Archivio mensile per settembre, 2022

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E’ vero che s’impara dall’esperienza? (2)

Non è di alcuna utilità parlare in termini generali di esperienze, è essenziale capire quali sono le richieste delle situazioni che determinano cambiamenti significativi nella vita professionale di una persona. È possibile identificarle distribuendo le esperienze in diverse categorie.

Esperienze che hanno un forte impatto personale hanno alla base una lotta contro le avversità. Queste esperienze forzano gli individui a fare qualcosa di diverso rispetto a quanto avevano fatto sino a quel momento. Spingono, inoltre, a percepire se stessi e le situazioni in modo sempre differente rispetto al passato, richiedendo che si dia il meglio di se stessi in quella situazione, che non potrà mai essere identica a una precedente.  È chiaro comunque che è proprio attraverso queste situazioni avverse che il manager o lo sportivo possono scegliere se intraprendere o meno scorciatoie illegali per soddisfare il loro bisogno di successo e di potere.

Esperienze che hanno un carattere di eccezionalità. Per questa ragione anche una persona esperta può dire: “Una situazione così non l’ho mai affrontata prima d’ora”. Tirare un calcio di rigore alla finale dei campionati mondiali di calcio, è un’esperienza unica e non basta essere bravi e avere saputo gestire bene in passato questo tipo di stress, ora sei guardato da più di un miliardo di persone, sei un campione ma non è sufficiente a fare goal. Era un’esperienza che non era mai capitata neanche a Roberto Baggio prima di sbagliarlo nella finale con il Brasile. Le esperienze più significative hanno il tratto dell’unicità non tanto in relazione al contenuto dell’attività (per esempio il calcio di rigore è un’azione che appartiene al bagaglio professionale di ogni calciatore) quanto in relazione al valore che assumono in una determinata circostanza (tirarlo durante la finale della Coppa del Mondo).

Esperienze che richiedono lo sviluppo di nuove abilità per fronteggiare situazioni nuove. Creatività e innovazione sono percorsi sempre più praticati dai leader che devono svolgere consapevolmente una funzione di modello innovativo nei riguardi dei loro collaboratori. Rappresentano vere e proprie situazioni di apprendimento. Sapere cogliere i propri momenti di incertezza e di dubbio è un buon criterio per stabilire che non si sa ragionare solo per pratiche già consolidate ma che una parte di se stessi è disponibile nei riguardi del nuovo.

Esperienze e consapevolezza del proprio senso di appartenenza. Quest’ultima categoria è particolarmente importante in quanto pone in relazione le situazioni da fronteggiare con il vissuto di appartenenza personale. Un individuo non è riconducibile a un’unica attività o gruppo ma si può definire, senza per questo avvertire alcuna contraddizione, attraverso la sfaccettatura delle sue attività di manager e di membro di gruppi diversi. Può essere cuoco, amante della musica, podista, appassionato di vacanze fatte in mezzo alla natura, padre, marito, italiano, laureato, abitante in una metropoli e molto altro. Ognuno di questi aspetti partecipa a formare l’identità in cui si riconosce e tutte insieme determinano come si agisce. Restare consapevoli di questa pluralità di appartenenze, può rappresentare un primo passo verso il porre un freno a eventuali comportamenti illegali. Un manager o un atleta potrebbero pensare sulla base dell’idea che il fine giustifica i mezzi che non importa in quale modo si raggiunge il successo. Ebbene il pensare che si è anche dei genitori o dei cittadini con delle responsabilità nei confronti degli altri potrebbe rallentare l’affermarsi di questo atteggiamento.

E’ vero che s’impara dall’esperienza? (1)

Ogni persona ha ascoltato migliaia di volte i propri insegnanti sostenere che s’impara a fare le scelte giuste con l’esperienza ma questa affermazione è sin troppo generica; può essere analoga all’affermare che si cresce perché ci si nutre o che si è vivi perché si respira o, più cinicamente, si mette nel conto che chi non impara a nuotare annega e avanti un altro.

Sapere che viviamo immersi nella nostra esperienza quotidiana, in quella degli altri e in un contesto ambientale in continuo cambiamento non è certamente molto più di aiuto. Ogni istante della vita di una persona è parte delle esperienze che sta compiendo piccole o grandi che siano, si fanno esperienze sino dal momento della nascita, per esempio si è imparato a camminare perché da piccoli si voleva testardamente acquisire autonomia e per fare ciò è necessario spostarsi. Pertanto tutti i bambini s’impegnano con regolarità e continuità per raggiungere la posizione eretta e muoversi speditamente. Ma non finisce in tenera età questo sforzo verso il cambiamento, continua a ogni età.

Un dirigente di un’azienda mi raccontò che i suoi problemi cominciarono quando venne a leader di un gruppo, prima doveva solo pensare a se stesso e a vendere e questo aveva imparato a farlo bene, fino a diventare il migliore. A quel punto era a capo di una squadra che sotto la sua guida avrebbe dovuto moltiplicare i risultati, invece inizialmente fu un disastro perché lui terrorizzava i suoi collaboratori dicendogli che erano dei buoni a nulla. Giunto a questo punto fu costretto a cambiare e a imparare a gestire la squadra pena il fallimento del suo business.

Questa storia, abbastanza comune a molte altre che avvengono quotidianamente ovunque, evidenzia come non sia di alcuna utilità parlare in termini generali di esperienze, è essenziale capire quali sono le richieste delle situazioni che determinano cambiamenti significativi nella vita professionale di una persona.

Oratorio chiude per troppe parolacce

Reti rotte, rifiuti abbandonati all’interno ma soprattutto bestemmie e parolacce a guastare l’atmosfera dell’oratorio. Per questa ragione don Franz Vicentini, parroco della chiesa di San Giuseppe a Cocciano, uno dei quartieri più popolosi di Frascati, ha chiuso l’oratorio. La decisione è piaciuta ai genitori, mi chiedo se erano solo i figli degli altri a manifestare questi comportamenti.

Quali sono i modelli per questi giovani? I calciatori che si lamentano in continuazione con gli arbitri o gli allenatori che usano il loro ruolo per esprimersi in modo violento? O gli amici bulli?

I ragazzi sono responsabili delle loro azioni. Chi sono però i loro maestri? Chi fornisce loro i comportamenti standard per agire in modo etico?

Allenatori violenti a causa del loro narcisismo ferito

Da tempo mi sono convinto dell’evoluzione narcisistica della personalità degli allenatori di calcio. Non ci sono studi su questi aspetti nel mondo del calcio, tuttavia mi sembra che le esternazioni violente e aggressive degli allenatori già in queste primi due mesi del campionato, confermino questa idea.

Oggi ci si arrabbia subito ma soprattutto ciò è associato a comportamenti inaccettabili fatti di urla in campo contro qualcuno, di gesti e di sedie prese come fossero una clava. Sono manifestazioni di fragilità umana. Sono vissute dagli allenatori come espressione di un loro diritto di protestare legittimo, vero, ma la forma esprime una ferita subita.

Oltretutto non c’è un effetto negativo determinato da questi comportamenti. Possono essere espulsi e ricevere giornate di squalifica, ma non sono deterrenti utili ad abbandonare questo modo di essere. L’unico modo per motivarli a cambiare sarebbe unicamente la riprovazione sociale ma questa non c’è nel calcio. Essere condannati e ripresi dal proprio ambiente sportivi  sociale rappresenterebbe un’opportunità di cambiamento, in sua assenza continueranno come ora.

“Non dovremmo negare le nostre ambizioni, il nostro desiderio di dominare, il nostro desiderio di brillare e la nostra aspirazione a fonderci con figure onnipotenti, ma dovremmo invece imparare a riconoscere la legittimità di queste forze narcisistiche […]. Saremo allora capaci […] di trasformare la nostra grandiosità arcaica e l’esibizionismo in autostima realistica e in piacere con noi stessi […] adattativi e gioiosa capacità di essere entusiasti e di ammirare il grande sulla cui vita, imprese e personalità possiamo permetterci di modellarci” (Kohut, 1982).

Kohut ci ricorda che il desiderio di dominare è legittimo ma deve essere orientato alla costruzione di una autostima realistica. Mi sembra, invece, che sia proprio questo lavoro di adattamento che manca agli allenatori, che così si fanno dominare dai loro pensieri grandiosi, che se non riconosciuti fanno scattare in loro questi momenti di irrazionalità.

La crisi di Juve e Inter

La crisi di una squadra si manifesta quando problemi di gioco e una ridotta coesione collettiva fra calciatori e allenatore si saldano insieme. Questo ha determinato l’ennesima pessima prestazione della Juventus con il Monza e la terza sconfitta dell’Inter in campionato.

Se il gioco subisce l’influenza negativa derivata dagli infortuni, dall’inserimento di nuovi acquisti, dall’appannamento dello stato di forma di qualche titolare la squadra non può produrre il gioco che vorrebbe. In queste situazioni ciò che deve sostenere il team è la coesione, l’unità d’intenti, il lavoro collettivo. In pratica, i calciatori devono interagire in campo allo scopo di mostrarsi uniti e fiduciosi delle proprie competenze di squadra anche se in quella fase non sono ottimali.  Napoleone era solito dire che vinceva le sue battaglie anche con i sogni dei suoi soldati e questa frase è una metafora efficace di cosa si debba intendere per efficacia collettiva.

Questa mentalità deve essere favorita dai comportamenti e dalle dichiarazioni dell’allenatore, che consapevole dei limiti del gioco, deve agire per suscitare la forza psicologica dei calciatori come squadra. Come dice bene Al Pacino nel film “Ogni maledetta domenica” nel ruolo dell’allenatore di una squadra in crisi: Perciò… o noi risorgiamo adesso, come collettivo, o saremo annientati individualmente”.

La  mia impressione è che Allegri e Inzaghi pensino troppo agli schemi, al gioco e meno a rendere propositivi i singoli e la squadra. La motivazione ad aiutarsi, a uscire dalle situazioni difficili e a volere andare avanti insieme, viene prima del gioco. Non ci si può nascondere dietro il pensiero, secondo cui perché i calciatori sono professionisti molto ben pagati dovrebbero sempre esprimersi al massimo o sapere come comportarsi nei momenti di nervosismo o di depressione. Non si può affermare come ha detto Allegri in relazione al percorso in Champions che la partita decisiva sarebbe stata quella in casa con il Benfica, vuol dire buttare sabbia nei delicati ingranaggi di una squadra. O restare perplessi, come ha detto Inzaghi, dopo la partita con l’Udinese. Sembrano avere perso la consapevolezza della condizione psicologica della squadra e dei singoli. Non sono i moduli di gioco di per se stessi a fare grande una squadra ma come questi sono interpretati. Come per un attore non è sufficiente avere imparato la parte a memoria, il suo successo dipenderà da come interpreterà il suo ruolo. Interpretare implica un forte coinvolgimento psicologico. E’ su questo che devono lavorare gli allenatori e, magari, potrebbero anche rendersi conto che lavorare con uno psicologo dello sport potrebbe essere loro di aiuto.

Le parole rivelano l’idea di atleta dell’allenatore

Troppo spesso gli allenatori hanno una concezione solo biomeccanica dell’atleta e pensano di poterli teleguidare.

E’ frequente sentire frasi del tipo:

  • Bisogna motivare gli atleti
  • L’allenamento deve andare a migliorare abilità degli atleti
  • E’ chiaro che questo qua si abbatte subito
  • Stimolarli li rende impegnati mentalmente
  • Quando vado a fare visualizzare il mio atleta

Rivelano:

  1. Concezione allenatore come una specie di mago che cambia le persone.
  2. Concezione passiva degli atleti che cambiano in reazione allo stimolo (le parole del coach) e non in quanto sono agenti attivi del proprio miglioramento.
  3. Concezione che si deve reagire e l’allenatore è l’addestratore di persone, che senza una guida di questo tipo non possono migliorare.

Sentirsi pronti a giocare una partita

Il variare dell’attivazione durante le partite è influenzato da molte situazioni e dalle caratteristiche individuali, fra queste le più importanti sono:

  1. L’esperienza sportiva – maggiore è l’esperienza a giocare partite di alto livello, maggiore sarà la capacità di sapere entrare in partita al livello di attivazione ottimale.
  2. L’ansia – maggiore è il grado d’insicurezza nei riguardi del proprio ruolo in campo, maggiore sarà il livello di attivazione, che se non verrà ridotto potrà impedire al calciatore di giocare al suo meglio.
  3. La fatica – maggiore è la stanchezza fisica e mentale, maggiore è la probabilità di manifestare livelli di attivazione e di agonismo troppo bassi e pertanto non adeguati.
  4. L’impulsività – maggiore è l’impulsività del calciatore, maggiore sarà la probabilità che il suo livello di attivazione sia troppo elevato nei momenti di maggiore tensione agonistica e che il suo gioco diventi falloso.
  5. Il controllo dei pensieri – migliore è l’autocontrollo personale durante la partita, minore è la probabilità di agire senza pensare.
  6. La motivazione – minore è la motivazione a giocare al proprio meglio, minore sarà l’impegno e l’attenzione e minore sarà il livello di attivazione fisica e mentale.
  7. La tenacia – maggiore è la convinzione di sapere affrontare con determinazione qualsiasi situazione competitiva, più efficace sarà il livello di attivazione in cui il calciatore saprà mettersi prima della partita.
  8. Il ruolo in campo – più chiaro e specifico è per il calciatore il suo ruolo in campo, con più facilità saprà a cosa prestare attenzione, come caricarsi mentalmente prima dell’inizio della partita e come mantenere questa condizione durante il suo svolgimento.
  9. Le fasi della partita – Tutto ciò che succede durante la partita influenza ed è influenzato dai livelli di attivazione dei giocatori e delle squadre in un processo d’interazione costante e reciproca. Partite importanti e decisive o partite amichevoli, fasi iniziali o finali del match, risultato a favore o a sfavore, giocare in 10 piuttosto che in 11 sono situazioni che incidono sull’intensità della carica agonistica, che corrisponde al livello di attivazione del collettivo.
  10. La squadra – parafrasando il detto che la squadra campione è formata dai calciatori che si amalgamano nel modo migliore, si può affermare che la squadra campione è costituita da quei calciatori dalla cui attivazione globale si sprigiona la carica agonistica necessaria a esprimere il proprio gioco.

Il profilo della medaglia d’oro per la psicologia dello sport

Natalie Durand-Bush et al. Il profilo della medaglia d’oro per la psicologia dello sport (GMP-SP). Journal of Applied Sport Psychology, pubblicato online ad aprile 2022.

Il Profilo della Medaglia d’Oro per la Psicologia dello Sport (GMP-SP) è un quadro completo, basato su prove di efficacia, che integra le competenze di performance mentale alla base delle prestazioni degli atleti canadesi in grado di salire sul podio para/olimpico. Il GMP-SP è stato creato per guidare i consulenti per le prestazioni mentali (MPC) e le organizzazioni sportive nazionali (NSO) nella progettazione, fornitura, monitoraggio e valutazione dei programmi di competenze mentali nel sistema sportivo canadese ad alte prestazioni. Un approccio di ricerca-azione partecipativa che ha comportato un processo ciclico di due anni di pianificazione, azione, riflessione e valutazione ha guidato il lavoro di sei MPC canadesi esperti (quattro uomini e due donne). Il gruppo, la cui esperienza professionale è stata parte integrante dell’importanza e dell’impatto dell’indagine, aveva collettivamente oltre 125 anni di esperienza nella ricerca e nella consulenza nello sport ad alte prestazioni. Una revisione della letteratura scientifica combinata con la pratica professionale degli esperti ha portato alla creazione del GMP-SP, che comprende 11 competenze di performance mentale raggruppate in tre grandi categorie: (a) competenze fondamentali (motivazione, fiducia, resilienza), (b) competenze di autoregolazione (autoconsapevolezza, gestione dello stress, regolazione delle emozioni e dell’eccitazione, controllo dell’attenzione) e (c) competenze interpersonali (relazione atleta-allenatore, leadership, lavoro di squadra, comunicazione). La salute mentale è stata inclusa anche come costrutto generale che influenza il raggiungimento delle prestazioni mentali e atletiche. Il GMP-SP colma un’importante lacuna, data l’attuale mancanza di modelli, metodi e strumenti che guidino l’operazionalizzazione dei sistemi di prestazione mentale nello sport di alto livello, che includano le competenze intrapersonali e interpersonali.

Riassunto: il Profilo della Medaglia d’Oro per la Psicologia dello Sport (GMP-SP) è un quadro che integra 11 competenze di performance mentale alla base del successo sul podio nello sport canadese ad alte prestazioni, con attenzione alla salute mentale. Il GMP-SP ha lo scopo di guidare gli operatori e i dirigenti sportivi nella programmazione della psicologia dello sport e nell’allocazione delle risorse per sostenere gli atleti nella loro ricerca dell’eccellenza.

IMPLICAZIONI PER LA PRATICA
I consulenti per le prestazioni mentali (MPC) possono utilizzare il Profilo delle Medaglie d’Oro per la Psicologia dello Sport (GMP-SP) per la valutazione, la periodizzazione e l’implementazione di programmi di allenamento delle abilità mentali nello sport ad alte prestazioni.
Il GMP-SP può essere utilizzato per educare atleti, allenatori e staff sull’importanza delle abilità mentali per raggiungere il successo nello sport ad alte prestazioni. Il GMP-SP evidenzia in modo unico le competenze intrapersonali e interpersonali e l’interazione tra prestazioni mentali e salute mentale.
L’analogia tra oro, argento e bronzo nel GMP-SP può aiutare i professionisti, gli studiosi e i dirigenti sportivi a pianificare, testare e allocare risorse e finanziamenti adeguati per lo sviluppo delle competenze mentali.

Lo sport a Firenze con le Olimpiadi e Paralimpiadi della Città

Sport, sport, sport. In Italia se ne parla tanto, ma i numeri raccontano una realtà diversa: appena il 27% della popolazione maggiorenne pratica sport e uno su due ha oltre 45 anni. Ne abbiamo parlato con Alberto Cei, psicologo dello Sport e docente alle Università di Tor Vergata e San Raffaele.

Intervista di Alessandro Bartolini  per l’ufficio stampa delle Olimpiadi e Paralimpiadi della Città Metropolitana di Firenze diffusa con newsletter della UISP Firenze

Quali sono le ragioni di questo allontanamento dallo sport in età molto giovane?

“Il picco di attività è a 12 anni per i maschi e 11 per le ragazze, da lì comincia la discesa. I motivi sono molteplici: anzitutto l’organizzazione della scuola non prevede in maniera consistente l’attività motoria, poi c’è una notevole carenza di impianti che certo non aiuta. Crescendo aumenta poi l’impegno con lo studio e di conseguenza anche le difficoltà, perché non sempre i docenti riconoscono il valore di queste attività, non c’è un’adeguata attenzione. Infine c’è un altro aspetto legato alle esigenze familiari: sono sempre i genitori o comunque i parenti a dover accompagnare i più giovani a fare sport, non tutti hanno questa possibilità ed è un ulteriore limite”.

 La pandemia ha dato un ulteriore colpo: secondo i dati Istat, ancora una volta i numeri peggiori si registrano nelle fasce giovanili, con una diminuzione in doppia cifra: da 66 al 48,9% per i bambini delle elementari, dal 68 al 54,8% per quelli delle medie. 

“Indubbiamente la pandemia ha pesato molto, a quell’età è innaturale restare chiusi dentro casa. Invece sono stati sollecitati a condurre una vita sedentaria e alla fine l’uso degli strumenti tecnologici, a partire dagli smartphone, è diventato un’alternativa alla socializzazione in presenza, visto che permettono comunque di mantenere relazioni. Chi già era poco motivato a fare sport o lo faceva saltuariamente, dovendo restare chiuso in appartamento, si è abituato e ha mollato. Certo non è una situazione omogenea, magari ha sofferto di più chi vive nelle grandi città rispetto a chi abita in piccoli centri dove è più facile stare a contatto con la natura”.

Parlavamo prima del rapporto un po’ complicato tra sport e scuola. Quanto c’è da lavorare per rafforzare questa sinergia?

“Purtroppo la scuola non considera l’attività sportiva come un elemento centrale nella formazione di ragazze e ragazzi; c’è anche una sottovalutazione del ruolo degli insegnanti specializzati in questo ambito. È significativo che molte scuole non abbiano la palestra oppure che questi impianti siano inagibili per anni. Abbiamo visto, per esempio, cos’è accaduto durante la pandemia: le palestre sono spesso diventate il deposito per i banchi a rotelle inutilizzati o per accatastarvi quelli vecchi. È un problema di mentalità che viene da lontano, negli ultimi 30-40 anni non è cambiato granché. Ci sono stati e ci sono dei progetti, ma un conto è raggiungere 10mila o 20mila studenti, altro è coinvolgere tutti e far diventare lo sport un attività decisiva per lo sviluppo dei giovani”.

In quest’ottica quanto possono “servire” manifestazioni come le Olimpiadi e Paralimpiadi della Città Metropolitana? 

“Ogni manifestazione sportiva è sicuramente la benvenuta, a maggior ragione se come in questo caso è un intero territorio, una delle province più grandi e importanti d’Italia, che si muove nella stessa direzione. È un segnale forte per poter cambiare la cultura ed è fondamentale che questi non restino eventi isolati, ma siano da stimolo per altri così da innescare un circolo virtuoso”.

Mindset atleti paralimpici