chi guida i gruppi nel costruire un clima di lavoro utile a sostenere la motivazione e nel fornire rinforzi adeguati al soddisfacimento delle esigenze personali. A scuola, gli insegnanti che manifestano con frequenza comportamenti controllanti tendono a costruire in classe un clima controllante, che riduce la motivazione intrinseca. Sono sufficienti poche settimane per determinare questo tipo di effetti, che a loro volta hanno influenza sulla percezione di competenza degli studenti. Pertanto, i rinforzi estrinseci possono svolgere una funzione ostacolante o favorente la motivazione intrinseca a seconda che vengano forniti in un clima controllante o incoraggiante l’autonomia personale. Se si vuole che i giovani, compresi gli atleti, non solo seguano le regole proposte dai loro insegnanti ma le integrino attivamente nei loro sistemi di credenze personali è necessario che l’ambiente nel quale svolgono le loro attività sia orientato allo sviluppo della competenza e dell’autonomia personale. Gli allenatori dovrebbero organizzare attività che sollecitano l’interesse dei loro atleti, riducendo la frequenza di quei feedback che stimolano i giovani a coinvolgersi solo per dovere, per gli effetti positivi che ne deriveranno o per soddisfare le ambizioni dell’allenatore o dei genitori.

Purtroppo le esperienze negative nel mondo dello sport non sono così infrequenti. Diventa importante capire in che modo il contesto sociale e interpersonale possa favorire l’insorgere di questo tipo di esperienze. Anche in questo caso, la teoria dell’autodeterminazione permette di spiegare “non solo la crescita e il benessere ma in modo uguale gli effetti distruttivi, alienanti e patogenetici del bisogno di ostacolare…” … Infatti, la deprivazione del soddisfacimento dei bisogni primari di competenza, autonomia e vicinanza agli altri può condurre a scelte spesso di tipo difensivo e auto-protettivo, favorendo l’insorgenza di disturbi emotivi e la riduzione del benessere personale. Ciò porterebbe al prevalere di una motivazione controllante e a comportamenti rigidi che a loro volta ostacolano il bisogno di soddisfazione, favorendo i processi di regolazione estrinseca (comportamenti motivati dalla paura e dai premi) e introiezione (comportamenti motivati dal senso di colpa e dal sentirsi obbligati). Bassi livelli di soddisfazione non devono però essere confusi con la percezione dell’atleta di sentirsi ostacolato nella sua attività. Un atleta può sentirsi insoddisfatto perché si percepisce poco competente a fornire le prestazioni che si aspetta, nonostante si sia impegnato al massimo per raggiungere questo obiettivo. Diversa è la condizione di un atleta che attribuisce questa sua difficoltà a ostacoli dovuti al comportamento del suo allenatore, che percepisce come orientato in modo insufficiente a farlo migliorare. La prima è una situazione d’insoddisfazione mentre la seconda è una situazione in cui l’atleta è stato ostacolato nel raggiungimento del bisogno di competenza … essere insoddisfatti significa che qualcosa non è andato bene come avrebbe dovuto mentre ostacolare significa impedire che qualcosa accada. Pertanto, sentirsi ostacolati consiste in una condizione emotiva in cui la persona si sente oppressa, inadeguata, rifiutata o frustrata in un determinato contesto.

Gli atleti di livello assoluto hanno bisogno, come gli altri, di un sostegno costruttivo da parte del loro allenatore o del commissario tecnico. Proprio un CT di una squadra nazionale una volta mi ha detto:

“Vedi Alberto, lui durante la gara, ogni tanto mi cerca con lo sguardo e io sono lì a fargli un cenno con la testa o un gesto che gli ricorda cosa fare, lui poi continua da solo e vedo che va bene”. 

Altri atleti, invece, dicono:

“Quando ti serve non ci sta mai, lo cerchi con lo sguardo e lo vedi al telefono o che parla con qualcuno…”.

Queste due esperienze opposte dimostrano come sia semplice per un allenatore assumere un comportamento che sostiene il bisogno di competenza e di vicinanza oppure che lo ostacola. Gli atleti di livello assoluto riconoscono il ruolo centrale del loro allenatore, attribuendogli non solo le competenze nell’organizzare e condurre allenamenti eccellenti ma ne sottolineano in ugual misura il ruolo motivazionale … Questo atteggiamento costruttivo è stato ben descritto da Adrian Moorhouse quando parla del suo allenatore:

“Credeva nel mio potenziale, lavorava sulle mie credenze, mi aiutava a stabilire obiettivi che mi sfidavano, m’incoraggiava e sosteneva, valutava le mie prestazioni, creava l’ambiente, mi aiutava ad assumere le responsabilità. L’unica cosa che non ha fatto … è nuotare le gare per me”.

(Da Alberto Cei, Fondamenti di psicologia dello sport, 2021)

Combattiamo contro gli stereotipi sui giovani

Spesso ai ragazzi/e non insegnamo a pensare. Sento spesso allenatori che continuano con quelle frasi che dicevano anche a me 50 anni fa.

  1. “Con l’esperienza s’impara”
  2. “Basta che lo fai una volta e poi ti viene”
  3. “Gli basterebbe vincere una volta e poi si sbloccherebbe”
  4. “Anch’io alla tua età ero così”
  5. “Hai solo 16 anni … non possiamo pretendere che …”
  6. “E’ l’età sono presi dagli ormoni”
  7. “Non pensa (Non ascolta), sono tutti uguali”
  8. “Troppo impaziente (Troppo addormentato)”
  9. “Calma (Sveglia)”
  10. “Speriamo maturi”
Impariamo invece dall’allenatore di Rod Laver, leggenda del tennis, come si può insegnare a essere più competitivi.
Hollis credeva che queste fossero le caratteristiche dei buoni tennisti: “cuore, cervello e spirito combattivo”. Condivideva con Rod storie di grandi giocatori per illustrare il significato di queste caratteristiche. In ogni occasione Hollis ha ribadito i vantaggi che si ottengono inseguendo ogni palla, rimanendo positivi, apprezzando la sfida di lavorare sodo, non arrendendosi mai e imparando dalle sconfitte. Hollis ha inculcato a Rod che, quando le cose non andavano come voleva, doveva impegnarsi e giocare ancora più intensamente. È importante sottolineare che non si trattava necessariamente di vincere, ma anche di imparare. Aiutato dall’approccio olistico del suo allenatore all’insegnamento del gioco, Rod ha capito che “il tennis è un gioco mentale quanto fisico”. (Janet A. Young, Pearls of Wisdom from Rod Laver)