Archivio mensile per gennaio, 2021

Pagina 2 di 3

Nuova stagione sportiva, rinnovata motivazione

Lo sprinter americano Michael Johnson, vincitore di cinque medaglie d’oro alle olimpiadi e otto volte campione del mondo, ha così riassunto l’importanza della motivazione:

“La mia migliore motivazione è sempre venuta dalla gioia pura di correre e di gareggiare, è lo  stesso brivido che ho come fossi un bambino di 10 anni. Avete mai conosciuto un bambino di 10  anni nauseato da quello che fa? Bisogna trovare la propria motivazione iniziale, per questa ragione diventerai un architetto. Questo è il segreto della perseveranza”.

L’attività sportiva dovrebbe consentire l’affermarsi di un atteggiamento che può essere sintetizzato nella frase: “E’ grazie al mio impegno e al piacere che provo che divento sempre più bravo in quello che faccio”. Le attività motivate da una spinta interiore si basano sulla per­cezione soggettiva di soddisfazione che si trae dallo svolgere un determi­nato compito. Pertanto qualsiasi intervento esterno che tenda a ridurre nell’atleta questa percezione influenzerà negativamente la sua motivazione. È il caso di quando un atleta s’impegna solo per riceve­re un premio materiale (vincere un trofeo) o simbolico (“Lo faccio per i miei genitori o per l’allenatore che così saranno contenti o perché sarò più ammirato dai miei compagni di scuola”). La prestazione sportiva diventa così solo un mezzo per raggiungere un altro scopo che sarà, invece, il vero fine dell’azione: il giovane non agisce per il piacere che gli fornisce l’attività stessa ma per ricevere un determinato riconoscimento. Pertanto, i rinforzi esterni che incoraggiano l’atleta ad attribuire la sua partecipazione a motivi esteriori riducono la sua motivazione interna. L’allenatore non dovrebbe servirsi di rinforzi che dall’atleta siano percepibili come più importanti della stessa partecipazione spor­tiva, ma dovrebbe fornire suggerimenti utili ad aumentare il senso di soddisfazione che il gio­vane trae dall’esperienza agonistica.

E’ stato infatti documentato che i risultati sportivi che sono percepiti come il risultato di fattori inter­ni personali, quali l’abilità, la dedizione, l’impegno piuttosto che di fattori esterni (fortuna, limitata capacità degli avversari,  decisioni arbitrali a favo­re) sono associati a stati d’animo di soddisfazione e di orgoglio.

I rinforzi esterni che un atleta riceve svolgono comunque anche un’azione positiva. Ad esempio, con i bambini che non hanno ancora avuto un’esperienza spor­tiva o con gli adulti che hanno una ridotta esperienza sportiva. In tal caso rinforzi esterni riguardanti la fornitura di materiale sportivo o di gadget, o il sostegno sociale derivato dalla pratica sono elementi che favoriscono la partecipazione. Lo stesso vale per i riconoscimenti economici ottenuti dagli atleti di alto livello come riconoscimento del loro valore sportivo.

Ogni allenatore sa che stabilire obiettivi è essenziale per stimolare la moti­vazione e migliorare le prestazioni. A tale riguardo:

  • Lavorare su obiettivi definiti e accettati contribuisce a mi­gliorare l’atmosfera generale e il clima emotivo dell’allenamento. Si ottiene una riduzione dei problemi relativi ai ritardi, alla pigri­zia di gruppo e alla mancanza dì disciplina.
  • Gli atleti, anche i più giovani, potenziano sempre più la loro autonomia e imparano ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte. Viene in­crementata in questo caso la determinazione a raggiungere gli obiettivi e a sviluppare al massimo le proprie potenzialità.
  • La leadership dell’allenatore viene accettata dagli atleti attraverso l’incremento della sua credibilità personale.

Infine, nonostante la rilevanza che la scelta degli obiettivi svolge nell’incre­mentare la prestazione, vi è anche un altro motivo che la rende neces­saria da parte dell’atleta. Infatti, se lo sport e la com­petizione hanno una valenza sociale, di conseguenza ogni individuo ha il diritto di avere successo. Certamente nello sport di livello assoluto, la lotta per il successo è quella per il podio e chi può aspirare a questo tipo di risultato si prepara consapevole delle difficoltà che incontrerà strada facendo. Vi è poi il successo di tutti, di coloro che hanno stabilito i loro obiettivi in modo adeguato e s’impegnano per raggiungerli. Ogni persona coinvolta nello sport ha la responsabilità di ottenere per se stessa il suo successo personale. E’ il caso di chi vuole correre la maratona in 4 ore, se ci riuscirà avrà vinto la sua gara. L’osservazione dei bambini impegnati in attività sportive non organizzate dagli adulti dovrebbe insegnare agli adulti qualcosa di molto importante e cioè che quando non raggiungono l’obiettivo che si sono posti, i ragazzi lo abbassano di livello, imparando dagli errori e riprovandoci di nuovo. Dopo una serie di adattamenti e di prove di questo tipo il successo è garantito. L’opposto avvie­ne quando invece hanno successo, aumentano il livello di difficoltà dell’o­biettivo. In altri termini, ciò significa che in maniera quasi spontanea i gio­vani modificano i loro obiettivi spostandoli sempre al limite delle loro possi­bilità. In tal senso, gli errori sono utilizzati come parte integrante del pro­cesso di apprendimento e non vengono interpretati come un insuccesso.

Pregiudizi pre-gara degli atleti

Nella mente di ogni atleta prima di una gara importante si presentano molti pensieri. Sono come dei venditori che vogliono farti comprare il loro prodotto, ma non sempre questa merce è la migliore per affrontare la competizione. Talvolta l’atleta riesce ad acquistare solo le idee che gli servono mentre in altre occasioni comprano la prima che gli viene proposta e le lasciano occupare la mente.

Non è certo un problema che idee negative e ansiogene si affaccino alla mente, lo diventa solo se l’atleta ne sceglie e la ingigantisce.

Perché si tratta proprio di scegliere, non c’è nessuna imposizione. E’ l’atleta che accetta un pensiero (con relativo stato d’animo) e permette che si diffonda nella sua mente.

Alcuni pregiudizi pre-gara degli atleti:

  1. “Speriamo vada tutto bene”
  2. “Proprio adesso dovevo trovarmi difficoltà”
  3. “Scommetto che faranno la gara della vita”
  4. “Ho fatto tutto quello che dovevo, ora vediamo come va”
  5. “Speriamo che non succeda come l’ultima volta”
  6. “Importante è cominciare bene”
  7. “Non devo rilassarmi/arrabbiarmi/abbattermi”
  8. “Sono così in forma che devo vincere”
  9. “Con questo avversario devo vincere, altrimenti…”
  10. “Importante è che a un certo punto non cominci a pensare al risultato”

 

 

 

 

#InaugurationDay

Jennifer Lopez & her ring dazzle during Biden inauguration

Tiro a volo: aspetti psicologici pandemia

Yvonne Dowlen: a 90 anni sui pattini

A 90 anni sui pattini, questo video scalda il cuore.
90-Year-Old Figure Skater Will Warm Your Heart with Her Amazing Talent |  Short Film Showcase - YouTube

CI VEDIAMO FRA QUALCHE GIORNO

Il nuovo stile di leadership del calcio

La leadership trasformazione è il nuovo modello di guida che partendo dal mondo manageriale si è esteso negli ultimi anni a quello dello sport. Eccone le 4 caratteristiche principali e gli esempi di allenatori di calcio che la utilizzano

  1. Influenza idealizzata – Trasmette orgoglio ai collaboratori, rappresenta un buon esempio da seguire e permette al leader di guadagnarsi il rispetto dei collaboratori in un modo che incrementa la rilevanza dei valori. Ferguson: “Ho sempre molto orgoglio nel vedere i giocatori più giovani che si sviluppano”. In tal modo il lavoro di un allenatore è analogo a quello di un insegnante. Si formano le competenze tecniche, si costruisce una mentalità vincente e persone migliori.  Questo determina nei giovani fedeltà verso la Società, poiché sono consapevoli della opportunità che hanno ricevuto.
  2. Motivazione inspirazionale – Trasmette la visione di dove il gruppo sta andando motiva i membri del gruppo e li stimola nel contempo ad assumere compiti sfidanti. Comunica ottimismo ed entusiasmo e stimola l’auto-efficacia. Guardiola: “Io non voglio che tutti cerchino di dribblare come Leo Messi, bisogna passare la palla, passarla e passarla di nuovo…  Passare, muoversi bene, passare ancora una volta, passare, passare, e passare … Voglio che ogni mossa sia intelligente, ogni passaggio preciso, è così che facciamo la differenza dal resto delle squadre, è tutto quello che voglio vedere”.
  3. Stimolazione intellettuale – Incoraggia la soluzione dei problemi attraverso nuove e creative strategie. Klopp: ““Giocare partite indimenticabili, essere curiosi e impazienti di giocare la prossima partita per vedere cosa succederà, e questo è ciò che dovrebbe essere il calcio. Se fai tuo questo atteggiamento, avrai successo al 100%”.
  4. Considerazione individualizzata – Riconosce l’impegno  e i bisogni di ognuno all’interno del gruppo, attraverso l’empatia, l’ascolto, la compassione e il processo di coaching. Mourinho: “Ci sono molti modi per diventare un grande manager … ma soprattutto credo che la cosa più difficile sia di condurre gli uomini con differenti culture, cervelli e qualità”. All’Inter concesse una vacanza a Wesley Sneijder che era esausto. “Tutti gli altri allenatori hanno parlato solo di formazione”, ha detto Sneijder. “Mi ha mandato in spiaggia. Così sono andato a Ibiza per tre giorni. Quando sono tornato, ero disposto a uccidere e morire per lui”.

Doping, più tolleranza è giusta?

Dal primo gennaio di quest’anno, un atleta sorpreso ad avere fatto uso di droga (cocaina, eroina, ecstasy, cannabis) dopo un controllo rischia una squalifica di soli tre mesi, riducibili addirittura a 30 giorni se dà prova di essersi pentito e partecipa a un programma di recupero. Pe la WADA la cosa importante è che quella droga non abbia alterato il risultato della prestazione.

Ma lo sport non doveva avere un ruolo educativo? Non doveva tenere lontani i giovani dalle droghe? Non doveva essere un esempio di vita sana e rivolta al benessere? Non doveva insegnare a vivere le frustrazioni e le difficoltà in modo costruttivo? Non doveva insegnare la responsabilità e l’etica del lavoro? Ok, non c’è riuscito!!!

 

 

 

I segreti degli atleti master

Sempre più persone over35 continuano a praticare sport a livello agonistico e questo articolo pubblicato dall’organizzazione canadese che si occupa di sport e attività fisica propone come gli allenatori dovrebbero comportarsi con questa tipologia di atleti.

Quello dell’allenamento dei master è un tema relativamente nuovo, che ha colto gli esperti medici e fisiologi alla sprovvista poiché ragionando in modo tradizionale hanno raggiunto un’età in cui non è più possibile fornire prestazioni di livello assoluto. Questi limiti sono scientificamente dimostrati ma la questione rilevante mi sembra un’altra.

Quali sono i limiti che persone che svolgono attività sportiva in maniera agonistica possono raggiungere non è poi così chiaro, conosciamo molto meglio i danni provocati dalla sedentarietà. Sarebbe interessante conoscere meglio quale sia la relazione fra genetica, psicologia, medicina e fisiologia. Anche conoscere meglio i numeri sarebbe di utilità. Se penso alle persone della mia età quindi over 65, sappiamo che solo il 10% degli uomini e l’8% delle donne praticano sport in modo continuativo e che il 5% dei maratoneti cadono in questa fascia d’età. Non sappiamo però quanti sono quelli che si allenano con regolarità settimanale in uno sport specifico piuttosto che quelli che camminano. Sappiamo che una attività svolta in maniera equilibrata, non orante dal punto di vista dell’usura del corpo è auspicabile, ma qual è la differenza fra questa persone è quelle che invece svolgono attività agonistica. Il segreto risiede nello stile di vita o nella genetica, nell’usura a cui sottoposto loro stessi nei decenni precedenti? Sono stante le domande a cui possiamo dare risposte a mio avviso per ora generiche o basate su stereotipi sociali.

Intanto leggiamo questa ricerca canadese che apre uno squarcio sull’allenamento dei master e le competenze degli allenatori.

La psicologia domina nel calcio, ma non gli psicologi

Nel calcio si parla molto di psicologia e ancora ieri abbiamo sentito le frasi di Antonio Conte, sull’ansia dei suoi giocatori, quelle di Fonseca sui 20% di blackout della sua squadra e quelli di Andrea Pirlo sulla mentalità vincente che deve avere la Juventus. Qualche tempo fa Alessandro Costacurta aveva parlato della intelligenza emotiva che dovrebbe guidare i calciatori.

Queste frasi dimostrano quanto sia elevata la sensibilità di questo mondo sportivo sulla psicologia, la question però è che sono meno delle dita di una mano quelli che lavorano in una società di calcio. Chi se ne occupa nella squadra? L’allenatore è lo psicologo della squadra se questo da una parte è una funzione del tutto abituale per chi svolge un ruolo di leadership in qualsiasi gruppo , dall’altra rappresenta un ulteriore grado di responsabilità che non condivide con nessuno poiché all’interno dello staff non è presente uno psicologo dello sport.

Quest assenza, ovviamente, non è di oggi ma è una costante con qualche eccezione. Attualmente a mia conoscenza solo La Juventus e il Verona ne hanno uno che lavora con i calciatori.

Non va meglio neanche nei settori giovanili e nelle scuole calcio dove invece sono abbastanza diffusi ma spesso con ruoli marginali.

Siamo molto lontani dal ruolo che lo psicologo svolge nel club USA. Robert Nideffer e Kenneth Ravizza hanno lavorato per anni con molte squadre di football americano e di baseball. Il sistema di valutazione del comportamento dell’allenatore nel baseball giovanile è stato introdotto ormai più di 40 anni fa. Nel calcio nel Regno Unito, Chris Harwood ha proposto un programma di sviluppo degli allenatori della accademia di calcio fondato su caratteristiche psicologiche, che ormai è utilizzato dalle società di calcio ed è diffuso nel mondo di lingua inglese.

Da noi siamo fermi a esperienze di singoli/e professionisti/e, pochi/poche, e comunque l’interesse delle società è scarso.