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Costruire una nazionale più forte: oltre gli stereotipi e la pressione esterna

La nazionale potrà esprimere il meglio di sé solo riuscendo a liberarsi del peso delle aspettative eccessive che la circondano. Quando l’ambiente sociale ripete ossessivamente che bisogna vincere a ogni costo o che non si può fallire per la terza volta la qualificazione ai Mondiali, si crea una pressione che non aiuta a giocare meglio, anzi indebolisce la fiducia. Il problema non è l’assenza di grandi campioni, ma il modo in cui questo diventa il centro di ogni analisi, come se senza fuoriclasse non ci fosse futuro. Allo stesso modo, sarebbe utile parlare della nazionale senza ricorrere alla retorica di frasi come “non ci sono più i campioni di una volta”, “non sono orgogliosi di vestire la maglia azzurra” o “non hanno carattere e si sciolgono alle prime difficoltà”. Etichette di questo tipo non spiegano nulla: sono pensieri dogmatici, basati su stereotipi, che semplificano la realtà e impediscono di comprendere davvero le dinamiche e le difficoltà della squadra.

Per costruire qualcosa di solido, invece, è necessario spostare lo sguardo verso ciò che un gruppo può costruire attraverso il lavoro, la fiducia e la collaborazione. Esaltare il collettivo, valorizzare l’idea che ognuno giochi anche per il compagno, puntare sulla tenacia, sull’intensità e sul coraggio di proporre il proprio calcio: questi sono gli elementi che possono trasformare una squadra normale in una squadra forte. Se tifosi, social e media non si possono cambiare, diventa ancora più essenziale chiudersi in un perimetro interno dove la voce del gruppo conti più del rumore esterno.

In questo percorso ogni calciatore dovrebbe chiedersi cosa può portare alla nazionale dalla propria squadra di club: quali abilità,  abitudini e  mentalità può mettere al servizio del collettivo. È altrettanto importante domandarsi cosa si è disposti a fare per gli altri, cosa chiedono i compagni, come ci si può sostenere a vicenda nei momenti difficili. Queste domande aiuterebbero a sciogliere i timori e a rendere più chiaro il contributo di ciascuno.

Serve un dialogo autentico e continuo fra commissario tecnico e  giocatori, capace di accogliere la loro fatica nel convivere con aspettative e giudizi. Parlare apertamente di ciò che succede in campo, di come affrontare le difficoltà e delle richieste reciproche favorisce un senso di sicurezza condivisa, fondamentale per rendere la squadra più compatta.

Quando i giocatori comprendono che non devono dimostrare di essere eroi solitari, ma possono contare l’uno sull’altro, liberano energie e qualità che spesso la pressione soffoca. La fiducia nasce dal gruppo, e il gruppo si costruisce mettendo in comune ciò che ognuno sa fare meglio, proteggendosi dal rumore esterno e abbandonando gli stereotipi che impediscono di vedere la realtà.

Quando il tennis si decide in due punti: il segreto dei campioni

Nel tennis contemporaneo le partite di vertice si giocano su un equilibrio così sottile che spesso la differenza tra vincere e perdere sta in un pugno di punti. Due, tre, a volte anche uno solo. È in quell’istante che si misura la distanza invisibile tra un ottimo giocatore e un campione. Basta osservare Sinner, Alcaraz o Djokovic: la loro superiorità non si manifesta soltanto nei colpi vincenti, nella potenza o nella velocità, ma nella capacità di stare dentro la pressione quando gli altri ne vengono travolti.

Questo tipo di stress agonistico non è un dettaglio, ma una competenza a tutti gli effetti. Chi eccelle nel tennis lo impara lentamente, spesso attraverso sconfitte dolorose, situazioni ingestibili, momenti in cui il braccio si irrigidisce e la mente sembra voler scappare. La differenza è che i campioni non si spaventano davanti a questi sintomi: li riconoscono, li accettano, li usano come parte del gioco.

Il primo elemento che emerge osservandoli da vicino è quanto la loro gestione dello stress sia frutto di un allenamento specifico. Gli staff tecnici dei top player ricreano in campo situazioni di pressione estrema, simulazioni di tie-break ripetuti, punti che valgono doppio, penalità immediate in caso di errore. L’obiettivo non è punire ma abituare: far sì che quel tipo di tensione smetta di essere una minaccia e diventi un terreno familiare. Quando un giovane giocatore viene esposto consapevolmente a questo clima agonistico, la sua reazione emotiva si modifica e, con il tempo, la pressione perde parte del suo potere destabilizzante.

Un ruolo fondamentale lo giocano poi le routine mentali. I campioni usano rituali brevi, quasi impercettibili, ma estremamente efficaci. Sistemano le corde, respirano profondamente, volgono lo sguardo altrove per staccarsi dal punto appena concluso. In quei pochi secondi rimettono ordine nel caos, ripristinano una sorta di equilibrio interiore, si preparano al punto successivo con la mente sgombra. È un modo per creare continuità, per non farsi trascinare né dall’entusiasmo né dallo sconforto. Nel tennis, dove ogni punto è un mondo a sé, questa capacità di resettare rapidamente è un’arma potentissima.

Altrettanto determinante è la gestione dell’attivazione emotiva. Troppa tensione paralizza, troppa calma rallenta. Esiste una zona ideale in cui corpo e mente funzionano al meglio, ed è in quella fascia di intensità che i campioni sanno collocarsi. Lo fanno attraverso il respiro, attraverso parole chiave ripetute sottovoce, attraverso la scelta di focalizzarsi su un singolo obiettivo tecnico. Non cercano di eliminare l’ansia, perché sanno che sarebbe inutile: imparano piuttosto a modularla.

C’è poi un elemento che spesso passa inosservato: la qualità del dialogo interno. Nei momenti decisivi, ciò che un atleta si dice può determinare il tipo di colpo che produrrà a livello motorio. Le frasi che usano i giocatori più forti sono brevi, essenziali, prive di dramma. Non sono slogan motivazionali, ma istruzioni funzionali: un modo per richiamare all’ordine la mente, per proteggerla dal vortice dei pensieri catastrofici. Questo auto-dialogo crea continuità psicologica, evita oscillazioni eccessive e riporta l’attenzione sul processo, non sul risultato.

Da ultimo, ma non per importanza, va sottolineato come la gestione della pressione sia strettamente legata alla fiducia nella propria tecnica. Sinner può giocare un punto pesante con serenità perché ha costruito un servizio affidabile; Alcaraz può osare nei momenti difficili perché ha una gamma di soluzioni aggressiva e stabile. Il lavoro tecnico e tattico diventa dunque un fattore psicologico: più un colpo o un’azione sono solidi, più la mente si autoregola  nei momenti cruciali.

Tutto questo richiede esperienza. Nessun atleta impara a gestire la pressione senza attraversare fasi di confusione, sconfitte amare, match persi a un passo dal traguardo. Ogni punto pesante giocato, vinto o perso, lascia un segno. Ogni situazione di stress allena il carattere quanto un’ora di palestra. È un processo lento e a volte spietato, ma è anche ciò che scolpisce la mentalità dei veri campioni.

Nel tennis di oggi, dove la differenza tra due giocatori può essere quasi invisibile, la capacità di giocare  quei due o tre punti che decidono una partita rappresenta la qualità più preziosa. È un talento che si costruisce, non si eredita. E’ proprio in questa abilità nascosta che Sinner, Alcaraz e gli altri grandi del circuito trovano il loro margine di superiorità.

In un mondo sportivo abituato a celebrare la forza e la velocità, è affascinante scoprire che la vera differenza, nei momenti che contano davvero, non è nei muscoli ma nella mente. I campioni non sono quelli che non sentono la pressione: sono quelli che hanno imparato a conviverci meglio degli altri.

Gli allenatori predicano autocontrollo ma incarnano l’esatto contrario

Negli ultimi anni è diventato evidente un cambiamento profondo nel modo in cui gli allenatori di calcio vivono la partita a bordo campo. Se un tempo il tecnico doveva essere una figura di controllo, quasi distaccata e misurata, oggi sembra normale vedere allenatori che urlano, gesticolano, si disperano o esultano come se fossero ancora giocatori in campo. È come se nel calcio, come in molti altri ambiti della società, fosse diventata una regola mostrare apertamente ogni emozione, senza filtri e senza pudore, perché viviamo in un’epoca in cui esprimere ciò che si ha dentro è percepito come un valore, quasi come una forma di autenticità necessaria.

Questo però ha un costo. Lo si è visto in modo chiaro nel caso di Antonio Conte, che dopo aver ammesso di essere arrivato al limite ha deciso di prendersi una settimana di pausa per stare con la famiglia. Non è l’unico: gli esempi sono tanti. Allegri ha costruito quasi un personaggio attorno alle sue urla e ai lanci della giacca, Spalletti è uscito psicologicamente provato dalla sua esperienza con la nazionale, Guardiola si tormenta letteralmente la testa a bordo campo quando la sua squadra non gira come vorrebbe e Mourinho porta spesso in scena veri e propri atti teatrali di protesta o frustrazione. Tutti modi diversi di vivere lo stesso paradosso: un ruolo che richiede sempre più coinvolgimento emotivo e allo stesso tempo divora chi lo interpreta con troppa intensità.

La cosa interessante è che questa esplosione di emotività si scontra con ciò che viene richiesto ai calciatori. A loro si chiede autocontrollo, capacità di essere aggressivi ma non impulsivi, di dimenticare immediatamente un errore, di non protestare, di rimanere concentrati sul gioco anche quando le emozioni salgono. È singolare pretendere disciplina da chi è in campo mentre si accetta, e talvolta si celebra, la mancanza di controllo di chi sta in panchina. È come se la leadership emotiva dell’allenatore fosse diventata una forma di spettacolo, un segnale di partecipazione totale, ma allo stesso tempo un esempio contraddittorio per chi dovrebbe seguire quelle indicazioni.

La sensazione è che stiamo andando oltre, che questa intensità costante non sia sostenibile. Espressione delle emozioni non significa necessariamente esplosione delle emozioni e forse la vera maturità sta proprio nel saper gestire ciò che si prova, non nel mostrarlo sempre e comunque. In questo senso, il gesto di Conte di fermarsi per respirare e ritrovare equilibrio potrebbe paradossalmente rappresentare la vera forma di leadership di cui oggi c’è bisogno. Una leadership che non brucia, che non logora e che, soprattutto, dà il buon esempio anche fuori dal campo.

Costruire un futuro nello sport per i giovani con autismo

Da 10 anni l’Accademia di calcio integrato si occupa di calcio e autismo. Siamo partiti come una Scuola calcio con 30 bambini di 6-12 anni sino a giungere a oggi in cui sono coinvolti 80 giovani con autismo.

L’attività è sempre stata supportata dalla AS Roma e durante questo periodo formativo e sportivo si è sviluppato un nuovo progetto, finanziato dall’8×1000 della Chiesa Valdese,  per permettere a cinque ragazzi over18 di ampliare il loro percorso non solo come calciatori ma di realizzare il loro desiderio di diventare Mister, grazie a un programma di formazione online proposto dalla Federazione italiana sport paralimpici degli intellettivo relazionali (FISDIR) che fornisce la qualifica di assistente multidisciplinare. A questa esperienza è seguita una borsa lavoro per la durata della stagione agonistica che gli ha permesso di svolgere questo ruolo affiancando gli allenatori in campo.

La storia di questi ragazzi è diventata un podcast “Chiamami Mister” di tre puntate realizzato da Aligi Pontani e Giuseppe Smorto con la voce narrante di Daniela Di Giusto.

Per questi ragazzi, come dice Luca nel podcast: “Essere diventato allenatore, per me e per le persone che mi sono vicine, è un grande orgoglio. Un grandissimo passo che ora devo proseguire” o come ripete Lollo “Ora aspetto di aiutare i piccoli”.  Ascoltare questo podcast permette a tutti di capire che per i giovani con autismo si può costruire un mondo fatto di un futuro positivo e concreto che va oltre quei limiti che siamo soliti attribuirgli.

Fa bene alle nostre anime, ascoltatelo: https://open.spotify.com/show/4dPqPNY0nKynyeM7PFKc3c?si=5HSBTwvHSTWSCnY61C5BTw&nd=1&dlsi=21fe79cd1b0f4526

L’approccio psicologico di Pep Guardiola

Pep Guardiola ha raggiunto le 1000 panchine ed è considerato e si considera il migliore allenatore di calcio. Una storia iniziata nel 2007 quando ha preso la guida della seconda squadra del Barcellona,  vincendo 12 campionati, 14 coppe nazionali e 3 Champions League.

Di seguito riporto il suo approccio psicologico al ruolo di allenatore che ho scritto per il libro “Palla al centro. La psicologia applicata al calcio“.

Un leader si riconosce anche dalle frasi che dice ai suoi giocatori. Guardiola, quando allena una squadra spiega: “Speriamo di commettere subito parecchi errori così impariamo prima”. Non avere paura di sbagliare è l’atteggiamento di chi ha una mentalità vincente, perché ciò che è veramente importante non è inseguire la prestazione perfetta ma quanto si reagisce velocemente agli errori.

Soddisfare questa esigenza di miglioramento attraverso la conoscenza degli errori è stato un punto fermo di Guardiola già da calciatore, sempre alla ricerca di modi per rendere non solo se stesso ma anche la squadra migliore. Implacabile nella ricerca del miglioramento, non appare sfacciato e non vuole sembrare come non è. Il suo obiettivo è quello di diventare il miglior Pep Guardiola che può essere e, fin dall’inizio, ha voluto migliorare nella comprensione della chimica di squadra.

Per realizzare questo progetto ha fondato la sua filosofia di gioco sulle idee di Johan Cruyff.  Ha spesso affermato che è stato il suo più grande idolo e mentore, consapevole della necessità di possesso, sia per il recupero e il mantenimento, due ideali che costituiscono il fondamento della sua filosofia di gioco. Inoltre, ha centrato il suo lavoro sull’importanza di avere valori validi da trasmettere alla squadra fondati sul sacrificio, la responsabilità, il rispetto, l’onestà e il lavoro di squadra. A conferma di ciò, quando iniziò ad allenare il Barcellona, cominciò il suo primo allenamento dicendo che allenare il Barcellona era un onore assoluto, ma subito dopo parlò della necessità di ristabilire l’ordine e la disciplina e della necessità di essere più professionali. Lui stesso è il primo a fornire questo esempio di correttezza, non a caso arriva per primo agli allenamenti e va via per ultimo.

La comunicazione interna è al servizio delle necessità dei giocatori e si consiglia regolarmente con lo staff.

Spende molto tempo a studiare con scrupolo l’avversario: “Tutto ciò che faccio è guardare il filmato dei nostri avversari e quindi provare a capire come demolirli”. Questa proattività spinge Guardiola a conoscere non solo la propria squadra, ma anche gli avversari. Di conseguenza, ogni calciatore della squadra deve essere preparato a sentirsi continuamente osservato. A quel tempo, nel Barcellona, Deco e Ronaldinho non avevano questo atteggiamento e furono sacrificati per il bene della squadra. Il suo approccio al gioco al Barcellona è bene espresso da queste parole:

“Io non voglio che tutti cerchino di dribblare come Leo Messi, bisogna passare la palla, passarla e passarla di nuovo…  Passare, muoversi bene, passare ancora una volta, passare, passare, e passare … Voglio che ogni mossa sia intelligente, ogni passaggio preciso, è così che facciamo la differenza dal resto delle squadre, è tutto quello che voglio vedere”. 

Conte parla tra le righe: un club europeo nasce dai dettagli

In questi giorni Antonio Conte ha più volte fatto riferimento alla crescita del club, alla necessità di assumere una dimensione più “europea” (anche se non lo ha mai detto apertamente). Per ben due volte ha citato lo staff medico e quello fisioterapico, aggiungendo anche: “probabilmente devo crescere anche io per preparare una partita ogni tre giorni”.

Il comportamento comunicativo di Antonio Conte può essere letto come una forma di leadership anticipatoria, in cui l’allenatore non parla solo del presente ma prepara l’ambiente – squadra, società, tifosi – a una certa direzione evolutiva. Psicologicamente, Conte utilizza spesso una comunicazione allusiva per due ragioni: evitare lo scontro diretto con la dirigenza e allo stesso tempo far passare con forza il proprio messaggio.

Conte è un tecnico che costruisce la propria autorevolezza sull’idea di controllo dei dettagli: quando cita lo staff medico o fisioterapico non lo fa mai per caso, ma per ricordare che la performance non dipende solo da lui o dai giocatori, bensì da un sistema complesso in cui ogni anello deve funzionare. È un modo per creare pressione produttiva su tutta la struttura del club, evidenziando impliciti margini di miglioramento senza accusare esplicitamente nessuno.

Quando aggiunge che “deve crescere anche lui”, introduce un elemento chiave: la legittimazione del messaggio attraverso l’autocritica. Psicologicamente è una strategia raffinata: ammettere un proprio limite abbassa le difese altrui e rende più accettabili le critiche velate.

Il suo modo di comunicare è anche una forma di gestione delle aspettative: Conte prepara l’ambiente alla fatica di un percorso che non è solo tecnico, ma culturale e organizzativo. Infine, il suo stile richiama la dinamica tipica dei leader molto esigenti: alternare chiarezza e ambiguità per mantenere alta l’attenzione, motivando ma anche mettendo alla prova la capacità del club di cogliere i suoi messaggi tra le righe.

Mettere la persona la primo posto

Il suicidio di Marshawn Kneeland, 24 anni, giocatore dei Dallas Cowboys mette in evidenza, ancora una volta dopo una tragedia, la necessità di considerare prima la persona e solo dopo le sue prestazioni.

Nel mondo dello sport, l’espressione “put people first” assume un significato particolarmente potente ma poco considerato. Significa pensare all’atleta, allenatore o tifoso prima del risultato, del trofeo o della performance. In altre parole, mettere la crescita umana e il benessere psicofisico al centro dell’esperienza sportiva.

Applicare in modo sistematico questo principio nello sport porterebbe numerosi benefici. Prima di tutto, migliorerebbe la salute mentale degli atleti: riducendone lo stress, il burnout e la paura di fallire, favorendo una motivazione più autentica. Quando un ambiente sportivo valorizza la persona e non solo la prestazione, gli atleti si sentono più sostenuti, più liberi di esprimersi e quindi più performanti.

Un approccio “people first” favorirebbe anche la coesione del gruppo. Le squadre che si fondano su rispetto, ascolto e fiducia reciproca sviluppano una forza collettiva che va oltre il talento individuale. L’empatia diventa la vera chiave del successo.

Infine, questo modo di vivere lo sport aiuterebbe a diffondere modelli positivi per le nuove generazioni: giovani che imparano che vincere è importante, ma che la dignità, la collaborazione e la crescita personale valgono di più.

In sintesi, “put people first” nello sport non significa rinunciare alla vittoria, ma costruire un percorso in cui il trionfo più grande è diventare persone migliori.

Dal giudizio alla comprensione: ripensare l’apprendimento e l’errore

Nella tradizione scolastica, l’insegnamento è stato considerato come un’arte del tutto originale e l’insegnante collocato in una posizione piuttosto ambigua, a metà tra l’artista e l’artigiano: culturalmente eclettico, ricco di iniziativa, indipendente nelle scelte didattiche.

Oggi, nel mondo dell’istruzione, è in atto una vera e propria involuzione pedagogica, favorita anche da spinte tecnologiche e metodologiche eccessivamente uniformanti, dove l’alunno fatica a riconoscersi come protagonista del proprio percorso formativo e il docente sembra aver smarrito la propria funzione di “accompagnatore” nella costruzione delle competenze.

La complessità del processo di insegnamento-apprendimento, in cui l’interazione tra docente e discente rappresenta il fondamento su cui basare stili e strategie metodologiche, può produrre risultati positivi solo se liberata da pregiudizi e dogmatismi valutativi. Come afferma Sánchez Bañuelos«la validità di un progetto didattico non si misura su alcun dogmatismo dottrinario aprioristico, ma sono i risultati educativi che a posteriori ne determinano il reale valore».

In questa prospettiva si inserisce la riflessione di José Mourinho, che ha dichiarato: «Un allenatore deve essere tutto: un tattico, motivatore, leader, metodologo, psicologo». Tale affermazione, al di là del contesto sportivo, esprime una concezione dell’educatore come figura poliedrica, capace di integrare competenze diverse e di adattarsi alle specificità di ciascun individuo. Un suo docente universitario di filosofia gli ricordò infatti che «un allenatore che sa solo di calcio non è di livello superiore», evidenziando come la competenza tecnica, se isolata, non basti a definire la qualità di un professionista.

Un’idea affine emerge nel pensiero di Benjamin S. Bloom, secondo il quale «indipendentemente da ciò che s’impara, quasi tutte le persone possono imparare, se fornite dei giusti antecedenti e condizioni adeguate di apprendimento».
Entrambe le prospettive convergono sull’importanza del contesto e delle condizioni di crescita: per Mourinho, l’efficacia dell’educatore dipende dalla sua capacità di coniugare metodo, empatia e leadership mentre per Bloom, l’apprendimento è possibile per tutti, purché il sistema fornisca strumenti e ambienti adeguati.
Tuttavia, mentre Bloom denuncia i limiti strutturali del sistema scolastico e le disuguaglianze socioeconomiche che ostacolano l’uguaglianza delle opportunità, Mourinho richiama la responsabilità personale dell’insegnante o dell’allenatore nel saper leggere la complessità umana e formarsi in modo continuo. In entrambi i casi, la centralità dell’allievo e la qualità della relazione educativa restano elementi imprescindibili.

Affermare che un alunno “non capisce”, come talvolta si sente dire nei consigli di classe, implica un giudizio statico e riduttivo: presuppone che la difficoltà di comprensione sia un tratto permanente, anziché un ostacolo temporaneo da analizzare e superare.
La pedagogia, invece, parte dal principio che ogni alunno può apprendere, se sostenuto da metodologie adeguate, tempi personalizzati e un clima di fiducia reciproca. Quando un discente non comprende, le cause possono risiedere nel metodo, nel linguaggio, nel contesto o in fattori emotivi e motivazionali: non nella sua incapacità.

L’apprendimento è sempre una relazione. Se emerge una difficoltà, il docente deve interrogarsi — sto utilizzando il metodo giusto? — e riconsiderare strumenti, tempi e strategie. Ogni studente possiede un proprio stile cognitivo e modalità diverse di elaborare le informazioni. Dire “non capisce” significa ignorare questa diversità, che è invece il punto di partenza per sviluppare competenze autentiche.

L’etichettamento produce effetti negativi duraturi: mina la motivazione, riduce l’autoefficacia e alimenta un circolo vizioso d’insuccesso. La pedagogia, al contrario, richiede osservazione analitica, valutazione formativa e interventi mirati.

Tale attenzione diventa ancor più necessaria nei confronti degli alunni di origine straniera che non hanno ancora piena padronanza della lingua italiana. Lo stesso è accaduto negli anni Sessanta, quando i figli delle famiglie provenienti dal Sud Italia frequentavano le scuole del Nord, vivendo forme simili di esclusione linguistica e culturale. In tal senso, la scuola italiana non ha mai realmente superato queste dinamiche, dimostrando una persistente difficoltà nell’integrare pienamente la diversità come valore educativo.

La normativa scolastica italiana prevede che la valutazione tenga conto del percorso linguistico e di inserimento, non soltanto dei risultati assoluti. Se uno studente comprende i concetti ma fatica a esprimerli linguisticamente, la scuola deve aiutarlo a colmare il divario, non penalizzarlo. Confondere la conoscenza dei contenuti con la competenza linguistica significa tradire la funzione inclusiva dell’istruzione.

Personalizzare l’insegnamento, adattare gli obiettivi e diversificare gli strumenti di valutazione sono condizioni imprescindibili per garantire equità e rispetto dei principi costituzionali. Bocciare uno studente che ha mostrato impegno e progressi, ma che incontra difficoltà linguistiche, contraddice la finalità educativa della scuola, che deve offrire pari opportunità di successo formativo.

L’istituzione scolastica, in quanto comunità educativa, è chiamata a predisporre strumenti di supporto linguistico e didattico — glossari, prove semplificate, tutoraggio, attività di potenziamento — che permettano agli studenti di dimostrare le proprie reali competenze disciplinari.
Ogni volta che il docente pianifica un intervento educativo, ha il dovere di riflettere con rigore su mezzi, contenuti e metodi, riconoscendo la responsabilità condivisa del processo formativo.

In caso contrario, entrambi gli attori — insegnante e alunno — rischiano di perdere qualcosa, e la mancanza di apertura al cambiamento istituzionale e curricolare non farà che ampliare le disuguaglianze, alimentando nuove forme di disagio e di ingiustizia sociale.

Chi può e vuole… adesso.

Massimo Oliveri e Alberto Cei

Noi contro il mondo: il potere e i limiti della mentalità di Conte

La cosiddetta sindrome di accerchiamento è un atteggiamento psicologico spesso adottato da allenatori carismatici come Antonio Conte. Consiste nel percepire — o far percepire — a sé stessi e al gruppo di essere sotto assedio: dai media, dagli avversari o persino dalla società sportiva. È una strategia di motivazione basata sull’idea che, sentendosi minacciati, si rafforzi l’identità collettiva e la voglia di reagire. L’allenatore, in questo caso, diventa il leader che protegge il gruppo da un “mondo esterno” ostile.

Il sentirsi accerchiato può generare una forza straordinaria: spinge a superare i propri limiti, a lavorare con maggiore intensità e a mettere da parte gli ego personali per un obiettivo comune. Molti tecnici alimentano volutamente l’idea del nemico per tenere alta la concentrazione e creare un “noi contro tutti” che cementa la squadra.

Tuttavia, questa visione del calcio differisce profondamente da quella che lo intende come condivisione di un progetto, fondato sulla collaborazione, sulla fiducia reciproca e sulla crescita collettiva. La sindrome di accerchiamento si basa sul conflitto e sulla reazione, mentre il calcio come progetto condiviso si fonda sulla costruzione e sull’evoluzione comune. Nel primo caso, l’energia nasce dalla difesa; nel secondo, dalla partecipazione.

Il rischio è che l’ossessione per i nemici esterni riduca la capacità di creare un’identità positiva e duratura, fatta di idee di gioco e senso di appartenenza più ampio. La coesione nata dal sentirsi accerchiati è forte ma fragile: si regge sulla contrapposizione. Quella costruita sulla condivisione è più lenta ma più stabile. Non a caso, Conte — pur spesso vincente — tende a restare poco nei club che allena: la tensione che alimenta il suo metodo, col tempo, diventa insostenibile per l’ambiente. È un approccio che brucia energie, genera risultati immediati, ma difficilmente crea cicli lunghi o serenità.

 

Il sogno olimpico di Sofia Goggia: un obiettivo scritto 20 anni fa

Divertente che oggi su Instagram Sofia Goggia per ricordare a tutti il suo obiettivo di vincere l’oro alla e prossime Olimpiadi di Cortina, abbia montato sotto una sua foro la scheda degli obiettivi compilata più di 20 anni fa in cui scriveva che era proprio questo il sogno della sua carriera agonistica e che questa scheda è tratta dal mio libro del 1987  intitolato “Mental Training”.