La preparazione psicologica nella pallavolo: era il 1984

 ”Le atlete devono avere la testa calma. E’ questo il vostro obiettivo”. Bu Quinxia, cinese, allenatore della nazionale juniores di pallavolo, non ha fatto altre raccomandazioni alla équipe di psicologi che sta seguendo da tempo campionato e manifestazioni internazionali. Il volley è uno sport di “situazione”, che richiede rapidissimi adattamenti al mutare del gioco. Uno sport che crea continue tensioni. “Giocare a pallavolo – dice Pittera, coordinatore delle nazionali – è come fare una partita a scacchi a 120 chilometri l’ ora”. Nel calcio è più facile respirare. In parte si spiega così il massiccio intervento degli psicologi. “Bisogna però chiarire il nostro ruolo – dice Alberto Cei – noi non abbiamo lavorato sulla patologia dell’ atleta. Nessuno stava male… Nella formazione di un gruppo squadra il controllo emotivo, la concentrazione sono fondamentali e vanno seguiti. Risultati? “Ottimi a livello agonistico, ma ovviamente il merito non è nostro. L’ Italia è arrivata seconda agli europei juniores dietro l’ Urss, ma soltanto per differenza set. Le due “under 17″ hanno vinto importanti tornei internazionali. A noi comunque interessa approfondire un altro discorso: l’ introduzione di tecniche di rilassamento subito prima della partita ha avuto ottimi effetti. E’ un lavoro lungo; questi atleti vanno seguiti fino alla Nazionale. Crescono giocando a pallavolo”. Un metodo quasi russo… “Forse sì, se il nostro lavoro significa seguire passo passo l’ evoluzione di un ragazzo. Ci sono ad esempio, com’ è chiaro, differenze fondamentali tra uomini e donne. I maschi partono già più motivati al successo sportivo. Le ragazze sono più attente invece ai rapporti interpersonali. Parlano di più tra di loro, si difendono da un ambiente che è ancora troppo maschile: hanno certamente più difficoltà a sentirsi brave”. E gli allenatori? “Gli allenatori – dice Davide Ceridono – ci hanno accolto bene. E’ ormai scomparsa la figura del tecnico unico responsabile della conduzione. Anche tra di loro tendono a completarsi a vicenda. Senza considerare che spesso la comunicazione non passa attraverso le parole. Bu Quinxia saprà in tutto trenta parole d’ italiano”. In generale è possibile parlare di disagio per certi atleti? “Si tratta di atleti che hanno molte gratificazioni. A parte quelle finanziarie, sono spesso piccoli eroi di provincia, girano il mondo a vent’ anni”. Come si potrebbe riassumere il vostro intervento? “Sono quattro gli obiettivi: 1) controllo emotivo, 2) concentrazione; 3) recupero dell’ energia; 4) intervento sul gruppo. Necessario sottolineare l’ importanza della coesione: la squadra è fatta da sei che giocano e quattro che stanno in panchina. Motivare anche chi resta fuori non è facile. Specialmente se si giocano trenta incontri internazionali in quattro mesi. Del resto anche Liedholm disse una volta che Superchi aveva avuto grandi meriti nello scudetto della Roma. Eppure Superchi non era mai entrato”. Ceridono e Cei hanno anche compiuto, insieme al prof. Scilligo, Chiara Bergerone e Franca Formica, una ricerca sulle “relazioni tra processi intrapsichici e interpersonali e prestazione sportiva”. Sono stati studiati i comportamenti di 255 atleti, appartenenti a 30 squadre di A/1 e A/2. I risultati sono interessanti. “I giocatori di alta classifica – ad esempio – hanno dimostrato una notevole capacità di proteggersi, di curare i propri interessi, di raccogliere informazioni ed esaminare realisticamente se stessi. In loro è stato individuato un minor grado di trascuratezza e rifiuto di sè. La stessa visione della vita viene fuori dai rapporti con la squadra. Nei loro confronti essa si pone in modo liberale, accogliente, premuroso e direttivo”. Al contrario, i giocatori di bassa e media classifica percepiscono nella maggior parte dei casi la squadra come punitiva, ostile o assente”. Un dubbio: e se fossero i risultati a influenzare tali comportamenti? “In parte è così: cambia però la reazione davanti alla sconfitta. Non si è mai primi per caso”.

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