Monthly Archive for July, 2010

Morire per sport

Ogni estate ritornano gli incidenti in montagna e al mare ed è di questi giorni la notizia dei sub morti nella grotta di Portofino. Spesso la spiegazione a questi eventi risiede nell’imperizia delle persone a sapere valutare le difficoltà a cui vanno incontro in rapporto alla loro abilità. A mio avviso questo limite deriva da quattro fattori specifici.
Il primo. La maggior parte di queste persone vive in città e ha un rapporto episodico con la natura, sia essa il mare o la montagna. Non hanno quindi un rapporto costante e continuativo con gli eventi naturali e ritengono che l’avere imparato in una piscina come comportarsi, li metta nella condizione di sapere affrontare le condizioni imposte dal mare. Questa mancanza di consapevolezza delle regole della natura, li espone a correre dei rischi a cui sono totalmente impreparati.
Il secondo. L a stessa attività subacquea può essere una piacevole passeggiata se si svolge in una situazione ottimale o può trasformarsi in un grande problema se le condizioni del mare sono diverse da quelle previste. La consapevolezza di queste due opzioni è indispensabile per prevenire gli incidenti e per valutare quanto è sicuro continuare l’immersione o si debba tornare indietro. Molti incidenti avvengono a causa di questa volontà a volere perseguire a tutti costi il proprio desiderio. Le persone dovrebbero allenare di più la loro capacità a eseguire analisi realistiche e a decidere solo questa base, senza lasciarsi guidare dai loro sogni di avventura.
Il terzo. Lo chiamerei “il peccato del turista in cerca di avventure” e consiste nel dovere fare per forza quella immersione perché si è in vacanza e si ha poco tempo a disposizione o perché ci si prepara da tanto tempo e quindi non si vuole rinunciare. La natura c’impone regole diverse, non è come vivere in città in cui anche con il cattivo si può uscire senza correre alcun pericolo. Comunque anche in caso di incidente, in città si è soccorsi immediatamente e una caduta non determina conseguenze mortali, mentre in mare o in montagna può essere letale e comunque il soccorso è difficile e può mettere a rischio la vita stessa dei soccorritori.
Il quarto. Spesso queste attività vengono svolte in compagnia di altre persone e in gruppo si tende a correre più rischi rispetto a quando la stessa impresa viene svolta da soli. Nel gruppo si diventa più sicuri e spavaldi, si tende a nascondere i propri timori e, vicendevolmente, si fa leva sulla apparente sicurezza dei compagni. Quando questa situazione si verifica è più facile che non si prendano le precauzioni necessarie a evitare di trovarsi in difficoltà.
In conclusione, chi vuole svolgere attività in contesti naturali deve essere consapevole delle regole di questo mondo e sapere che ritornare alla base è il migliore atto di coraggio che una persona può compiere in situazioni ambientali difficili. Leggi l’intervista su: http://www.uisp.it/nazionale/index.php?contentId=1630

Donne manager nello sport

Le donne lottano da sempre contro quel soffitto di cristallo fatto di consuetudini e discriminazioni, molto spesso indirette, che rende difficile per loro l’accesso ad alcune professioni, la progressione nelle carriere o l’assunzione di ruoli di responsabilità, a prescindere dalle capacità professionali. Nel contempo viviamo in un periodo in cui l’abilità a fornire prestazioni di alto livello, prendere decisioni adeguate e nei tempi richiesti, senza perdere di vista la visione globale e gli obiettivi a lungo termine sono competenze necessarie e critiche. Secondo “The Economist” la sfida più significativa che le imprese si trovano a fronteggiare riguarda proprio l’identificazione, la selezione e lo sviluppo degli individui in grado di lavorare con successo a livello di management intermedio e senior. Pertanto per vincere questa sfida non è possibile relegare buona parte delle risorse umane delle imprese a ruoli secondari e meno remunerativi, le aziende devono quindi curare i loro talenti senza effettuare discriminazioni di genere.
Le organizzazioni sportive devono, quindi, pianificare con anticipo lo sviluppo delle donne che ritengono possano giungere a ricoprire ruoli di leadership, servendosi di maggiore immaginazione nel trattenere le migliori.
A questo proposito si è svolto a Torino il primo incontro di un progetto europeo per lo sviluppo delle donne manager nello sport. Per saperne di più: http://www.provincia.torino.it/sport/newsletter/archivio/dwd/2010/num04/News_WILD-luglio2010.pdf

W gli errori

A proposito del Festival dell’errore che si svolge in questi giorni a Parigi, è vero non solo per la scuola ma anche nell’allenamento che s’insegna ripetere la nozione che nello sport diventa il movimento esatto. Se si esaspera questo approccio si formano giovani sportivi ubbidienti, che sanno eseguire ciò che gli viene chiesto ma che avranno difficoltà a gareggiare perché non sanno affrontare gli errori, gli imprevisti un momento di difficoltà. Sono quei giocatori che continuamente guardano la panchina alla ricerca di un risposta che dovrebbe, invece, venire da loro o quegli atleti che ripetono spesso lo stesso errore perché non hanno imparato a rischiare di fare almeno un errore diverso. Non si nasce così ma si diventa, schiacciati da allenatori che anziché sviluppare la consapevolezza e l’autonomia, durante l’allenamento, obbligano i ragazzi a fare solo quello che loro gli dicono e se non lo fanno si sentiranno dire: “Chi ti ha mai detto di fare in questo modo!”

Lo sviluppo del talento

In questi giorni si parla molto in relazione al calcio di come sviluppare i giovani talenti, anche se è una questione che può riguardare tutti gli atleti e non solo i calciatori. Va detto che è una questione discussa in tutto il mondo e spesso ogni nazione ha proposto le sue soluzioni. Nel calcio, ora si parla molto della Spagna e di come abbia saputo valorizzare il suo patrimonio di talenti, ma la risposta non consiste certamente nel copiare sistemi propri di altre culture. La soluzione passa invece attraverso l’identificazione di alcune linee guida che hanno a che fare con lo sviluppo del giovane nelle varie fasi evolutive e che si riferiscono ad alcuni principi generali ispiratori su cui, in seguito le organizzazioni sportive interverranno a formulare programmi sulla base dello sport praticato e delle loro esigenze. Diversi studiosi si sono trovati d’accordo nel sostenere che lo sviluppo dell’atleta è un processo a lungo termine all’interno del quale vi sono alcune tappe significative che tutti attraversano e che favoriscono quindi lo sviluppo dei talenti. Questo approccio allo sport è stato denominato Sviluppo a Lungo Termine dell’Atleta (Canadian Sport for Life, 2005) ed è stato adottato da importanti organizzazioni sportive, fra cui lo stesso comitato olimpico inglese in preparazione delle prossime olimpiadi del 2012. E’ un modello suddiviso in sette fasi che includono l’intero sviluppo della vita dell’essere umano e che sono state così definite (per ognuna delle fasi vengono riportati sinteticamente solo alcuni degli obiettivi):
1. Fase dell’Inizio Attivo – 0-6 anni – Divertimento e attività fisica su base quotidiana, non più di un’ora consecutiva di attività sedentaria nell’arco della giornata.
2. Fase dei Fondamentali e del Divertimento – 6-9 anni – Divertimento e apprendimento di movimenti globali e di base, semplici regole di etica, attività su base giornaliera.
3. Fase dell’Imparare ad Allenarsi – 9-12 anni – Sviluppo abilità sportive specifiche, sviluppo abilità psicologiche e interpersonali, 3 giorni alla settimana allenamenti sport specifici altri 3 giorni partecipazione ad altri sport.
4. Fase dell’Allenarsi all’Allenamento – 12-16 anni – Sviluppo abilità sport specifiche, sviluppo forma fisica e abilità psicologiche, allenamento sport specifico da 6 a 9 volte la settimana.
5. Fase dell’Allenarsi a Competere – 16-18 – Sviluppo e perfezionamento forma fisica, competenze tecniche e tattiche, abilità psicologiche, programmi di preparazione mentale, allenamento sport specifico da 9 a 12 volte la settimana.
6. Fase dell’Allenarsi a Vincere – + di 18 anni – Sviluppo e perfezionamento forma fisica, competenze tecniche e tattiche, abilità psicologiche, programmi di preparazione mentale per l’alta prestazione, allenamento sport specifico da 9 a 15 volte la settimana.
Le denominazioni di queste fasi illustrano in poche parole quello che dovrebbe essere lo scopo prioritario di ogni periodo di sviluppo del giovane. Naturalmente su queste linee guida ogni organizzazione sportiva sarà ampiamente libera di formulare i propri programmi di allenamento e il calendario delle competizioni nelle forme che riterrà per sé migliori.
Per ulteriori approfondimenti vedi: Alberto Cei, Nuovi orientamenti nello studio del talento,
Atletica Studi, FIDAL, n. 3-4/2006, luglio – dicembre 2006, anno 37, pp. 53-68.

La rivincita degli allenatori-sobri

Le quattro squadre che hai mondiali sono giunte alle semifinali sono guidate da allenatori che si caratterizzano come allenatori – sobri e che non sembrano affatto somigliare agli allenatori – condottieri delle squadre che avrebbero invece dovuto dominarlo. La sobrietà si nota nella gestione della squadra dalla panchina e il dato che li caratterizza e che le loro azioni non sono dettate dallo stato emotivo del momento ma sono impegnati nel dirigere la loro energia psicologica verso quei comportamenti che giudicano più efficaci. Joseph Badaracco che ha coniato questi termini – quiet leader – sostiene che questi capi non analizzano quanto sta accadendo in termini di giusto/sbagliato, i loro pensieri vanno più in profondità, sanno prendersi una pausa, hanno una visione complessa delle situazioni e continuano nel loro incessante impegno, consapevoli che la leadership non si conquista con atti d’imperio ma attraverso un lungo e costante processo di guida. Questo atteggiamento deriva dall’esercizio e dall’aver imparato a freddare i propri stati d’animo prima di rispondere. Non agiscono d’istinto perché vogliono agire senza essere dominati dalle emozioni del momento, che potrebbero orientarli verso scelte fondate su stereotipi e pregiudizi. Insomma si può guidare una squadra anche se non si vive la partita come uno psicodramma.

L’eccellenza è un’abitudine

Aristotele diceva che “Noi siamo ciò che facciamo costantemente. L’eccellenza quindi non è un atto ma una abitudine.” In semifinale vincerà la squadra che si sarà più allenata a gestire lo stress agonistico e a lottare in ogni momento di gioco fino alla fine, indipendentemente dal risultato parziale che si andrà manifestando.

Mondiale e allenamento mentale

Ho ricevuto questo contributo sulle ragioni della sconfitta del Brasile che condivido con piacere.

I have been working in the field of sport psychology for 38 years in Canada, Australia, and now in Brazil, and I believe that I know why Brazil lost to Holandia in Copa 2010: Coaching experience and styles, empathy with the players, and the mood states of Dunga and the Brazilian players in the second half of today’s game.
Obvious comparisons can be made between the two new South American national coaches: Dunga and Maradona. Neither has any coaching experience, academic training in physical education, nor in the coaching sciences, which are most common in all of North America and Western Europe.

They obviously have no technical training in football and have to rely upon, their playing experiences, and assistant coaches who have such a background.

From my perspective from working with Canadian National teams, the best results occur with teams when the coach is academically trained and has learned positive perspectives, has concern and love and respect for his players, is permitted to introduce young players early on at the international levels of competition, and likes to be laughing, hugging, and congratulating them, all factors which have contributed to Maradona’s success. I have written this before the Argentina-Germany game, but after Brazil’s loss to Holandia.

What was most obvious to me occurred before the first half break, during which Brazil’s brilliant play lead to a a 1-0 lead. However, during the game and most of of the half-time video clips, there were scenes of Dunga ranting and raving, throwing his arms into the air and hitting the banco, even though they were still winning against a tough opponent!

In the sport psychology literature, there are individuals who demonstrate “Type A behaviors”, which are characterized by: “A strong sense of urgency, an excess of competitive drive, and an easily aroused sense of hostility”-and this was when they were winning!

My best guess is that coach Dunga brought this sense of urgency, competitive drive and hostility into the dressing room and communicated it to his players at half-time. This may have resulted in the upsetting of the positive team “mood”, possibly broke the teams’s positive spirit and skill levels, through his negative psychological state of mind during the positive first half. This was perhaps through criticism, sarcasm, and inappropriate feedback to these multi-millionaires representing their country.

There is an old expression in English: “If you can’t perform, then teach”. In Dunga’s case, it might be more appropriate to state: “If you can’t teach (or coach), step out of the way for someone who can”. As a Brazilian resident, my heart is with the antiquated organization in decision-making, governance and control for both coaches and players, but my money is on Maradona’s, equally antiquated, but positive style in humanized coaching and team development.

John H. Salmela, Ph.D.
University of Ottawa, Canada

I CT presuntuosi

Capello, Lippi, Dunga e Maradona non hanno guidato solo nazionali di grande prestigio ma sono loro stessi persone di livello assoluto nel calcio, però sono andati fuori alle prime difficoltà vere che il campionato del mondo gli ha presentato. Sono allenatori con personalità molto diverse ma nelle spiegazioni relative a questo insuccesso sono stati molto simili. Con modi diversi si sono assunti la responsabilità della disfatta, si sono dimostrati emotivamente coinvolti ma non hanno mai risposto a domande riguardanti il perché questo è successo (hanno detto non lo so) o cosa sarebbe potuto succedere se avessero giocato in modo diverso, con Tizio al posto di Caio. Queste domande li irritano, dicono che hanno già risposto, che sono fatte per polemizzare e così via. E’ un atteggiamento presuntuoso e narcisistico di chi pensa di avere fatto il meglio, salutare percezione soggettiva, peccato che il loro meglio abbia prodotto il peggio e chi domanda vorrebbe saperne le ragioni e non vedere capi solo dispiaciuti o lacrimevoli.

La rabbia di Dunga

La facilità di Dunga a irritarsi è stata sotto gli occhi di noi spettatori in ogni istante della partita, anche quando Il Brasile era in vantaggio contro l’Olanda. Come si fa a trasmettere fiducia ai propri giocatori quando si è così instabili? Sono convinto che la sua difficoltà a gestire la propria impulsività sia stata una causa decisiva della sconfitta con l’Olanda.

I presuntuosi: gli arbitri

Gli errori di Rosetti e quelli dell’arbitro del goal non visto a favore dell’ Inghilterra dicono di quanto sia facile agire in modo mentalmente rigido, non ascoltando e pensando che si ha ragione in ogni caso. E’ chiaro che l’errore va accettato, nessun arbitraggio è perfetto, ma quando gli sbagli sono clamorosi vuol dire che l’arbitro non è mentalmente in forma. Dovrebbero allenarsi mentalmente a pensare cosa fare in situazioni come quelle che sono accadute e che non sono frequenti ma decisive. D’altra parte è questa la differenza tra i best performer e gli altri, vedere e decidere quando gli altri sbaglierebbero. Altrimenti perché scegliere Rosetti e non Giuseppe Rossi?