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Ian Thorpe e la depressione dei campioni

Ian Thorpe, 30 anni, uno dei più grandi nuotatori di tutti i tempi, ha scritto nella sua autobiografia di essere stato depresso, ma di non averne mai parlato apertamente. “Nemmeno la mia famiglia è consapevole del fatto che ho speso un sacco della mia vita combattendo quello che posso solo descrivere come una depressione paralizzante”.   Thorpe, 30 anni,  ha detto di aver cercato di essere perfetto … Dopo le Olimpiadi di Sydney e durante la preparazione per Atene, Thorpe decise di ottenere risposte e “visitò clandestinamente” un medico, da cui ha ottenuto “una mano”, servendosi anche di farmaci. “Ho anche usato l’alcol come un mezzo per liberare la testa di pensieri terribili, come un modo di gestire i miei stati d’animo – ma l’ho fatto a porte chiuse, pensando così come molti depressi di combattere i propri demoni, prima che di rendersi conto che non possono fare a meno di aiuto “. “Ci sono state numerose occasioni, in particolare tra il 2002 e il 2004, mentre mi allenavo per difendere i miei titoli olimpici ad Atene, che ho abusato di me in questo modo -. Sempre solo e in una nebbia di vergogna”.
Viviamo nel periodo in cui la depressione è il disturbo mentale più diffuso. Depressione che è stimolata dalla percezione di non controllare più la vita e dalla convinzione che nessuno ci possa aiutare. Ne soffrono anche i campioni e non solo le persone che si sentono disperate perché vivono la loro vita come un fallimento o un tentativo fallito di realizzare i propri sogni. I campioni possono venirne intrappolati in quanto sono alla ricerca della perfezione che non si potrà mai raggiungere e dalla necessità di ripetere i loro successi, in un ambiente che li considera eroi solo se continuano a vincere altrimenti con la stessa facilità diventano qualcosa da eliminare. La caducità del successo, nonostante la fama e il riscontro economico, può distruggere delle vite se chi vive questa condizione non elabora dei modi per uscirne vivo e felice. Non tutti vogliono imparare, non tutti vivono in un ambiente che li mette in guardia e li sostiene, e così si diventa depressi. Anche perché se mai provassero a parlare, troverebbero molti amici pronti a dirgli che loro hanno avuto tutto e non possono lamentarsi.

A lezione da Thorpe e Woods

Credo che Thorpe e Woods vadano seguiti e ammirati per ciò che fanno. Non parlo dei risultati sportivi ma della volontà di volere provare a se stessi che si può, cosa? Il primo che dopo essersi ritirato può nuovamente raggiungere altissimi livelli e il secondo che non è finito, nonostante sia intorno alla 50° posizione nel ranking. E’ possibile che vi siano anche risvolti economici alla base di quetse scelte, ma non sono di certo sufficienti a mettere nuovamente la propria faccia, sapendo di rischiare di non farcela. Questo per me è il punto fondamentale, l’accettazione del rischio, probabilmente questa è anche la caratteristica dei fuoriclasse, accettare gli errori e le disfatte ma essere lì con tutto se stessi nel volerci riuscire. Noi lo faremmo?