Nella tradizione scolastica, l’insegnamento è stato considerato come un’arte del tutto originale e l’insegnante collocato in una posizione piuttosto ambigua, a metà tra l’artista e l’artigiano: culturalmente eclettico, ricco di iniziativa, indipendente nelle scelte didattiche.
Oggi, nel mondo dell’istruzione, è in atto una vera e propria involuzione pedagogica, favorita anche da spinte tecnologiche e metodologiche eccessivamente uniformanti, dove l’alunno fatica a riconoscersi come protagonista del proprio percorso formativo e il docente sembra aver smarrito la propria funzione di “accompagnatore” nella costruzione delle competenze.
La complessità del processo di insegnamento-apprendimento, in cui l’interazione tra docente e discente rappresenta il fondamento su cui basare stili e strategie metodologiche, può produrre risultati positivi solo se liberata da pregiudizi e dogmatismi valutativi. Come afferma Sánchez Bañuelos: «la validità di un progetto didattico non si misura su alcun dogmatismo dottrinario aprioristico, ma sono i risultati educativi che a posteriori ne determinano il reale valore».
In questa prospettiva si inserisce la riflessione di José Mourinho, che ha dichiarato: «Un allenatore deve essere tutto: un tattico, motivatore, leader, metodologo, psicologo». Tale affermazione, al di là del contesto sportivo, esprime una concezione dell’educatore come figura poliedrica, capace di integrare competenze diverse e di adattarsi alle specificità di ciascun individuo. Un suo docente universitario di filosofia gli ricordò infatti che «un allenatore che sa solo di calcio non è di livello superiore», evidenziando come la competenza tecnica, se isolata, non basti a definire la qualità di un professionista.
Un’idea affine emerge nel pensiero di Benjamin S. Bloom, secondo il quale «indipendentemente da ciò che s’impara, quasi tutte le persone possono imparare, se fornite dei giusti antecedenti e condizioni adeguate di apprendimento».
Entrambe le prospettive convergono sull’importanza del contesto e delle condizioni di crescita: per Mourinho, l’efficacia dell’educatore dipende dalla sua capacità di coniugare metodo, empatia e leadership mentre per Bloom, l’apprendimento è possibile per tutti, purché il sistema fornisca strumenti e ambienti adeguati.
Tuttavia, mentre Bloom denuncia i limiti strutturali del sistema scolastico e le disuguaglianze socioeconomiche che ostacolano l’uguaglianza delle opportunità, Mourinho richiama la responsabilità personale dell’insegnante o dell’allenatore nel saper leggere la complessità umana e formarsi in modo continuo. In entrambi i casi, la centralità dell’allievo e la qualità della relazione educativa restano elementi imprescindibili.
Affermare che un alunno “non capisce”, come talvolta si sente dire nei consigli di classe, implica un giudizio statico e riduttivo: presuppone che la difficoltà di comprensione sia un tratto permanente, anziché un ostacolo temporaneo da analizzare e superare.
La pedagogia, invece, parte dal principio che ogni alunno può apprendere, se sostenuto da metodologie adeguate, tempi personalizzati e un clima di fiducia reciproca. Quando un discente non comprende, le cause possono risiedere nel metodo, nel linguaggio, nel contesto o in fattori emotivi e motivazionali: non nella sua incapacità.
L’apprendimento è sempre una relazione. Se emerge una difficoltà, il docente deve interrogarsi — sto utilizzando il metodo giusto? — e riconsiderare strumenti, tempi e strategie. Ogni studente possiede un proprio stile cognitivo e modalità diverse di elaborare le informazioni. Dire “non capisce” significa ignorare questa diversità, che è invece il punto di partenza per sviluppare competenze autentiche.
L’etichettamento produce effetti negativi duraturi: mina la motivazione, riduce l’autoefficacia e alimenta un circolo vizioso d’insuccesso. La pedagogia, al contrario, richiede osservazione analitica, valutazione formativa e interventi mirati.
Tale attenzione diventa ancor più necessaria nei confronti degli alunni di origine straniera che non hanno ancora piena padronanza della lingua italiana. Lo stesso è accaduto negli anni Sessanta, quando i figli delle famiglie provenienti dal Sud Italia frequentavano le scuole del Nord, vivendo forme simili di esclusione linguistica e culturale. In tal senso, la scuola italiana non ha mai realmente superato queste dinamiche, dimostrando una persistente difficoltà nell’integrare pienamente la diversità come valore educativo.
La normativa scolastica italiana prevede che la valutazione tenga conto del percorso linguistico e di inserimento, non soltanto dei risultati assoluti. Se uno studente comprende i concetti ma fatica a esprimerli linguisticamente, la scuola deve aiutarlo a colmare il divario, non penalizzarlo. Confondere la conoscenza dei contenuti con la competenza linguistica significa tradire la funzione inclusiva dell’istruzione.
Personalizzare l’insegnamento, adattare gli obiettivi e diversificare gli strumenti di valutazione sono condizioni imprescindibili per garantire equità e rispetto dei principi costituzionali. Bocciare uno studente che ha mostrato impegno e progressi, ma che incontra difficoltà linguistiche, contraddice la finalità educativa della scuola, che deve offrire pari opportunità di successo formativo.
L’istituzione scolastica, in quanto comunità educativa, è chiamata a predisporre strumenti di supporto linguistico e didattico — glossari, prove semplificate, tutoraggio, attività di potenziamento — che permettano agli studenti di dimostrare le proprie reali competenze disciplinari.
Ogni volta che il docente pianifica un intervento educativo, ha il dovere di riflettere con rigore su mezzi, contenuti e metodi, riconoscendo la responsabilità condivisa del processo formativo.
In caso contrario, entrambi gli attori — insegnante e alunno — rischiano di perdere qualcosa, e la mancanza di apertura al cambiamento istituzionale e curricolare non farà che ampliare le disuguaglianze, alimentando nuove forme di disagio e di ingiustizia sociale.
Chi può e vuole… adesso.
Massimo Oliveri e Alberto Cei