Il ruolo della motivazione nel rapporto allenatore-atleta

L’attività sportiva consente l’affermarsi di un atteggiamento che può essere sintetizzato nella seguente frase: “È grazie al mio impegno che divento sempre più bravo in quello che faccio”. I giovani atleti che diventeranno campioni sono motivati da una spinta interiore che si alimenta tramite la percezione soggettiva di soddisfazione che traggono dallo svolgere un determinato compito al meglio.

Ogni intervento esterno che tenda a ridurre nell’atleta questa percezione influenzerà negativamente la sua motivazione. È il caso di quando un soggetto s’impegna solo per ricevere un premio materiale (vincere un trofeo) o simbolico (“Lo faccio per i miei genitori o per l’allenatore che così saranno contenti o perché sarò più ammirato dai miei compagni di scuola”). La prestazione sportiva diventa così solo un mezzo per raggiungere un altro scopo che è, invece, il vero fine dell’azione: il giovane non agisce per il piacere che gli fornisce l’attività stessa, ma per ricevere un determinato riconoscimento. Pertanto, i rinforzi esterni che lo incoraggiano ad attribuire la sua partecipazione a motivi esteriori possono ridurre la sua motivazione interna.

Cosa può fare l’allenatore

Operativamente, l’allenatore non dovrebbe servirsi di rinforzi che dall’atleta siano percepibili come più importanti della stessa partecipazione sportiva, ma dovrebbe fornire feedback utili ad aumentare il senso di soddisfazione che il giovane trae dall’esperienza agonistica. A questo riguardo è stato documentato che i risultati sportivi che sono percepiti come il frutto di fattori interni personali, quali l’abilità, la dedizione, l’impegno, piuttosto che di fattori esterni (fortuna, limitata capacità degli avversari, decisioni arbitrali a favore) sono associati a stati d’animo di soddisfazione e di orgoglio.

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