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Philip Roth

Andrea Pirlo: l’ultimo dei talenti italiani si è ritirato

Andrea Pirlo ha definitivamente concluso la sua carriera. Il suo ritiro sancisce la fine di un tipo di calciatore che è tecnico, guida il gioco della squadra, calcia le punizioni e segna le reti, è un leader, nei momenti decisivi della partita fa la differenza. In Italia, non ci sono più giocatori di questo genere, lui era l’ultimo, insieme a lui ci sono stati nello stesso periodo Totti, Baggio e Del Piero.

Evidentemente la formazione calcistica dei nostri giovani non permette più lo sviluppo di questo tipo di calciatori, adesso in nazionale abbiamo un centrocampo fatto di anonimi e un attacco di giovani che non hanno ancora vinto nulla e spesso deludono. Abbiamo una difesa forte, ex-fortissima, speriamo basti per vincere con la Svezia e andare ai mondiali in Russia.

I goal migliori di Pirlo

Andrea Pirlo

Cos’è l’eccellenza

 ECCELLENZA

10% Talento & 90% Sudore

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Giusto per ricordarlo a chi l’avesse dimenticato per un momento 

Rapporto Federcalcio dimostra che non c’è posto per i giovani

E’ stato presentato ieri il rapporto annuale della Federcalcio che tra i molti dati presentati ne ha evidenziato uno particolarmente negativo: siamo all’ultimo posto in Europa per giocatori provenienti dall’attività giovanile (8,4%). Che si accompagna alla presenza del 54% di calciatori stranieri in Serie A. Non è certo un dato nuovo poiché nel 2013 la FIFA aveva in uno studio apparso sulla sua rivista aveva evidenziato che:

  • l’esterofilia delle squadre del di Serie A testimoniata dal quinto posto per l’impiego dei calciatori stranieri: soltanto le leghe cipriota, inglese, portoghese, belga, italiana e turca – nell’ordine – superano la soglia del 50% (52,2%). L’Italia, insomma, primeggia nella classifica di chi trascura i suoi giovani di talento.
  • Percentuale dei calciatori provenienti dal’attività giovanile. Occupiamo solitari l’ultima posizione con una percentuale inferiore al 10% (7,8%), lontano da Germania (14,7%), Inghilterra (17,5%), Francia (21,1%) e Spagna (25,6%).
Inoltre questo dato negativo emerge anche quando si analizzano le grandi squadre europee. Provengono dal settore giovanile: Manchester United, 40%; Barcellona; 59%, Ajax, 55%  e Montpellier, 44%.

Non basta sapere cosa fare, bisogna farlo

Talvolta gli atleti e le squadre commettono un errore grave, si fidano troppo di quello che pensano di sapere fare e così in gara non lo fanno perché si convincono che basta averlo pensato perché poi succeda. Così è la Roma di questo periodo che entra in campo convinta di vincere ma poi non gioca perché la partita l’aveva già vinta nello spogliatoio. Oppure chi dice “tutte le volte che faccio bene il riscaldamento poi gioco male”. Il riscaldamento predispone a giocare bene ma poi bisogna farlo in partita: sono due aspetti separati.

Essere bravi, bene allenati e mentalmente pronti è utile ma lo è altrettanto sapere che bisognerà sapere mostrare queste competenze sul campo. Altrimenti non serve a niente.

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Le regole della crescita secondo Piketty

Thomas Piketty è uno dei più rilevanti economisti e ha scritto un libro fondamentale per spiegare le dinamiche che guidano l’accumulo e la distribuzione del capitale e l’evoluzione storica della crescita mondiale e delle disuguaglianze.

Di seguito le ragioni che secondo Piketty sono alla base  dello sviluppo di un paese.

  • Lo sviluppo avviene quando i più poveri recuperano sui più ricchi attingendo allo stesso sapere tecnologico, di qualificazione, di cultura.
  • La diffusione delle conoscenze è determinata dall’apertura internazionale e commerciale.
  • La diffusione delle conoscenze si manifesta tramite investimenti e istituzioni che permettono  investimenti significativi nella formazione delle persone in un quadro di legalità.
  • E’ necessario un potere pubblico legittimo ed efficiente.
Alcuni anni fa, Richard Florida documentò che alla base dello sviluppo vi è il talento, la tolleranza e la tecnologia. Concetti analoghi a quelli espressi ora da Piketty.
Sulla base di queste argomentazioni ognuno può trarre le proprie considerazioni in relazione  a quanto le istituzioni del nostro paese agiscono in questa direzione promuovendone la crescita.

Cercasi talenti? No, ha sbagliato nazione

Mentre nel mondo le aziende più importanti conducono tra di loro da anni una guerra per assicurarsi i migliori talenti e su Google troviamo decine di pagine selezionando “talent war”, noi invece viviamo in una nazione in cui questi due termini suscitano poco interesse. E’ quanto emerge da uno studio condotto da Bruno Pellegrino, Università della California, e Luigi Zingales, Università Chicago, secondo cui gli imprenditori italiani, non tutti per fortuna, preferiscono avere come diretti collaboratori degli “yes manager”, pronti in ogni istante a compiacerli nelle loro scelte a discapito di uomini e donne indipendenti e competenti. Si conferma la scarsa propensione dell’imprenditoria italiana alla cultura della prestazione che coniuga insieme la capacità di assumersi dei rischi e d’innovarsi con la necessità di mantenere in attivo il bilancio mentre al suo posto si diffonde il familismo amorale, che seleziona le persone per cooptazione. In tal modo ci si pone sulla strada che abbandona la ricerca del successo come massima espressione delle qualità aziendali e ci si avvia su quella in cui favoritismi e clientele diventano i fattori dominanti del successo. Il mondo del calcio professionista ancora una volta si rivela essere specchio di questo paese e di questo tipo d’imprenditoria: tanti stranieri mediocri e pochi giovani italiani talentuosi. Infatti, nella maggior parte delle squadre sono presenti pochi calciatori italiani e solo quest’anno sono stati introdotti 84 nuovi giocatori, che limitano ulteriormente l’accesso in squadra ai nostri giovani talenti.  Il danno che si viene a creare è molto grave. S’impedisce di fatto ai giovani italiani di giocare, si rende inutile l’attività giovanile poiché i migliori non troveranno squadre disposte a inserirli nell’organico, li si obbliga ad andare all’estero come è il caso di Immobile, Cerci e Verratti, si spendono inutilmente soldi per giocatori stranieri che non sono di valore, le squadre perdono ulteriore valore perché non possono contare su giocatori tenaci e che vogliono vincere. Non vi sono spiegazioni che permettono di comprendere questo fenomeno così auto-lesionista per i club. Certamente la professionalità dei dirigenti di calcio esce sconfitta da questo approccio e dato che questa pratica è così diffusa evidentemente non preoccupa anzi ne esce rinforzata. Naturalmente esistono aziende e squadre che si fondano sulla cultura della prestazione, seguiamole perché sono un pezzo importante della soluzione dei nostri problemi.

(leggilo su http://www.huffingtonpost.it/../../alberto-cei/)

Coraggio e umiltà

L’allenatore degli All Blacks ha detto recentemente in una conferenza che la mentalità guerriera dei suoi giocatori si basa sull’equilibrio fra coraggio e umiltà: essere capaci di fare cose straordinarie ma sapere anche recuperare rapidamente dagli errori, sapersi risollevare rapidamente e vincere.

Questa capacità distingue i campioni dagli altri bravi atleti: Ne sono un esempio:

Roger Federer  che cambia gioco per continuare a restare al suo livello compensando le difficoltà fisiche con un aumento dell’efficacia del servizio e con più frequenti discese a rete. Cambiare per limitare i limiti e continuare a vincere.

Valentino Rossi è ritornato a vincere un MotoGP dopo molto tempo, stabilendo il record di più anziano vincitore, non ha rinunciato a questa opportunità e alla fine ci è riuscito.

Tiger Woods da 60° del ranking mondiale anzichè ritirarsi, in tre anni è ritornato a essere n.1

Giovanni Pellielo ha perso le olimpiadi di Londra ma l’anno successivo ha vinto il campionato del mondo ed è già qualificato per quelle di Rio

Imparate da loro, non basta il talento ci vuole coraggio e umiltà.

One million arm: una storia di trasferimento di talento

Ho visto il film intitolato “One million arm” che narra la storia di un visionario manager US che intende scoprire talenti per il baseball in giovani che praticano altri sport. Si convince che l’India è il paese ancora meno sfruttato per questa ricerca e convince un ricco cinese a finanziare questa ricerca. Chi lancerà una palla di baseball a 80 miglia parteciperà a un periodo di allenamento e successivamente i due atleti migliori vinceranno un premio e si trasferiranno per un anno negli USA ad allenarsi. Al termine dell’anno i due atleti indiani non riescono a superare il provino organizzato con i migliori scout del baseball e l’impresa sembra fallita. Il manager però riesce a ottenere un finanziamento per un altro anno al termine del quale invece i due ragazzi riescono a convincere gli esperti con i loro lanci. Conclusione, sono stati i primi due indiani a giocare nella Major League.

Questa è una storia vera che racconta come la ricerca del talento sia a tutt’oggi ancorata a stereotipi scientifici troppo rigidi, che impediscono che storie come questa siano molto più frequenti. I britannici lo hanno capito da tempo e negli ultimi 8 anni hanno arricchito le loro nazionali di circa 100 atleti servendosi di un sistema come quello descritto nel film.

In Italia,  sto tentando di introdurre questo concetto da qualche anno ma le organizzazioni sportive sono rigide, i biomeccanici e gli allenatori ritengono che si debba sempre partire dai bambini e in sostanza ognuno si fa forte delle proprie sicurezze anziché provare strade nuove. Pazienza!