Lavorare con gli atleti di oggi è più difficile

Lavorare con gli atleti oggi è più difficile rispetto al passato per diverse ragioni, che riflettono i cambiamenti sociali, tecnologici e culturali che hanno trasformato il mondo dello sport. Ecco alcuni dei principali fattori:

1. Pressione mediatica e dei social media

Gli atleti sono esposti a una visibilità e una pressione mediatica senza precedenti. I social media creano un flusso continuo di opinioni, critiche e aspettative da parte del pubblico, dei tifosi e dei media. Questo può generare un forte stress mentale, richiedendo ai professionisti che lavorano con gli atleti (come allenatori, psicologi sportivi, o manager) di affrontare nuove sfide legate alla gestione dell’immagine pubblica e del benessere mentale.

2. Aspettative elevate e specializzazione precoce

Oggi ci si aspetta che gli atleti raggiungano l’eccellenza fin da giovani, con un’enfasi crescente sulla specializzazione precoce in uno sport specifico. Questo ha aumentato il rischio di burnout e infortuni, e i preparatori devono trovare un equilibrio tra il miglioramento delle prestazioni e la protezione della salute a lungo termine degli atleti.

3. Tecnologia e dati

L’uso della tecnologia avanzata, come i dati biometrici, l’analisi video e le app di monitoraggio delle prestazioni, ha reso il lavoro più complesso. Gli allenatori e i preparatori devono essere in grado di interpretare e utilizzare enormi quantità di dati, non solo per migliorare le prestazioni fisiche, ma anche per prevenire infortuni e personalizzare i programmi di allenamento.

4. Diversità culturale e globale

Gli sport sono diventati sempre più globali, e questo significa che i professionisti devono essere in grado di lavorare con atleti di culture diverse. La sensibilità culturale e la capacità di adattarsi a differenti contesti sono competenze essenziali. Inoltre, le lingue e le barriere culturali possono creare ulteriori sfide comunicative.

5. Salute mentale e benessere

La salute mentale è diventata un tema centrale nel mondo dello sport. Gli atleti non sono più solo visti come “macchine da prestazione”, ma come individui con bisogni psicologici ed emotivi complessi. Allenatori e staff devono essere in grado di riconoscere e affrontare questioni come l’ansia, la depressione e altre problematiche mentali che possono influire sul rendimento e sulla vita personale.

6. Regolamentazione e conformità

Le normative antidoping e le politiche sul fair play sono diventate più rigide. Chi lavora con gli atleti deve essere molto attento a queste regole, con il rischio di sanzioni severe in caso di violazioni. Questa maggiore sorveglianza implica una responsabilità aggiuntiva per chi supporta l’atleta, come medici sportivi e nutrizionisti.

7. Comunicazione e trasparenza

Oggi, atleti e staff comunicano più frequentemente e in modo più trasparente con il pubblico. Questo richiede ai professionisti che lavorano con gli atleti di essere non solo tecnicamente competenti, ma anche abili nel gestire la comunicazione e nel mantenere relazioni professionali in un contesto in cui tutto può essere reso pubblico.

8. Aspettative economiche

I guadagni e gli interessi economici attorno agli atleti sono aumentati in modo significativo. Sponsorizzazioni, diritti televisivi e premi fanno sì che gli atleti siano considerati veri e propri brand. Il lavoro con gli atleti richiede una gestione oculata delle loro carriere non solo dal punto di vista sportivo, ma anche economico e contrattuale.

In sintesi, lavorare con gli atleti oggi richiede una gamma molto più ampia di competenze rispetto al passato, in quanto bisogna affrontare aspetti che vanno oltre la sola performance fisica, comprendendo la tecnologia, la salute mentale, la gestione della pressione mediatica e l’integrazione di strategie economiche.

Sport migliora economia e salute

Lo sport e la pratica sportiva come fenomeno virtuoso, in grado di innescare benefici economici e sociali su larga scala per l’intero Paese a partire da maggiore produttività, occupazione e benessere. Un aumento continuativo della pratica sportiva del 10% della popolazione comporterebbe, nel medio-lungo termine, un incremento di produttività annua vicina all’1,7%, pari a quasi 34 miliardi in più sul Pil e circa 81 mila occupati in più all’anno. La crescita della pratica sportiva consentirebbe inoltre di avere una popolazione più sana in termini di benessere fisico e mentale, riducendo dell’1,6% la spesa sanitaria.

Queste alcune anticipazioni del report di Deloitte “Lo Sport: settore chiave per lo sviluppo sociale, educativo ed economico del Paese”.L’effetto moltiplicatore dei benefici derivanti dallo sport e dalla pratica sportiva rappresentano una vera e propria ricchezza per il nostro Paese – dichiara Fabio Pompei, CEO di Deloitte Italia – Alla luce di questo è fondamentale approcciarsi allo sport in una logica sempre più strategica a livello nazionale, puntando sulla collaborazione tra pubblico e privato e definendo gli elementi chiave di sviluppo, dalle politiche sociali al tema delle infrastrutture, dalle nuove competenze alla programmazione degli eventi sportivi. Soltanto percorrendo questa strada sarà possibile massimizzare l’impatto positivo dello sport su scala nazionale, garantendo al nostro Paese maggiore produttività e benessere”.

Il percepito dei cittadini italiani: lo sport come fattore chiave nel percorso educativo
Nella vita quotidiana dei cittadini lo sport è un fenomeno centrale e profondamente radicato, come emerge dall’analisi demoscopica parte dello studio Deloitte e sviluppata su un campione di oltre 3.000 intervistati in 5 Paesi (Italia, Spagna, Germania, Francia e Regno Unito).

Lo sport è ritenuto (dal 96% degli italiani, rispetto al 90% in media negli altri Paesi UE) un elemento fondamentale nell’educazione e per più di 1 italiano su 2 (54%) è importante tanto quanto la scuola. L’Italia, però, secondo gli intervistati è il Paese in cui la scuola meno incentiva i giovani nel proprio percorso sportivo: per il 62% la scuola non fa abbastanza o addirittura penalizza bambini e giovani che intraprendono percorsi sportivi agonistici, rispetto al 45,5% in media negli altri Paesi.
Gli italiani hanno un profondo legame emotivo con lo sport (sono i più interessati agli eventi sportivi, con un 75% rispetto al 69% della media negli altri Paesi) e non solo percepiscono gli eventi sportivi come un fattore di crescita (70% degli italiani rispetto al 59% della media continentale), ma ritengono anche che il nostro Paese sia in grado di organizzare eventi sportivi internazionali con un impatto positivo (57%). In relazione a questo aspetto, i Giochi Olimpici e Paralimpici di Milano Cortina 2026 rappresentano un’opportunità da capitalizzare e per 3 italiani su 4 lasceranno in eredità un impatto positivo sul Paese.

 L’impatto economico e sociale dell’aumento della pratica sportiva
Aumentare la pratica sportiva del 10% consentirebbe di avere una popolazione più sana in termini di benessere fisico (-3,3% persone in sovrappeso, -1,9% persone con patologie cardiovascolari e -1,6% con patologie muscolo-scheletriche) e benessere mentale (+1,1% indice di salute mentale, +6,4% di soddisfazione per la propria vita). Inoltre, migliorerebbe il benessere sociale (+9,9% soddisfazione per le relazioni sociali), intervenendo a contrasto delle devianze (cattive abitudini e dipendenze: -5% fumo e -4,9% alcol) e della criminalità (-5,2% tasso di criminalità), soprattutto tra i giovani.

Idee da insegnare ai giovani atleti

Di seguito 4 capisaldi del pensiero sportivo da insegnare ai giovani atleti.

  1. “Vincere non è l’unica cosa che conta”
    L’idea qui è che lo sport offre molto di più rispetto alla semplice vittoria. Chi partecipa solo per vincere rischia di perdere di vista altri aspetti importanti, come il miglioramento personale, la crescita interiore, la disciplina, la capacità di superare le sfide e lo spirito di squadra. Se ci si concentra unicamente sulla vittoria, il rischio è quello di essere sopraffatti dalla pressione, portando alcuni atleti a rinunciare quando non ottengono risultati immediati. Lo sport dovrebbe essere vissuto come un’opportunità per imparare, divertirsi e crescere, e non solo come una corsa al trofeo.
  2. “Fallire non è uguale a perdere”
    Il fallimento è spesso visto come una battuta d’arresto, ma in realtà è una parte naturale del percorso di qualsiasi atleta. Perdere una gara o un incontro non significa fallire come persona o come atleta. Il vero fallimento è smettere di provarci o rinunciare ai propri obiettivi. Le sconfitte insegnano molto: permettono di analizzare cosa si può migliorare e di sviluppare una maggiore resilienza. È importante che gli atleti non si identifichino con i risultati delle gare, ma piuttosto vedano il fallimento come un’opportunità di apprendimento e di crescita.
  3. “Avere successo non è sinonimo di vincere”
    In questa idea si distingue chiaramente tra “successo” e “vittoria”. La vittoria riguarda solo l’esito di una competizione, ma non considera tutto il percorso che un atleta compie per arrivare a quel punto. Il vero successo sta nel processo: il lavoro quotidiano, l’impegno negli allenamenti, la capacità di migliorarsi costantemente e di affrontare le difficoltà. Anche se il risultato finale è una sconfitta, se l’atleta ha dato il massimo e ha fatto progressi, ha comunque avuto successo. Questo approccio promuove una visione più olistica dello sport, in cui il viaggio conta più della destinazione.
  4. “Il successo è collegato all’impegno”
    Questa idea sottolinea che il successo, nel senso più profondo del termine, deriva principalmente dall’impegno costante. Non si tratta solo di vincere, ma di mettersi alla prova ogni giorno, migliorare e dare il massimo in ogni situazione. Anche se l’atleta non raggiunge il risultato sperato, non ha fallito finché ha messo tutto il suo impegno. Questa mentalità porta a una maggiore soddisfazione personale e resilienza, perché si basa su ciò che si può controllare (l’impegno) piuttosto che sui fattori esterni (come il risultato di una gara).

In sintesi, queste idee promuovono un approccio allo sport orientato più verso la crescita personale, l’impegno e il processo di apprendimento piuttosto che verso la semplice vittoria.

10 competenze di un allenatore di giovani

10 caratteristiche psicologiche importanti per un allenatore di giovani:

  1. Pazienza: Allenare giovani richiede un’abbondante dose di pazienza. I ragazzi apprendono a ritmi diversi e possono commettere errori ripetuti; un buon allenatore deve saperli guidare senza frustrazione.
  2. Empatia: Comprendere i bisogni emotivi dei giovani è fondamentale. Un allenatore empatico è in grado di mettersi nei panni dei ragazzi, aiutandoli a superare momenti difficili sia dentro che fuori dal campo.
  3. Capacità di motivare: I giovani hanno bisogno di essere costantemente motivati, sia per mantenere l’interesse sia per sviluppare fiducia nelle loro capacità. Un allenatore efficace sa come ispirarli e incoraggiarli.
  4. Comunicazione chiara: Essere in grado di comunicare in modo semplice e comprensibile è essenziale per un allenatore di giovani, che deve trasmettere istruzioni e feedback in modo diretto e comprensibile.
  5. Flessibilità mentale: I giovani hanno interessi e umori che possono variare rapidamente. Un buon allenatore sa adattarsi a questi cambiamenti e trovare soluzioni creative per mantenere l’attenzione del gruppo.
  6. Resilienza: Allenare i giovani può essere una sfida e richiede una forte capacità di resistere alle difficoltà, continuando a impegnarsi anche quando i risultati non arrivano subito.
  7. Autocontrollo: La gestione delle emozioni è essenziale, soprattutto di fronte a situazioni stressanti. Un allenatore che rimane calmo e controllato trasmette sicurezza e un buon esempio ai ragazzi.
  8. Capacità di creare un ambiente positivo: Un allenatore deve saper creare un ambiente sicuro, accogliente e positivo, in cui i giovani si sentano a proprio agio per imparare, crescere e sbagliare senza timore.
  9. Sensibilità pedagogica: Un allenatore deve comprendere che l’apprendimento è un processo e avere una sensibilità verso i metodi di insegnamento che rispettino i ritmi e le modalità di apprendimento individuali dei giovani.
  10. Leadership collaborativa: Deve saper guidare con autorevolezza, ma anche essere disposto ad ascoltare e a far partecipare i giovani nel processo decisionale, incoraggiando lo sviluppo del pensiero critico e la responsabilità.

Chi forma gli istruttori?

Per la maggior parte dei giovani, bambini e adolescenti, sta iniziando un nuovo anno sportivo e lo stesso vale per le società sportive che l’organizzano. In questo periodo dirigenti sono alle prese con i problemi pratici che si presentano ogni anno, aumentai ora dalla nuova legislatura sportiva. Lo sport giovanile diffuso in migliaia di società sportive sul territorio e non è raro che abbiano difficoltà a trovare istruttori e allenatori e nel contempo il turnover è piuttosto elevato. Ciò è determinato non certo dalla carenza di offerta e una causa importante proviene dalla scarsa retribuzione e dalla difficoltà di attribuire un numero di ore congruo settimanale.

Non voglio entrare nel merito di questa problematica ma un effetto di questa situazione viene posta poca attenzione alle competenze professionali del professionista mentre si preferisce chi mostra disponibilità ad accettare le condizioni che vengono proposte. Gli aspetti psicologici e di metodologia dell’insegnamento vengono in linea di massima ignorati e non è certo raro che giovani allenatori e istruttori si trovino a svolgere un lavoro per il quale non sono preparati.

Dico questo per la ragione, insieme ai miei collaboratori, seguiamo circa 15o tesi all’anno di psicologia dello sport nell’ambito delle scienze motorie e posso affermare che dopo un lavoro i tesi di sei mesi, questi laureando hanno acquisito nell’ambito specifico scelto da loro delle conoscenze e competenze psicologiche significative per il lavoro che andranno aa svolgere.

Ci vorrebbe un percorso simile anche all’interno delle federazioni sportive o delle organizzazioni sportive. Fare un corso anche con 10 ore di psicologia ovviamente non rappresenta un valore aggiunto professionale, permette forse di acquisire una maggiore consapevolezza su determinati aspetti del proprio lavoro.

Questo a mio avviso è un grande problema, perchè solo pochi decidono di formarsi attraverso un investimento personale, la maggior parte non intraprende questo percorso. E’ un problema che le società sportive dovrebbero porsi e porre a loro volta alle federazioni di appartenenza.

Alleniamo gli atleti a prendere decisioni

Parlando con gli adolescenti che praticano sport, mi sono accorto che non è scontato che sappiano spiegare cosa fanno in allenamento piuttosto che in gara e quali sono i loro punti di miglioramento e le loro competenze.

Se in qualche questo dato potrebbe essere accettabile per coloro che si allenano anche solo 3 la settimana, a mio avviso non lo è per quagli atleti che si allenano quotidianamente e svolgono un’attività agonistica per loro significativa. Inoltre, lo sviluppo a lungo termine dell’atleta è un percorso che prevede per la maggior parte degli sport, con l’eccezione di quelli a specializzazione precoce, che a partire da 14/15 anni lo scopo dell’allenamento sia d’imparare a gareggiare.

Ma come può essere raggiunto questo scopo per chi non è in grado di spiegare compiutamente quali sono le sue competenze e come intende impegnarsi in gara?

Spesso negli sport di squadra è lo stesso allenatore a guidare la squadra dalla panchina quasi fosse composta da automi e non da giovani con pensieri specifici sul gioco da svolgere. Lo stesso vale in tutti gli sport situazionali e a prevalenza tattica che siano il tennis, il tennis tavolo, la scherma e altri ancora.  Vi sono sport, in cui più che in altri, il prendersi la responsabilità delle proprie decisioni e verificare gli effetti in gara fa parte di un irrinunciabile processo di sviluppo come persona e come atleta. Nessun allenatore dovrebbe ostacolare lo svolgimento di questo processo e tantomeno sostituirsi al processo decisionale degli atleti.

Questo percorso dovrebbe già essere presente in allenamento per poi trovare la sua applicazione migliore in gara. In conclusione, alleniamo gli atleti a prendere decisioni e a viverne le conseguenze positive e negative. Insegnamogli a praticare uno sport ragionato che gli permetta di sentirsi autonomi, autodeterminasti, consapevoli delle competenze e degli errori commessi.

 

Calcio per giovani con autismo

La mancanza di formazione degli allenatori nello sport

Come succede spesso a ogni inizio di anno scolastica si discute del ruolo degli insegnanti, dei genitori, di nuove regole sull’uso degli smartphone e su tutto quello che nonna bene nella nostra scuola italiana. Su questo tema ho scritto già diversi blog.

Sul tema dell’educazione dei giovani sappiamo benissimo quanto lo sport sia uno mezzo di crescita e di sviluppo se utilizzato nel modo migliore. Resta da capire chi si occupa della formazione degli istruttori e degli allenatori. I laureati in scienze motorie escono dall’università con un bagaglio di conoscenze psicologiche anche rilevante, ma nel percorso di studi non hanno sviluppato la capacità di saperle applicare. Le lotte tra il Coni e Sport Salute hanno ridotto al minimo le occasioni di formazione e il numero dei corsi, restano le azioni formative svolte dalle singole federazioni, ognuna con i suoi pregi e limiti, strette fra troppi vincoli che una Scuola dello Sport nazionale permetteva di superare a livello di qualità e quantità di proposte formative e qualità ed esperienza dei formatori. Sono anche diversi anni che non viene più pubblicate l’unica rivista italiana di scienze dello sport sembra a causa di queste problematiche istituzionali.

Non è poi pensabile che il calcio, la pallavolo, l’atletica, e il nuoto per citarne solo alcune abbiano diverse proposte formative, quando i principi base di un percorso educativo rivolto ai giovani sono sostanzialmente analoghi, al di là della specifica proposta sportiva.

E’ interessante notare che negli sport più praticati spesso sono le stesse società sportive che avendo al loro interno uno psicologo, forniscono in questo modo un supporto formativo sul campo ai loro istruttori e un sostegno alle famiglie e ai giovani. Questo è frequente nel tennis e nel calcio giovanile, per il fatto che le rispettive federazioni prevedono formalmente l’inserimento dello psicologo nelle singole società. Per la federazione tennis e padel devono inoltre essere stati qualificati da un corso federale di preparatore mentale di primo livello aperto solo a psicologi. Per la federcalcio è invece necessario che lo psicologo abbia svolto un master di psicologia dello sport.

Come spesso succede i Italia, le carenze istituzionali vengono superate direttamente alla base da chi svolge direttamente il lavoro con i giovani.

 

 

La vecchiaia: l’età della sperimentazione

Lo scrittore Erri De Luca interpreta la vecchiaia come l’età della sperimentazione. Subito quando ho sentito parlare in questo modo mi sono trovato dentro a una idea di vita di questi anni che corrisponde al mio modo di vivere attuale. Andiamo avanti verso l’inconosciuto, il nostro corpo non è certo più quello di quando eravamo giovani o anche solo cinquantenni, non risponde più come prima ma ugualmente contiene una forza e resistenza, che solo qualche decennio fa sarebbe stata definita come strepitosa per pochi esseri umani eccezionali e che invece oggi è patrimonio di molte persone. Quindi avere consapevolezza di se stessi, di come preservarsi ma anche migliorare le nostre capacità intellettuali, sociali e fisiche deve essere visto come un obiettivo quotidiano e non certo un modo per preservare la gioventù che ovviamente non c’è più.

Percorrere questa strada significa impegnarsi a realizzare un progetto personale di crescita che continuerà sino a quando avremo le capacità per portarlo avanti. Non è una sfida con se stessi, non è una gara contro il tempo, per me è il modo per continuare a dare un senso alla quotidianità fatta di impegno professionale, rapporti interpersonali e allenamento. Vuol dire vivere le giornate per continuare a sentirsi soddisfatti di come si trascorre il tempo e continuando a percorrere questo sentiero verso l’inconosciuto. Perchè non si possono conoscere gli ostacoli che si presenteranno domani a limitare questo tipo di vita, ci saranno sicuramente e quando si verificheranno si penserà a come affrontarli e come andare oltre.

E’ simile a quando in montagna cala la nebbia e si rallenta per non perdere la strada, ci si ferma si cerca il prossimo segnale di riferimento e solo a quel punto si chiama il compagno che è rimasto fermo all’ultimo segnale visto, ci si riunisce nuovamente e si procede in questo modo sino alla fine del sentiero. Nella vita di tutti giorni cerco di procedere nello stesso modo, sempre avanti ma rallentando quando è necessario. La vecchiaia aiuta a mantenere questo approccio, poiché il recupero fisico e mentale è più lento e va rispettato se si vuole andare lontano. Quindi, andiamo avanti con gioia in questo nuovo mondo della vecchiaia.

 

30 anni di consulenza psicologica nel tiro a volo

Quest’anno sono 30 anni che lavoro nel tiro a volo. E’ un traguardo importante che attraversa la maggior parte della mia vita professionale e che sono riuscito a raggiungere grazie alla fiducia delle organizzazioni e degli atleti/e con cui ho lavorato, alla curiosità che ho dimostrato verso queste discipline sportive e alla perseveranza e al desiderio di migliorare che mi hanno sempre guidato.

Avevo 39 anni e venni presentato dal medico federale, Francesco Fazi, al presidente Luciano Rossi e ai commissari tecnici delle tre discipline (fossa olimpica, skeet e double trap)  che decisero d’inserirmi come psicologo all’interno delle squadre nazionali. Devo ammettere che non conoscevo nulla di questo sport e soprattutto delle sue implicazioni psicologiche e degli stati d’animo dei tiratori durante le gare. Certamente, era facile dire che gli errori erano determinati dallo stress agonistico ma come essere utili ad atleti che perdevano una gara per un piattello, perché ne prendevano magari 121 su 125 quando si entrava in finale prendendone uno in più. Quindi come provare a migliorare le prestazioni di quel poco (un piattello in più) che faceva però la differenza tra una vittoria e una sconfitta?

Questo era il compito che mi era stato affidato e guardando le prime gare non era affatto evidente quale fosse l’approccio alla singola pedana quando si rompeva il piattello rispetto a quando lo si mancava. Mi vennero incontro gli allenatori che mi spiegarono come funzionava questo sport e gli stessi tiratori che iniziarono a raccontarmi come vivevano le gare, i loro pensieri e le emozioni, il loro dialogo interno nei vari momenti prima e durante la gara, nelle pause tra le serie e prima di commettere un errore. Passai molto tempo con loro sino alle Olimpiadi del 2000 in Australia, andando ogni anno agli europei, ai mondiali e ai collegiali. Nel contempo nel 1998 avevo iniziato a seguire i tiratori delle Fiamme Oro allenati da Pierluigi Pescosolido con cui abbiamo lavorato settimanalmente sino alle Olimpiadi di Londra nel 2012.

L’attività svolta con i tiratori italiani, fra i migliori al mondo, mi ha permesso d’iniziare a lavorare a livello internazionale. L’occasione mi è stata fornita da Marcello Dradi, che mi contattò per fornire una consulenza ai tiratori indiani e a quelli iraniani di cui era l’allenatore. E’ stata una collaborazione che mi ha aperto alla conoscenza di mondi e mentalità diversi e che è proseguita sempre con Dradi anche come consulente della nazionale cinese di trap sino all’inizio del Covid, quando ovviamente si è conclusa. Negli stessi anni ho seguito anche la preparazione di James Galea, affermato medico di Malta, motivato a diventare un tiratore professionista. Abbiamo lavorato insieme alcuni anni con intensità e grazie a lui mi venne offerta una consulenza psicologica per la nazionale di Malta nell’anno di preparazione per i Giochi del Commonwealth del 2014.

In questi ultimi anni il mio impegno con il mondo del tiro a volo si è ridotto ma quest’anno sono stato una settimana a Taiwan per tenere un corso teorico-pratico sull’allenamento psicologico nel tiro a volo e nel tiro a segno. Nella parte pratica ho lavorato con i loro atleti nazionali e uno di loro il tiratore Lee Meng Yuan al suo debutto alle olimpiadi ha vinto la medaglia di bronzo nello skeet, spero di essergli stato utile per lo 0.1 per cento.