Archivio mensile per dicembre, 2022

Pelé e l’origine del numero 10

10 è il numero di chi distribuisce il gioco e di chi fa correre la palla sul campo. 10 è il numero che nel 1958 per estrazione di numeri ricevette Pelé per giocare e vincere a 17 anni  il suo primo mondiale di calcio. E’ anche il numero di Maradona, incredibile campione, che segnò anche con la mano di Dio. Valentino Mazzola era il 10 del Grande Torino e Mazzola era il soprannome di José Altafini a inizio carriera. 10 è stato Gianni Rivera, primo italiano a vincere il pallone d’oro, di cui ne ha vinti invece 6 Leo Messi anche lui vestendo lo stesso numero. La Juventus ha avuto molti numero 10, campioni assoluti come Omar Sivori Michel Platini, Roberto Baggio, Zinedine Zidane, Alessandro Del Piero e Andrea Pirlo. Le qualità del 10 sono quelle di chi illumina e guida la squadra, il 10 è audace quanto perentorio nelle sue azioni e mostra la caratteristiche che Gianni Brera ha descritto con maestria parlando di uno di loro e cioè di Giuseppe Meazza (vincitore del Campionato del Mondo di calcio con la nazionale italiana nel 1934 e 1938):

Grandi giocatori esistevano già al mondo, magari più tosti e continui di lui, però non pareva a noi che si potesse andar oltre le sue invenzioni improvvise, gli scatti geniali, i dribbling perentori e tuttavia mai irridenti, le fughe solitarie verso la sua smarrita vittima di sempre, il portiere avversario”.[1]

Il 10 porta su se stesso, più degli altri, la responsabilità della squadra, ne rappresenta l’anima, lo spirito. Quando il 10 si isola la squadra ne risente in modo drammatico, e perde colui che tutti ritengono sia in grado di risolvere la partita o un momento di difficoltà con una sua invenzione che sia  un tiro, una punizione,  un passaggio smarcante per l’attaccante o un dribbling. Il 10 non rincorre avversari e sa che è “meglio far correre la palla, lei non suda” (Roberto Baggio), per lui “il calcio è musica, danza  e armonia e non c’è niente di più allegro che la sfera che rimbalza” (Pelé). E poi, i 10 si riconoscono, rispettandosi come i membri di un club riservato a pochi e sanno quanto sia indispensabile la loro presenza per il calcio, come dice Francesco Totti di Diego Armando Maradona:

“E’ il calcio, è il pallone, come se ci fosse la sua faccia su quella sfera che gira. Quello che ha fatto lui con la palla non l’ha fatto mai nessuno e non lo farà mai nessuno. Ha fatto cose straordinarie, tutto quello che c’era da fare l’ha fatto. L’ho conosciuto e mi emoziona vedere la foto di noi due abbracciati”.

 


[1] Gianni Brera, Peppin Meazza era il fòlber. Giornale Nuovo, 24 agosto 1979.

O’ Rei se ne è andato

La leggenda del Brasile Pelé è morta all’età di 82 anni.

Il GOAT originale. Un pioniere.

Uno dei migliori giocatori che abbiano mai allacciato le scarpe da calcio.

Mancherà a milioni di persone.

“Ogni bambino di tutto il mondo che gioca a calcio vuole essere Pelé. Ho la grande responsabilità di mostrare loro non solo come essere come un giocatore di calcio, ma come essere come un uomo”.

Super-campioni e scartati, un impossibile rapporto

I  mondiali di calcio appena conclusi hanno generato molto entusiasmo e partecipazione intorno a questo sport, l’unico ad avere una dimensione mondiale così diffusa in ogni continente. Diventare un campione è il sogno di moltissimi giovani. Pensare di giocare al fianco di Messi o Mbappé occupa certamente i loro sogni. Ora l’attenzione di questi giovani tifosi è rivolta alla ripresa del campionato, alla probabilità che il Napoli continui nella serie di vittorie piuttosto che a tifare per le squadre che rincorrono, riusciranno in questa impresa che molti considerano disperata. in ogni caso quello che riprenderà sarà un campionato con pochi calciatori italiani. I giovani che giocano a calcio sanno che con molta probabilità continuerà a essere un sogno quello di giocare per le squadre per cui tifano. Infatti, la logica delle squadre è di comprare giocatori giovani ma stranieri. Succede anche negli sport di squadra, ma il calcio è lo sport più praticato dai giovani ma fornisce poche opportunità di affermazione. E’ un fenomeno che riguarda anche gli altri paesi europei, una ricerca appena pubblicata relativa al calcio spagnolo s’intitola “Pronti a fallire?”, spiega infatti che gli  juniores (14-19 anni) che aspirano a diventare professionisti (57%) supera di gran lunga il numero di giocatori che raggiungeranno questo obiettivo (10%).  Quindi, entusiasmiamoci pure per i super-campioni ma ricordiamoci che il loro successo è costruito anche su una pratica di massa di giovani che saranno scartati, perchè le squadre preferiscono scegliere seguendo un’altra logica.

La fabbrica del fallimento

Anna Jordana, Yago Ramis, Jose L. Chamorro, Joan Pons, Marta Borrueco, Koen De Brandt, Miquel Torregrossa (2022). Ready for Failure? Irrational Beliefs, Perfectionism and Mental Health in Male Soccer Academy Players, Journal of Rational-Emotive & Cognitive-Behavior Therapy.

Poiché la transizione da junior a senior è considerata un successo solo quando i calciatori diventano professionisti, molti atleti junior devono affrontare il fallimento e la loro carriera sportiva e la loro salute mentale possono essere a rischio. Pertanto, gli obiettivi di questo studio sono: (a) identificare le diverse aspettative di carriera dei giocatori di calcio dell’accademia e (b) descrivere le credenze irrazionali, il perfezionismo e i livelli di salute mentale associati alle diverse aspettative di carriera, identificando i fattori di rischio nel JST. Un totale di 515 giocatori di calcio maschi di età compresa tra i 14 e i 19 anni (M = 16,7; SD = 1,6) che hanno giocato nelle accademie giovanili professionistiche spagnole durante la stagione 2020-2021, hanno risposto a questionari sul modello di carriera sportiva, sulle credenze, sul perfezionismo e sulla salute mentale (cioè, iPBI, MPS-2 e GHQ-12). I risultati suggeriscono che il numero di juniores che aspirano a diventare professionisti (57%) supera di gran lunga il numero di giocatori che diventano professionisti (10%; Dugdale in Scandinavian Journal of Medicine & Science in Sports 31:73-84, 2021). Inoltre, i risultati mostrano che questa popolazione presenta alti livelli di aspettative (M = 5,5), bassa tolleranza alla frustrazione (M = 5,2), auto-organizzazione (M = 5,2) e funzionamento sociale (M = 5,5), e bassi punteggi di svalutazione (M = 2,6) e perdita di fiducia e autostima (M = 2,4). In modo più dettagliato, i risultati sono stati confrontati in base alle aspettative. Queste accademie sono solitamente ambienti in cui il successo e il fallimento sono concetti antagonisti e in cui il perfezionismo e le credenze irrazionali sono normalizzati e integrati tra tutti i membri di questo contesto. Tuttavia, i possibili effetti disadattivi mettono a rischio la loro salute mentale. Con l’obiettivo di razionalizzare i concetti di successo e fallimento e di proteggere la loro salute mentale, soprattutto di coloro che non diventeranno professionisti, questo studio propone un nuovo percorso basato sulla filosofia REBT e sulla tecnica ARRC.

 

 

La relazione fra prestazione, abilità ed errori

In molte culture, vi sono modi di dire che ricordano quanto sia importante imparare a reagire alle situazioni negative e agli errori. Si dice, ad esempio: “Quando si chiude una porta, si apre un portone” mentre gli americani amano ripetere: “Non importa quante volte cadi, ma quanto in fretta ti rialzi” e i giapponesi affermano: “Cadere sette volte, rialzarsi l’ottava”. Queste affermazioni mettono in evidenza che per avere successo si debba sviluppare una piena consapevolezza di quanto sia frequente commettere degli errori e di quanto sia altrettanto rilevante reagire in modo costruttivo.

Non ci sono scorciatoie, poiché gli errori non possono essere eliminati; bisogna per forza sbagliare, come durante un percorso a ostacoli in cui in ogni momento si è consci che è possibile commettere errori, rallentare, fare una grande fatica per superare un ostacolo anche se si è ben preparati e si conosce il tracciato.

Allora se questa è la strada da percorrere, bisogna impedire che gli errori diventino degli alibi utilizzati per confermarsi l’impossibilità di superare i propri limiti attuali, con l’effetto di determinare una riduzione dell’impegno, poiché “Tanto non c’è niente da fare” oppure “Sì, ci sarebbe tanto da fare, ma non ho abbastanza talento” o ancora “Sono un tipo sfortunato, quando una cosa può andare male, a me succederà di certo”. Bisogna quindi costruire, attraverso l’attività quotidiana, una cultura del lavoro che consideri l’errore come parte integrante del processo di miglioramento.

Un modo per accettare gli errori consiste nel mettere in atto alcuni comportamenti che permettono di passare da una prestazione sino a quel momento insoddisfacente a una efficace. Queste semplici azioni riguardano:

  1. Dopo un errore fare un respiro profondo e immaginare immediatamente cosa si deve fare nell’attimo successivo.
  2. Quando si è troppo preoccupati per la competizione che si deve iniziare, bisogna immaginarsi una prestazione passata positiva e lasciarsi sentire le sensazioni che si hanno mentre si fa questo esercizio.
  3. Durante il riscaldamento bisogna trovare il feeling con l’attrezzo o mezzo sportivo che si usa, (pallone, racchetta, arma, imbarcazione, sci, bicicletta) bisogna sentire che quell’oggetto è proprio il nostro e fa parte di noi.
  4. Durante il riscaldamento bisogna anche avvertire che il corpo si sta preparando alla gara e trarre piacere da quelle sensazioni che dicono che ci stiamo preparando bene.
  5. Bisogna mentalmente immaginarsi, se si tratta della corsa di sentire che le gambe girano come mi aspetto che sia o se le sento troppo rigide insistere negli allunghi in modo da sciogliere le tensioni muscolari inutili. In relazione ad altri sport bisogna identificare quali siano gli esercizi che meglio mettono in luce se siamo pronti, e dedicarsi a sentire le sensazioni per noi giuste prima dell’inizio della gara.

Sono solo alcuni esempi concreti di cosa possa fare un atleta per imparare a guidare se stesso a mettersi nella condizione mentale ottimale prima e durante la gara. Seguendo queste indicazioni ognuno può costruirsi il suo percorso di preparazione fisica, tecnica e mentale pre-gara.

Il cambiamento è la costanza della vita

Buone feste


Allenare emotivamente i giovani

Simeone, allenatore dell’Atletico Madrid, ha detto che “si può vincere perdendo se dai tutto te stesso”. E’ un concetto chiave per lo sviluppo di un atleta e dovrebbe venire insegnato sino dal primo giorno che un bambino o una bambina entrano su un campo da gioco. Al contrario si vedono giovani che appena commettono un errore si arrabbiano con se stessi o si deprimono. Sappiamo che ciò succede per la congiunzione di motivi diversi:

  • i genitori spesso non riconoscono il valore dell’impegno e pensano che conti solo vincere, pertanto si arrabbiano con i figli per gli errori commessi e vorrebbero sostituirsi all’allenatore per dargli indicazioni tecniche,
  • gli allenatori sono più concentrati a insegnare la tecnica e non allenano emotivamente gli atleti,
  • i giovani stessi non sono capaci a esprimere le loro emozioni in modo costruttivo e mancano di auto-controllo.

E così si vedono giovani tennisti che sbattono la racchetta a terra dopo un errore alternando stati d’animo di rabbia e depressione contro di sé o in altri sport commesso un errore ne conseguono quasi rapidamente altri, perché negli atleti domina la frustrazione dovuta dal primo sbaglio.  Per cambiare questo modo di vivere le sconfitte e gli errori servono genitori e allenatori più consapevoli che il loro ruolo prevede anche l’insegnamento dell’auto-controllo, lavorando con i propri figli e atleti per modificare questi comportamenti distruttivi.

Non bisogna di certo imporre le nostre soluzioni di adulti ai loro problemi. Bisogna ascoltare in modo empatico e non per giudicare, così che i giovani si sentano sostenuti e rispettati nei loro stati d’animo. Solo dopo questa fase si dovrebbe iniziare a parlare di cosa si potrebbe fare di diverso, dando tempo ai ragazzi di esprimere le loro idee e a noi di stimolare la loro consapevolezza nei riguardi del loro modo di agire e d’identificare le possibili soluzioni. Agire in questo modo richiede tempo e spesso è per questa ragione che gli adulti non seguono questa strada.

Bisogna però essere consapevoli che se spesso si rinuncia a intervenire, i giovani cominceranno a pensare che le loro reazioni non interessano a genitori e allenatori e, peggio ancora, continueranno a comportarsi con se stessi in modo negativo. Se vogliamo che i nostri ragazzi sviluppino l’abilità di gestire con efficacia e soddisfazione i loro stress quotidiani dobbiamo spendere del tempo a insegnare loro come comportarsi, sentire e pensare in quei momenti.

Lo sguardo del rigorista

Durante il mondiale appena concluso sono stati sbagliati molti rigori, molti si sono chiesti come sia stato possibile. Un aspetto essenziale di questo compiti di precisione riguarda l’orientamento dello sguardo del calciatore in quei momenti, poiché è probabile che dove fissa lo sguardo, lì sia rivolta l’attenzione. Spesso è ciò che non avviene perchè la tensione psicologica eccessiva impedisce al calciatore di svolgere questa semplice azione. Dove guarda un calciatore mentre sta per eseguire un calcio di rigore? Lo ha illustrato in modo letterario ed elegante Eduardo Galeano parlando di un famoso rigore calciato da Meazza:

“Accadde nel Mondiale del 1938. Nelle semifinali, Italia e Brasile giocavano il loro destino, o la va o la spacca. 

L’attaccante italiano Piola crollò all’improvviso, come fulminato da un colpo di pistola, e col suo unico dito ancora vivo indicò il difensore brasiliano Domingos de Guia. L’arbitro svizzero gli credette, soffiò nel fischietto: rigore. Mentre i brasiliani lanciavano grida al cielo e Piola si rialzava scrollandosi la polvere, Giuseppe Meazza collocò la palla sul punto dell’esecuzione. 

Meazza era il bello della squadra. Un piccoletto elegante e innamorato, elegante esecutore di penalty, alzava la testa invitando il portiere come il matador col toro nell’assalto finale. E i suoi piedi, flessibili e sapienti come mani, non sbagliavano mai. Ma Walter, il portiere brasiliano, era bravo nel parare i rigori e aveva fiducia in se stesso. 

Meazza prese la rincorsa, e nel preciso momento nel quale stava per assestare il colpo, gli caddero i pantaloni. Il pubblico restò stupefatto e l’arbitro quasi si ingoiò il fischietto. Ma Meazza, senza fermarsi, afferrò con una mano i pantaloni e vinse il portiere, disarmato da tanto ridere. 

Questo fu il gol che lanciò l’Italia verso la finale del campionato.”

Comunque che il rigore rappresenti anche una difficoltà sempre pronta a presentarsi, è confermato dall’analisi delle percentuali di realizzazione dei rigori calciati dalla nazionale italiana nel corso della sua storia. Infatti, i rigori eseguiti dagli azzurri in tutte le competizioni sono stati 86, di cui 67 sono quelli segnati e 19 quelli falliti. Pertanto quelli sbagliati rappresentano il 22% di quelli eseguiti[1].

La metafora del matador che guarda il toro sta a indicare che il rigorista guarda diritto di fronte a sé in un punto preciso, senza abbassare gli occhi.

Il compito principale dell’allenatore

Spesso mi chiedo perché continuare a parlare di sport e di prestazioni sportive quando viviamo un periodo in cui domina l’incertezza. Inoltre, lo stesso sport e il calcio non sono immuni da problemi gravi in cui sono coinvolti gli atleti e le loro organizzazioni, dal doping alle partite truccate, dai falsi in bilancio alle truffe connesse all’acquisizione delle manifestazioni sportive di importanza mondiale. Se ci fermiamo solo a questi aspetti della nostra società non dovremmo ovviamente occuparci di sport, ma probabilmente non dovremmo più occuparci di nulla se pensassimo che “tutti sono dei ladri”.

Poi ci sono i giovani con le loro aspettative e motivazioni di riuscire a realizzare i propri sogni, ed è proprio questo che mi spinge a parlare di sport. Non possiamo lasciarli soli nel cercare la loro strada, non possiamo di certo lasciarli preda dei tanti che li vogliono consigliare solo per soddisfare il loro narcisismo. Dobbiamo invece trasmettergli:

  • la consapevolezza nelle proprie qualità e nella necessità del miglioramento continuativo
  • la capacità di accettare gli errori e le sconfitte, vivendoli come le uniche esperienze che permettono di migliorare
  • il piacere d’impegnarsi per raggiungere i loro sogni
  • la convinzione che il potere dell’atleta si esercita al 100×100 nel fornire le migliori prestazioni di cui si è capaci e non nel vincere
  • la convinzione che le esperienze emotive provate in allenamento e in gara sono un modo per imparare a gestire se stessi nei momenti di maggiore intensità e stress della loro vita
  • la capacità di gioire e di essere orgogliosi di se stessi
  • la capacità di rispettare gli avversari  e i giudici di gara
  • la capacità di accettare le difficoltà come una parte essenziale e presente in ogni prestazione anche quando si è veramente ben preparati a gareggiare

Per queste ragioni, insegnare ai giovani che vogliono diventare bravi in quello che fanno è un’esperienza molto impegnativa e diversa dal lavorare insieme ad atleti adulti o che già hanno raggiunto visibilità a livello internazionale. Sono giovani adolescenti, ragazzi e ragazze, che s’impegnano per scoprire se hanno le qualità per emergere nello sport e per tramutare la loro passione in una carriera sportiva di alto livello.

Negli sport individuali, per alto livello dobbiamo intendere un atleta capace di gareggiare in modo competitivo a livello internazionale. Negli sport di squadra, ci si riferisce al giocare almeno a livello dei due campionati nazionali di massimo livello (dove lo spazio per giocare è troppo spesso occupato da giocatori stranieri).

Sappiamo che una volta stabiliti, questi obiettivi a lungo termine, vanno comunque messi da parte perché ci si deve concentrare su quanto serve fare per migliorare e perseguire quotidianamente questo obiettivo. Sappiamo anche che non è facile acquisire questa mentalità, a causa degli errori che si commettono continuamente. Mettono alla prova le convinzioni personali che devono sostenere l’atleta nel reagire immediatamente a un singolo errore così come a una prestazione di gara insoddisfacente.

Insegnare ai giovani ad acquisire questa mentalità aperta verso gli errori, interpretandoli come unica occasione, dovrebbe essere l’obiettivo di ogni allenatore. Dobbiamo insegnare quello che affermava Aristotele e cioè che:

“Noi siamo ciò che facciamo costantemente. L’eccellenza quindi non è un atto ma una abitudine”.

Infatti, lo sport è pieno di storie di giovani che sono stati rovinati dal loro talento (fisico e tecnico), perché hanno pensato che questo dono fosse sufficiente per avere successo e quando poi la vita li ha messi di fronte alle prove decisive non sono stati capaci di fronteggiarli. Perché noi siamo ciò che facciamo quotidianamente, studio, lavoro e per gli atleti allenamento. Bisogna essere consapevoli che l’eccellenza nasce dall’abitudine ad allenarsi con dedizione e intensità. Chi non capisce che questa è la strada da percorrere quotidianamente, crede di sopperire con il proprio talento naturale; purtroppo è solo un’illusione che alle prime asperità verrà demolita. A controprova dell’importanza di questo approccio mentale, si può riportare quanto ha detto Roger Federer all’età di 38 anni:

“Per poter affrontare i più giovani ho dovuto reinventare il mio gioco, il tennis è in costante evoluzione”.