Archivio mensile per ottobre, 2025

Il sogno olimpico di Sofia Goggia: un obiettivo scritto 20 anni fa

Divertente che oggi su Instagram Sofia Goggia per ricordare a tutti il suo obiettivo di vincere l’oro alla e prossime Olimpiadi di Cortina, abbia montato sotto una sua foro la scheda degli obiettivi compilata più di 20 anni fa in cui scriveva che era proprio questo il sogno della sua carriera agonistica e che questa scheda è tratta dal mio libro del 1987  intitolato “Mental Training”.

 

Allenatori-esordienti in squadre top: una scelta tra fascino e illusione

Nel calcio di oggi le mode cambiano in fretta e una delle più diffuse è quella di affidare la panchina a un ex campione un volto conosciuto qualcuno che rappresenti la storia del club e che possa riportare entusiasmo e appartenenza dopo stagioni difficili da Seedorf a Pirlo passando per Thiago Motta e Tudor alla Juventus negli ultimi anni in tanti hanno provato questa strada convinti che il carisma potesse bastare a ricostruire un ciclo.

All’inizio funziona quasi sempre, la squadra reagisce, l’ambiente si accende, lo spogliatoio ritrova stimoli e il nuovo tecnico viene accolto come un profeta. L’effetto novità è forte, le idee sono semplici, la comunicazione diretta e il gruppo si compatta i risultati arrivano e sembra l’inizio di una nuova era ma il calcio è crudele e la magia spesso svanisce in fretta.

Dopo qualche mese arrivano le prime difficoltà e lì si vede la differenza tra chi è pronto e chi no, perché allenare non è solo mettere in campo idee, è gestire tensioni, crisi, infortuni e spogliatoi complicati; è capire i momenti e prendere decisioni impopolari e serve esperienza quella che un esordiente di solito non ha.  Molti ex campioni scoprono che il rispetto guadagnato da giocatori non basta per tenere insieme un gruppo quando i risultati non arrivano

A volte manca anche una base solida, un metodo vero, si cerca d’imitare i grandi modelli Guardiola o Klopp ma senza il tempo e la struttura per farlo davvero e così l’entusiasmo iniziale lascia spazio alla confusione, il gioco si perde, i risultati calano e la società che all’inizio voleva ricominciare si ritrova punto e a capo.

Eppure ci sono esempi che fanno sperare Arteta con l’Arsenal, Xabi Alonso con il Leverkusen,  Guardiola ai suoi inizi con il Barcellona;  storie in cui la scommessa ha funzionato perché c’era un progetto solido, una dirigenza forte, uno staff preparato e soprattutto pazienza e fiducia nella crescita del tecnico e nel suo modo di vedere il calcio

Affidarsi a un ex campione può essere una scelta romantica e affascinante ma non può diventare una scorciatoia, serve metodo, equilibrio e la forza di resistere ai momenti difficili altrimenti si rischia di vivere un sogno che dura pochi mesi, il carisma e la conoscenza dello spogliatoio sono un punto di partenza ma senza una visione e un lavoro quotidiano restano solo belle parole

Il calcio moderno corre veloce e chiede risultati subito ma le vere rivoluzioni nascono dal tempo e dalle idee non dall’effetto nostalgia, scegliere un allenatore giovane può essere la strada giusta ma solo se dietro c’è una società che crede davvero nel futuro non solo nel nome scritto sulla maglia.

Quando l’errore diventa colpa: l’approccio attuale non forma gli arbitri e non aiuta le squadre

Il designatore degli arbitri Gianluca Rocchi, in seguito agli errori commessi dai giudici di gara  nelle ultime partite, ha dichiarato: “Non vogliamo punire nessuno, ma capire la logica dell’errore. Se è comprensibile, non c’è problema; se è illogico o nasce da protagonismo, allora sì, fermiamo l’arbitro. Il nostro compito è fornire il miglior servizio alle squadre”. Parole ragionevoli, ma che rivelano un’impostazione più disciplinare che formativa, che rischia di non migliorare gli arbitri e tantomeno il servizio alle squadre.

Affermare che si vuole capire la logica dell’errore sembra un atteggiamento aperto. Tuttavia, senza un processo strutturato di analisi, confronto e revisione, resta una semplice valutazione retrospettiva: l’errore viene valutato più o meno accettabile  ma non si aiuta l’arbitro a crescere. Ad alto livello, la formazione arbitrale moderna dovrebbe essere continuativa e concentrarsi sulle ragioni dell’errore — pressioni, posizionamento, lettura del gioco, comunicazione col VAR — e su come evitare che si ripeta.

Inoltre, quando si afferma che un errore “illogico o da protagonismo” porta a fermare l’arbitro, il messaggio è chiaro: chi sbaglia, rischia. Questo non crea cultura, ma ansia da prestazione. L’arbitro diventa più attento a non sbagliare che a interpretare correttamente. Ne derivano decisioni più prudenti, meno autentiche, più condizionate dalla paura del giudizio che dal senso del gioco.

Servire le squadre significa migliorare la qualità media, non fermare i “colpevoli”. Il capo degli arbitri dice di voler offrire “il miglior servizio alle squadre”. Ma fermare chi sbaglia non migliora la qualità complessiva del gruppo arbitrale, così come cambiare un calciatore dopo un errore non migliora la squadra. Le squadre hanno bisogno di arbitri competenti, coerenti e sereni, non di una rotazione continua di fischietti timorosi di perdere la designazione e i loro guadagni.

Il mondo arbitrale italiano è ricco di professionalità, ma spesso schiacciato da una cultura della colpa. Servirebbe invece un cambio di paradigma, che parta dall’analisi sistematica delle decisioni, non per giudicare, ma per apprendere; promuovere la discussione tecnica e la condivisione dei criteri; valorizzando in questo modo la continuità e la trasparenza nel processo di valutazione. Solo così si costruisce un sistema realmente formativo per le prestazioni arbitrali di alto livello, dove l’arbitro non teme di essere fermato ma si sente stimolato a migliorare.

 

Paolo Casarin: Vita e pensieri di un arbitro

Paolo Casarin ha pubblicato la lunga storia della sua vita come arbitro, capo degli arbitri italiani e dirigente di livello mondiale nel mondo del calcio. Il libro s’intitola Vita e pensieri di un arbitro – Sessant’anni dentro e fuori il campo di calcio”, ed è pubblicato da Rizzoli con la prefazione di Gianni Mura. Casarin ci porta dentro la sua vita, dalle prime partite arbitrate sui campetti polverosi fino ai palcoscenici internazionali di FIFA e UEFA. Un racconto personale e sincero che è anche la storia di un calcio che non esiste più: quello senza VAR, senza replay, ma con passione, rispetto e – a volte – isolamento. Un libro diretto, appassionato, pieno di aneddoti, visione e riflessioni su un ruolo centrale e troppo spesso frainteso.

Casarin fornisce una definizione del calcio “inteso anche come la ricerca del modo più efficace per vincere una sfida: due gruppi di giocatori in contrapposizione  fra loro, guidati da due maestri a bordo campo e chiamati a ottenere una momentanea superiorità” e spiega che usando una terminologia introdotta da Piaget afferma che ” nel calcio in quanto gioco prevalgono i processi di assimilazione” giocare secondo le proprie capacità ma nel “calco in quanto spettacoloso prevalgono i processi di accomodamento, dal momento che il giocatore è costretto a modificare continuamente se stesso per contribuire alle necessità della squadra”.

La sua vita nel calcio è stata un’esperienza senza fine, un’esperienza esistenziale vissuta come persona competente e consapevole del valore del ruolo e non da arbitro autoritario che vuole imporre la sua autorità nel calcio. Nelle riunioni svolte con gli arbitri da designatore ha continuato a riproporre questo approccio alla prestazione arbitrale dicendo sempre che l’arbitro era un invitato delle squadre e che ognuno dove sentirsi responsabile del suo ruolo, anche perchè la domenica seguente un altro loro collega sarebbe sceso sullo stesso campo e doveva trovare un ambiente favorevole a causa di quanto era successo nelle partite precedenti.

Grazie a questo approccio positivo verso la componente psicologica dell’arbitraggio ho potuto lavorare con Paolo Casarin per tutti gli anni in cui è stato designatore degli arbitri di Serie A. Al lavoro svolto insieme ha voluto dedicare dedicare un capitolo di questo libro dal titolo “L’area psicologica dell’attività arbitrale” in cui descrive quanto fatto in quegli anni. Abbiamo così introdotto la preparazione psicologia alla partita, abbiamo valutato le capacità attentive e interpersonali degli arbitri e altro ancora. Personalmente, quegli anni fanno parte dei momenti migliori della mia vita professionale ed è stato un periodo, lungo, ma irripetibile perchè al termine dell’esperienza di Casarin in questo ruolo si è conclusa  anche la mia collaborazione e da allora mai nessun altro si è occupato di quest aspetti della vita arbitrale.

Chiamami Mister: podcast sul sogno di diventare istruttori nello sport

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“Chiamami Mister” è il podcast appena uscito realizzato da Aligi Pontani e Giuseppe Smorto sull’esperienza di 5 ragazzi over18 con autismo che giocano a calcio nella nostra Accademia di calcio integrato e che sono diventati aiuto-istruttore di calcio. Sono storie che vogliono sviluppare l’idea che lo sport possa diventare  per questi ragazzi appassionati di calcio non solo un piacere ma anche una possibile opportunità lavorativa.

Il podcast si compone di tre puntate, ascoltatelo

AI Overview da Safari
“Chiamami mister” è un podcast in tre puntate di Aligi Pontani e Giuseppe Smorto che racconta l’esperienza di un’accademia di calcio integrato a Roma, dove cinque ragazzi con autismo sono diventati vice-istruttori. Il podcast esplora il loro percorso, dagli allenamenti iniziali al superamento dell’esame di abilitazione, con il sostegno di genitori, istruttori e una voce narrante di Daniela Di Giusto. L’iniziativa, realizzata in collaborazione con Fandango Podcast, mira a sfatare i luoghi comuni sull’autismo attraverso lo sport.
  • Contenuto:

    Storie di incontri, frustrazioni, gol segnati e subiti da parte di ragazzi autistici che hanno conseguito un esame per diventare assistenti allenatori.

  • Persone:

    Aligi Pontani, Giuseppe Smorto (scrittori), Daniela Di Giusto (voce narrante), e i ragazzi dell’Accademia del Calcio Integrato di Roma.

  • Obiettivo:

    Smantellare i pregiudizi sull’autismo e dimostrare come lo sport possa favorire l’integrazione sociale, l’abbraccio e l’uscita dall’isolamento.

  • Disponibilità:
    Il podcast è gratuito e disponibile su tutte le piattaforme audio.

Spunti per parlare con i genitori

I genitori dovrebbero essere le prime guide nel cuore dei propri figli, insegnando loro il valore della responsabilità e della condivisione. Due semi preziosi che, se piantati con amore, cresceranno forti dentro di loro e li accompagneranno per tutta la vita.

È importante far capire che le difficoltà e gli errori non sono fallimenti, ma occasioni per imparare, per scoprire chi si è davvero e per capire che anche i momenti più duri hanno qualcosa da insegnare. Solo affrontando gli ostacoli si impara a camminare con coraggio.

I genitori dovrebbero trasmettere ai figli la gratitudine, quella che nasce dal cuore e che insegna ad apprezzare le piccole cose: un sorriso, un gesto gentile, un pasto condiviso, una giornata serena. Essere grati rende leggeri e dona forza anche nei momenti difficili.

Ogni azione, piccola o grande che sia, porta con sé una conseguenza. Le scelte negative lasciano segni e insegnamenti, mentre quelle positive costruiscono ponti, aprono strade e creano felicità. Capire questo aiuta i bambini a crescere con senso di giustizia e rispetto.

E forse una delle lezioni più importanti è non cedere alla cultura del “tutto e subito”. Viviamo in un mondo che corre, ma i veri valori nascono nella lentezza, nell’attesa, nella dedizione quotidiana. Insegnare la pazienza significa donare ai figli la capacità di godere del percorso, non solo del traguardo.

Solo così potranno diventare adulti consapevoli, capaci di affrontare la vita con equilibrio, di amare con sincerità e di riconoscere la bellezza nelle cose semplici. Perché l’educazione non è solo insegnare a vivere: è insegnare ad essere, con il cuore aperto e la mente libera.

Giocare come piace o giocare per vincere: la necessità di trovare un equilibrio

Nella mia esperienza nel tennis mi troppo spesso ad affrontare la situazione  in cui alcuni giovani, ragazzi e ragazze,  dicono spesso: “Voglio giocare come piace a me”. E’ comprensibile: ognuno vuole divertirsi, esprimersi, sentirsi libero in campo.

Ma spesso dietro questa frase si nasconde una trappola mentale che limita la crescita e porta solo frustrazione.

Quando un giocatore sceglie di giocare “come gli piace”, di solito significa che privilegia lo stile istintivo, i colpi spettacolari, l’improvvisazione. Tuttavia, questo approccio, se non è sostenuto da disciplina e consapevolezza tattica, porta a commettere troppi errori. E ogni errore mina la fiducia, finendo per rendere il gioco meno piacevole di quanto si immaginava.

Dall’altro lato, quando un allenatore propone un metodo più “giusto” – cioè più tattico, paziente, efficace – molti giovani si annoiano. Lo percepiscono come una forma di costrizione, un modo che “non li rappresenta”. Ma quella noia nasce solo perché ancora non vedono il risultato dietro lo sforzo. Non si rendono conto che proprio attraverso quel tipo di gioco, apparentemente meno divertente, possono costruire la base per vincere, migliorare e, col tempo, esprimere se stessi con efficacia e libertà.

Giocare “come ti piace” è una bella idea, ma se non impari a farlo nel modo giusto, diventa un autoinganno. Ti sembra libertà, ma in realtà ti incatena agli stessi errori e alle stesse delusioni.
Il vero piacere nel tennis non è solo colpire forte o fare il vincente spettacolare: è sentire di avere il controllo, di saper scegliere, di essere padrone del gioco. E questa sensazione arriva solo quando impari a unire libertà e disciplina.

Quindi, cosa dire a un ragazzo che pensa così?

“Il tuo modo di pensare non è sbagliato perché vuoi divertirti, ma è incompleto. Giocare come ti piace è un obiettivo bellissimo — ma devi costruirti le basi per poterlo fare riducendo il numero di errori e controllando in modo più efficace  il gioco. Se ti limiti a giocare come vuoi senza imparare il metodo, ti condanni a non essere mai soddisfatto: perché non vincerai abbastanza, e neanche ti sentirai migliorare”.

Il tennis, come la vita, ti insegna che la vera libertà arriva quando hai padroneggiato le regole.
Prima impari a giocare in modo intelligente, poi potrai davvero giocare “come piace a te” — ma con risultati, con soddisfazione, e con il piacere profondo di sapere che stai facendo le cose bene.

Capire la mente dei giovani atleti

Capire la mente dei giovani atleti attraverso la loro mentalità

La “mentalità fissa”

Molti ragazzi credono che il talento sia qualcosa di fisso: o ce l’hai o non ce l’hai.
Quando sbagliano, interpretano l’errore come una prova di inadeguatezza (“non sono capace”) invece che come parte naturale dell’apprendimento.
Il risultato che si ottiene è l’affermarsi della paura di sbagliare, di un calo dell’attenzione, di auto-colpevolizzazione, rabbia e svalutazione.

La “mentalità orientata alla crescita”

È la convinzione che le abilità si sviluppano con l’impegno, la pratica e l’errore.
Chi ha questa mentalità vede l’errore come informazione utile, non come fallimento.
Obiettivo dell’allenatore è di trasformare gli errori in opportunità di miglioramento.

Segnali da riconoscere

Comportamento

osservabile

Significato

psicologico

Rischio per

l’allenamento

Si arrabbia dopo errore Mentalità fissa/perfezionismo Calo autostima, evitamento
Non ascolta le correzioni Rumore mentale/ansia Difficoltà di apprendimento
Si colpevolizza spesso Attribuzione interna rigida Blocco motivazionale
Svalutazione Identità legata a prestazione Disinvestimento/abbandono
Distrazione frequente Sovraccarico emotivo Errori ripetuti e frustrazione

Strategie pratiche per l’allenatore

Normalizzare l’errore

  • “Qui si viene per imparare, non per essere perfetti.”

Inizia l’allenamento dicendo:

“Oggi cerchiamo almeno 5 errori utili da cui imparare.”

  • Dopo un errore, chiedi:

“Cosa hai imparato da questo errore?” invece di “Perché hai sbagliato?”

  • Usa l’errore come parte del feedback:

Descrivi il fatto (“Hai perso l’equilibrio sul piede d’appoggio”)

Indica la soluzione (“Proviamo a piantare il piede un po’ prima”)

Chiamami Mister: il podcast dell’inclusione

L’Accademia di calcio integrato di Roma: da dieci anni accoglie ragazzi con autismo. A cinque di loro, diventati maggiorenni è stato possibile fornire l’opportunità di fare un Corso online della Fisdir per acquisire la qualifica di  aiuto-istruttore, con la benedizione di Dybala, il fuoriclasse della Roma. Un vero e proprio lavoro, prima di formazione e poi di lavoro  conquistato dopo un esame. Su questa esperienza è stato realizzato un podcast: Chiamami Mister. Racconta in tre puntate da venti minuti circa i momenti di incontro e la gioia, la loro esperienza di mister sul campo a sostegno di altri ragazzi con autismo, supportati dall’esperienza dei professionisti dell’Accademia (istruttori, psicologi dello sport, medici  e logopedista) e dei loro genitori. Gli autori sono Aligi Pontani e Giuseppe Smorto, la voce narrante è di Daniela Di Giusto.


Parlare e condividere sono aspetti rilevanti dell’allenamento

Parlare e condividere idee sono parte dell’allenamento. Molti atleti si lamentano di non essere ascoltati dai loro allenatori, che quando sbagliano si arrabbiano, che in allenamento li ignorano, che gli chiedono solo di allenarsi di più e quando forniscono prestazioni negative gli dicono che non hanno fiducia in se stessi o che avrebbero dovuto concentrarsi di più.

Se l’essere umano potesse cambiare solo grazie all’avere sentito queste frasi nessuno incontrerebbe mai delle difficoltà, poiché al primo errore saprebbe subito cosa fare e si correggerebbe automaticamente:

Sei agitato? Calmati! Sei distratto? Concentrati! Hai paura? Pensa in positivo!“. 

Sappiamo, grazie alle nostre esperienze quotidiane, che questo approccio non serve a niente, ma molti quando assumono un ruolo di leadership, che siano genitori, insegnanti o allenatori, dimenticano questa semplice verità e pretendono dagli altri che cambino i loro comportamenti, perché sollecitati da queste semplici affermazioni.

Quando l’allenatore agisce in questo modo si comporta da persona che ignora il valore della componente psicologica della prestazione, e cioè che avere la competenza per fornire una prestazione di livello elevato, non vuole dire saperla utilizzare se in quel momento si ha paura o si è poco convinti. Convinzione che non si acquisisce automaticamente solo aumentando il carico dell’allenamento.

Per fare capire quanto sia mentalmente coinvolgente il lavoro di allenatore, Adrian Moorhouse, nuotatore inglese oro a Seoul e ora imprenditore di una azienda internazionale di consulenza, Lane4, ha detto “L’unica cosa che il mio allenatore non ha fatto per me è nuotare“.

Concetto ribadito da Daniel Costantini, allenatore della nazionale francese di pallamano campione del mondo: “Ho sentito che dovevo cambiare non nella natura del mio allenamento ma nella natura delle mie relazioni con i giocatori … Ho lanciato questo modo partecipativo di condurre una squadra servendomi della maieutica di Socrate a mio tornaconto“.

Per chiudere con un pensiero di Alex Ferguson:”A metà della partita sembravamo spacciati, ma come dissi alla fine di quella stagione: In una situazione di crisi devi solo calmare le persone. Segnammo cinque gol e vincemmo“.

Si potrebbe continuare con altre testimonianze per confermare il valore del dialogo e della condivisione fra allenatore e squadra. Alcune domande per gli allenatori:

Come mai molti tecnici non si comportano in questo modo Non sono consapevoli della rilevanza del dialogo con il giocatore e la squadra?”.

“Come dialoghi con i tuoi calciatori?”.

“Li interrompi mentre parlano? In che modo quello che ti dicono migliora il tuo modo di allenare?”

“In che percentuale usi il termine VOI (esempio: “Stasera avete giocato male”) oppure NOI (esempio: “Oggi abbiamo giocato male”)?

In questi anni, mi sono costruito la convinzione che molti allenatori cercano nei libri, nei corsi che frequentano e negli esperti che ascoltano solo quei concetti di cui hanno bisogno per confermare il loro schema mentale dell’allenamento e della gestione dei calciatori. In tal modo, sono portati a mettere in secondo piano i risultati realizzati con l’applicazione d’idee derivate da esperienze diverse. Suggerirei di partire da un approccio diverso da questo di tipo conservativo, ponendo al centro dell’interesse la ricerca l’identificazione di ciò che differisce dal proprio punto di vista abituale e l’analisi di quali potrebbero essere i benefici concreti se si adottassero modalità diverse di approccio al proprio lavoro e alle relazioni con la squadra.