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La relazione profonda tra arte e cervello: una forma di auto-cura

Lo studio della relazione  tra le scienze del cervello e le arti è stato per la prima volta coniato “neuroestetica” alla fine degli anni ’90 da Semir Zeki,  neuroscienziato e docente all’University College di Londra. Gran parte della ricerca iniziale si è concentrata sull’estetica empirica, esaminando le basi neurali che sottendono il modo in cui percepiamo e giudichiamo opere d’arte ed esperienze estetiche.

Antonio Damasio, neurologo che studia i sistemi neurali sottostanti l’emozione, la presa di decisione, la memoria, il linguaggio e la coscienza presso l’Istituto per il Cervello e la Creatività dell’Università della California del Sud, afferma: “La gioia o il dolore possono emergere solo dopo che il cervello registra cambiamenti fisici nel corpo”. Continua, in un’intervista a Scientific American Mind: “Il cervello riceve costantemente segnali dal corpo, registrando ciò che sta accadendo dentro di noi. Successivamente elabora i segnali in mappe neurali, che poi compila nei cosiddetti centri somatosensoriali. I sentimenti si verificano quando le mappe vengono lette e diventa evidente che sono stati registrati cambiamenti emotivi”.

La psicoterapeuta artistica Sofie Dobbelaere, concorda sul fatto che recarsi in una galleria per ammirare l’arte può essere un’esperienza di guarigione potente. “Quando osserviamo l’arte, ci connettiamo con la nostra umanità e quindi entriamo in dialogo con qualcosa al di fuori di noi stessi e questo può aiutarci a sentirci connessi e come se facessimo parte di qualcosa di importante”.

La cultura frenetica del tutto e subito ci porta a consumare le opere d’arte nello stesso tempo che dedichiamo a leggere una email. Talvolta, però, l’arte riesce a imporci di osservare un quadro o un’installazione per un tempo più lungo. Gli esperti suggeriscono di “guardare lentamente”, di gustare quindi un’opera d’arte, di spendere del tempo anche per diversi minuti o andare in un museo anche solo per contemplare un’unica opera. Le gallerie sono piene di opere incredibili, ma osservare solo una su un livello più profondo può essere incredibilmente significativo.

Susan Magsamen, ha messo in luce che il 95% degli adulti nel Regno Unito sia d’accordo sul fatto che visitare musei e gallerie sia benefico ma che il 40% li visita meno di una volta all’anno.  I mesi invernali sono il momento perfetto per visitare le mostre e per prendersi cura di se stessi cone questa forma di auto-trattamento psicologico.

Le lacrime di Iniesta e l’arte di saper smettere

Dall’articolo di Enrico Sisti “Le lacrime di Iniesta e l’arte di sapere smettere“.

“Smettere è un’esperienza esistenziale che può arrivare in qualunque momento”, spiega Alberto Cei, psicologo dello sport, “c’è chi smette e non può star comunque fermo anche in età avanzata e questa è una conquista recente perché sappiamo bene tutti che fino a 50 anni fa l’attività agonistica oltre i 35 anni non esisteva”.

“L’approccio umanistico è importante, l’atleta-uguale-prestazione come concetto non basta ma è quello che pensano un po’ tutti, c’è un 50% nascosto dietro l’atleta che si chiama persona, nell’arte e negli altri campi è accettato ma per l’atleta, soprattutto di alto livello, prevale una visione meccanicistica che non tiene conto dell’essere umano, del valore, nel senso più alto del termine, che questo lavoro, il lavoro dell’atleta, ha per gli uomini che diventano atleti. Sono esperienze totalizzanti, a volte drammatiche, estreme. E lasciare è spesso fonte di grande disagio”.

“Le debolezze dell’atleta, prendiamo la testata di Zidane, o il farsi le scarpe, non sono previste, è come se l’atleta fosse un dio, esattamente, cioè meno umano degli altri. Un passaggio così importante, come lo smettere o di cambiare strada in modo radicale come ha fatto Iniesta, svela l’aspetto umano, diventa cruciale”.

“Si può continuare a fare tutto”, prosegue Cei, “non è necessario per forza lasciare, la dimensione esistenziale importante è che nel tempo un’attività sportiva deve diventare un conoscere meglio se stessi, senza farsi la guerra. I fisiologi si chiedono: ma perché tutti gli animali invecchiando dormono sempre di più? L’uomo va un po’ alla rovescia. Noi continuiamo a muoverci, abbiamo delle aspirazioni. Bisogna rendere complementari la motivazione e l’adeguamento degli sforzi al tempo che passa”.

Ma è meglio finire al top o con un lungo tramonto? “Meglio finire al top”. Come Platini e Borg? “Se non c’è la comprensione del tempo fisico e passione rischiano di collidere, in quel caso continuare si può trasformare in un suicidio agonistico e psicologico, finisci per diventare un perdente, perennemente insoddisfatto. Non vince chi vince, ma vince chi si adatta, che poi è un modo di rispettare le regole della biologia”.