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Spesso gli atleti non hanno nessuno con cui parlare delle proprie paure

La necessità di servirsi di un approccio di psicologia umanistica allo sport si evidenzia, secondo me, di continuo nelle richieste che gli atleti pongono agli psicologi. Consiste a mio avviso non tanto nell’insegnamento di specifiche strategie e tecniche psicologiche per gestire lo stress agonistico o mantenere la concentrazione sul presente o sapere collaborare con i compagni. Riguarda alcuni aspetti della vita sportiva che per queste persone non è solo un lavoro da svolgere al meglio ma è diventata un’esperienza totalizzante che dà significato stesso alla propria esistenza, in cui il valore di se stessi come persona viene misurato sui risultati futuri da raggiungere. Per molti di loro non basta svolgere il proprio lavoro con professionalità, bisogna essere sempre, anche in allenamento, impegnati al massimo e ottenere in gara risultati di livello assoluto.

L’attualità dell’approccio umanistico deriva dalle preoccupazioni che nascono dalle prestazioni sportive degli atleti. La madre di tutte le domande è per i più giovani: “Saprò raggiungere i risultati per cui mi preparo?”. Che per gli atleti più vecchi diventa:”Saprò ripetermi?”. Ma queste sono solo alcune delle possibili inquietudini che sorgono nella mente degli atleti più bravi, di quelli cioè che sono riusciti a tradurre la loro passione giovanile in un lavoro ambizioso e soddisfacente, che poi per molti è diventato così travolgente da lasciare spazio a molto poco altro, con le gioie e le sofferenze che questa condizione determina.

Gli atleti, salvo rare eccezioni, non hanno accanto persone qualificate per parlare di questi argomenti. Raramente ne parlano con gli allenatori o i compagni, più spesso con i loro partner o i genitori. Gli psicologi dello sport dovrebbero essere i professionisti più qualificati per affrontare questi temi ma devono possedere una formazione e una sensibilità personale ben sviluppate per essere di qualche utilità agli atleti nel trattare questi temi.

Capire la solitudine degli atleti

Ricomincia una nuova stagione agonistica, che vuole dire nuove sfide. In questo lavoro c’è poco spazio per la routine per lo svolgimento di attività consolidate che si ripetono di anno in anno. Lavorare con atleti e allenatori, anche loro impegnati nel chiedere il massimo a se stessi, rappresenta sempre una novità e come nelle gare il risultato finale non è mai certo. L’aspetto che più mi colpisce è che nonostante s’insegnino abilità importanti per migliorare la concentrazione o la gestione degli stress, l’apprendimento che considero più importante per un atleta riguarda l’accettazione della sua solitudine di fronte alla quotidianità del suo lavoro e il sapersi guidare in quei momenti unici che sono le competizioni.

Quindi auguro a tutti d’imparare ad accettare questi momenti, vivendoli come aspetti significativi della vita e non come momenti di debolezza da nascondere o eliminare e agli psicologi di sapere entrare in contatto con questa parte della vita degli atleti e di essere in grado di aiutarli a viverla con consapevolezza e in modo costruttivo