Archivio mensile per febbraio, 2020

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Le chiavi dell’allenamento: impegno e persistenza

Intensità e continuità in allenamento sono a mio avviso i due aspetti che più frequentemente determinato gli errori degli atleti. Molti si accontentano di allenarsi abbastanza bene, senza essere consapevoli che è proprio questo modo di pensare che rallenta il loro miglioramento.

La qualità di una prestazione non si può manifestare con un impegno abbastanza buono, questo mi sembra un aspetto che spesso i giovani atleti non considerano come decisivo per il loro miglioramento. Nel contempo anche gli allenatori possono cadere in questo tranello quando non mettono l’impegno al primo posto nelle loro strategie d’insegnamento, perché troppo concentrati sul correggere il gesto tecnico.

Robert Singer ha scritto che alla fine ogni performance è determinata da tre fattori di cui gli ultimi due sono molto meno considerati rispetto al primo:

  1. potenzialità personali
  2. impegno sincero nell’esercitarsi, nel condizionarsi e nel migliorarsi
  3. abilità a fare bene in condizioni di stress competitivo
Gli ultimi due sono infatti spesso spiegati in termini di abilità naturali o d’istinto e in questo modo vengono meno allenate rispetto alle altre abilità. Al contrario, l’esperienza degli atleti di vertice, per loro stessa affermazione, ci ha insegnato che ci vogliono anni di dedizione intensa e continua per raggiungere risultati di rilievo.
Il mantra di questi top atleti è: “prova e riprova ancora”.
Questo non succede perché i giovani di oggi sono pigri! Succede perché noi pensiamo che sia solo questione di allenamento tecnico e preparazione fisica e di tempo. Mentre la mancanza di miglioramento viene interpretata in termini di un blocco che al primo successo andrà via, di genitori che mettono pressione o di mancanza di fiducia.
Poco frequente è pensare che i giovani atleti magari sbagliano perché fanno gli esercizi in allenamento con la stessa mentalità con cui fanno (o facevano) i compiti a casa. Per loro è sufficiente fare l’esercizio e non si preoccupano di prepararsi a come farlo non solo bene ma nel modo migliore di cui sono capaci. Eseguono e basta. Questo per loro vuol dire essere concentrati. Con questo voglio dire che non sono consapevoli di come devono prepararsi per fare il massimo e non sanno quali abilità mentali e motorie devono mettere in atto per soddisfare le richieste del compito richiesto.
In termini generali, si allenano senza uno scopo personale, anzi con il solo obiettivo di soddisfare le esigenze del loro allenatore. Senza un obiettivo personale, non potranno sviluppare appieno le loro competenze di atleta ma soprattutto vivranno l’equivoco di stare impegnandosi al massimo mentre non è vero.

 

Charles Darwin ci ricorda l’importanza del pensiero scientifico

Nel giorno della nascita di Charles Robert Darwin (Shrewsbury, 12 febbraio 1809 – Londra, 19 aprile 1882) ho ripreso la mia copia di “L’Origine dell’Uomo” nella sua prima traduzione italiana del 1872 di Michele Lessona e ho letto alcune frasi che è sempre bene ricordare, per riflettere sull’importanza della scienza e del pensiero razionale.

“Gioverà a far meglio comprendere l’indole del presente libro un breve ragguaglio intorno al modo nel quale esso fu scritto. – Io venni raccogliendo per molti anni appunti intorno all’origine o provenienza dell’uomo, senza avere affatto l’intenzione di scrivere su questo argomento, anzi piuttosto col proposito di non scrivere nulla, perché io credeva che non avrei fatto altro se non che afforzare i pregiudizi contro al mio modo di vedere. Mi sembrava sufficiente indicare nella prima edizione della mia Origine della specie, che quel libro avrebbe sparso luce intorno all’origine dell’uomo ed alla sua storia, venendo così a dire che l’uomo vuol essere compreso insieme cogli altri essere organici in ogni conclusione generale riguardo al modo del suo apparire su questa terra.  Ora la cosa è ben diversa. Quando un naturalista come Carl Vogt si è spinto a dire nel suo discorso quale Presidente dell’Istituto nazionale di Ginevra (1869): Personne, en Europe au moine, n’ose plus souvenir la crèation indipendente et de totutes pièce des espèces, egli è ben chiaro che un gran numero per lo meno di naturalisti deve ammettere che le specie sono discendenti modificati di altre specie; e questo concetto piglia campo principalmente fra i giovani e crescenti naturalisti. Il maggior numero accetta l’azicne della scelta naturale; sebbene alcuni asseriscano istantaneamente, con quanta ragione deciderà l’avvenire, che io ne ho grandemente esagerata l’importanza”.

Decine di murales per Kobe Bryant

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Impariamo a dare un senso alle nostre azioni quotidiane

Alzare lo sguardo al di sopra della vita quotidiana, aiuta a viverla con maggiore accettazione e a dare un senso alle nostre azioni e pensieri che non abbia solo senso nell’immediato ma esprima un modo di essere più profondo.

Eduardo Galeano ci aiuta molto in questo lavoro e attraverso conosciamo l’esperienza di un altro unico, Albert Camus.

“Nel 1930 Albert Camus era il San Pietro che custodiva la porta della squadra di calcio dell’Università di Algeri. Si era abituato a giocare da portiere fin da bambino, pecche quello era il ruolo in cui meno si consumavano le scarpe. Di famiglia povera, Camus non poteva concedersi il lusso di correre in mezzo al campo: ogni sera la nonna gli controllava le suole e gli dava una solenne lezione se le trovava consumate.

Durante i suoi anni da portiere. Camus imparò molte cose: – Ho imparato che il pallone non va mai verso un giocatore dove lui si aspetta che venga. Questo mi ha aiutato molto nella vita, soprattutto nelle grandi città, dove la gente solitamente non è quel che si dice retta -.

Imparò anche saggezze difficile: a vincere senza sentirsi Dio e a perdere senza sentirsi spazzatura, e capì alcuni misteri dell’anima umana, nei labirinti della quale seppe successivamente indagare, in un pericoloso viaggio lungo il cammino dei suoi libri”.

(Eduardo Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio, p.66)

Come mai non appaiono reazioni dai giocatori della Juventus dopo sconfitta con Verona?

Come passare da un errore all’azione giusta

Una delle ragioni per cui spesso continuiamo a perseverare in abitudini e comportamenti che consideriamo sbagliati dipende dalla nostra paura dei rischi che potremmo incorrere decidendo di cambiare, primo fra tutti il commettere un altro errore nonostante ci si stia a cambiare.

E’ certamente più semplice e meno impegnativo lasciarsi dominare dalla voglia di lamentarsi che si manifesta nelle classica frase: “lo sapevo che sarebbe andata a finire in questo modo”. Continuiamo a difenderci dicendo che non sappiamo che fare, che la colpa è di qualcun altro o della sfortuna che si accanisce contro di noi o del fatto che è proprio vero che non c’è un’altra soluzione.

Sono pensieri comuni e in cui è facile cadere e che servono a mascherare le nostre paure più profonde. Agli atleti quando commettono in modo ripetitivo lo stesso errore dico spesso di fare qualcosa di diverso, senza essere preoccupati del risultato, nel peggiore dei casi commetteranno un altro errore ma almeno sarà diverso. Per giustificare questa mancanza d’iniziativa ci si nasconde nel dire “e se poi non va bene?”. Più raramente si pensa che se non va bene si proverà a fare ancora qualcos’altro fino a quando non avremo trovato la soluzione.

Questo accade perchè siamo emotivamente spaventati dal cambiamento e più ne sentiamo la necessità maggiore è la tendenza a nascondersi dietro dei ragionamenti anziché agire diversamente.

E’ importante imparare a dialogare con noi stessi, accettando gli errori. Vi propongo di scrivere una riflessione su “cosa per me gli errori e come reagisco ad essi?”. Pensa a cosa fai nelle diverse situazioni del tuo sport:

  • in gara e in allenamento
  • quando sei in vantaggio o in svantaggio
  • con quali parole accompagni ciò che fai bene e sbagli
  • quando sei contento in allenamento e gara
Scrivi e dopo rileggi e decidi come ti piacerebbe reagire e quali comportamenti e parte vorresti eliminare, e poi inizia ad allenarti.

 

Lettera ai genitori

Cari Genitori,

  • Non insultate l’arbitro e non fate il tifo contro gli avversari quando gioca la squadra di vostro figlio.
  • Siate, invece, corretti nel dimostrare in maniera positiva il vostro sostegno a tutti i giocatori, agli allenatori e all’arbitro.
  • Non urlate a vostro figlio cosa deve fare in campo, non sostituitevi all’allenatore.
  • Lasciatelo, invece, giocare e fare liberamente le scelte che vuole.
  • Non sgridatelo quando commette un errore o quando gioca male.
  • Sostenete, invece, il suo impegno e dimostrategli che siete orgogliosi di lui.
  • Non criticate a priori le scelte degli allenatori e degli arbitri.
  • Ascoltateli, invece, mettetevi nei loro panni cercando di comprendere il loro punto di vista.
  • Non arrabbiatevi quando la squadra di vostro figlio perde, non sentitevi delusi e non sgridatelo.
  • Ricordatevi, invece, che il gioco è dei bambini, non siete voi ad avere perso.
  • Non ditegli che vi ha profondamente deluso e che non diventerà mai un campione.
  • Fate, invece, attenzione a che lo sport sia per lui un’esperienza divertente ed eccitante.
  • Non fate finta di nulla quando vostro figlio è deluso o è arrabbiato per qualcosa che è successo mentre giocava ma neanche ditegli che uno stupido a prendersela.
  • Per primo, invece, ascoltatelo, lasciatelo parlare mostrandogli che capite il suo stato d’animo e successivamente trovate insieme una soluzione.
  • Non insegnate con il vostro comportamento a non avere rispetto per gli altri, siano essi compagni, giocatori di squadre avversarie, allenatori o arbitri.
  • Dimostrategli, invece, che avete rispetto di tutti loro e che pretendete che anche lui lo dimostri.
  • Non alleatevi con quegli allenatori che fanno giocare solo i migliori e che mostrano maggiore attenzione verso i più bravi.
  • Esigete, invece, che gli allenatori diano a tutti le stesse opportunità per imparare e che dimostrino entusiasmo nel lavorare con i bambini.
  • Non parlate solo di sport con vostro figlio, non guardatelo solo in TV.
  • Praticatelo, invece, insieme, stando all’aria aperta a giocare, impegnandovi in qualsiasi attività fisica che piaccia a tutta la famiglia.

Lettera a un tennista

Caro tennista,

  • Non insultarti quando sbagli e non fare il tifo contro te stesso.
  • Sostieni  in maniera sempre positiva il tuo impegno, anche quando la palla fa fuori o stai sotto.
  • Non urlarti addosso, giocherai peggio.
  • Gioca con gioia, liberamente  e fai le scelte che vuoi fare.
  • Non criticare come giocano gli altri solo per fare intendere che capisci di tennis.
  • Sostieni gli amici meno bravi del Circolo, fa sentire loro il tuo sostegno.
  • Ricordati che la tensione eccessiva è dannosa, anche se stessi giocando la finale di Wimbledon.
  • Divertiti, usa l’umorismo per ridurre il timore di fare brutte figure.
  • Alla fine della partita non dirti che sei profondamente deluso e che smetterai di giocare.
  • Accetta le sconfitte, anche quelle che bruciano di più.
  • Non dare sempre la colpa alla racchetta, al tempo, alla sfortuna.
  • Ricordati che è la tua mente a comandare la tecnica e la tattica e non viceversa.
  • Non dimostrare con il tuo comportamento mancanza di  rispetto per gli altri, siano essi compagni o avversari.
  • Dimostra a loro il rispetto in ogni tuo comportamento sul campo.
  • Non sono mai gli altri a farti sbagliare.
  • Sei tu che non hai saputo rispondere a un colpo o non ti sei adattato a quel tipo di gioco.
  • Non fare sempre lo stesso errore, non insistere su un colpo che non ti entra.
  • Quando sbagli fai qualcosa di diverso e cambia modo di giocare.
  • Non giocare per chiudere il prima possibile i game.
  • Prenditi il tempo necessario per costruire il  punto.

Tifare contro se stessi distrugge la concentrazione e la prestazione

Durante una partita di tennis è molto facile vedere e sentire uno dei due avversari che comincia a parlare contro se stesso e a mostrare comportamenti (scuotere sconsolato la testa o agitare la racchetta come fosse un bastone) che denotano la presenza di una condizione emotiva negativa, esasperata e che danneggia la concentrazione sul gioco successivo. Queste scenette avvengono più raramente fra giocatori professionisti proprio perché sono stati allenati a gestire con efficacia i momenti di stress agonistico. Sono invece frequenti fra i giovani e soprattutto sono molto diffuse tra quei tennisti magari anche dotati tecnicamente ma che non hanno capito che giocare un match non è solo una questione di forza fisica e di tecnica.

Per giocare bene a tennis, quale che sia il proprio livello, bisogna volere e sapere ragionare e questo diventa molto difficile se dominano stati d’animo di rabbia o di svalutazione di se stessi. Altrimenti non si sa dove dirigere l’attenzione. Tutti vogliono vincere, consista il premio in centinaia di migliaia di euro o in un aperitivo al circolo, e nel momento in cui s’inizia il primo scambio la tensione emotiva comincia a crescere e se non si agisce per controllarla, già al primo 15-0 per l’avversario si avrà l’occasione di iniziare a tormentarsi, distraendosi dal gioco. Il tennis mette a dura prova le convinzioni di ognuno: non si può pareggiare come nel calcio, non si può scaricare la responsabilità sui compagni di squadra, non si può incolpare il destino, sono infatti troppi i colpi che bisogna mandare fuori per perdere una partita. Bisogna accollarsi la responsabilità di come si sta giocando e ragionare per fare qualcosa di diverso sin dai primi momenti di caduta dell’attenzione.

La questione è, quindi, fare qualcosa diverso, facile a dirsi quando si guarda qualcun altro giocare ma più difficile quando si deve applicare questa semplice regola a se stessi. Questo atteggiamento positivo lo si costruisce innanzitutto diventando il principale tifoso di sé e non il principale denigratore. Il tennista dopo un errore deve fare sempre due cose per ritornare a essere focalizzato sul gioco: incoraggiarsi + darsi una semplice istruzione tecnica che permetta di evitare di ripetere l’errore precedente. Solo in tal modo sarà concentrato sul gioco. La partita è come una battaglia, in cui per sopraffare il nemico bisogna avere fiducia nelle indicazioni ricevute dal proprio comandante, che in questo caso siamo noi stessi. Certamente ci possono essere eccezioni a questo modo di agire ma proprio perché tali devono essere rare. Quindi incoraggiarsi è necessario per mantenere un livello elevato di concentrazione e di controllo delle emozioni mentre l’istruzione tecnica serve a indicare al tennista cosa/come fare per spendere in modo efficace questa energia mentale.

Se in campo non si dimostra un atteggiamento di questo tipo, la mente del tennista sarà come una barca a vela senza il timoniere, preda cioè del gioco dell’avversario. AI tennisti suggerisco di stabilire a priori una checklist di cose da fare e a cui prestare attenzione quando si trovano in difficoltà:

  1. Cosa fare quando la prima di servizio non entra.
  2. Cosa fare quando voglio concludere troppo in fretta il gioco.
  3. Cosa fare per ridurre la mia rabbia o delusione di quel momento.

Autismo e calcio

Questo semplice twitter di ieri ha avuto 2353 visualizzazione. E’ la foto di una riunione del nostro staff che discute il nuovo programma di allenamento per i bambini con disabilità intellettiva e in larga parte con autismo, per migliorarne gli apprendimenti motori e insegnare il calcio.

L’interesse che ha suscitato dimostra come il tema della pratica sportiva per questi bambini (6-13 anni) è di attualità, sono pochi quelli che sono coinvolti con regolarità nello sport, non sappiamo in realtà quanti siano, con che frequenza e quali attività svolgano. I dati delle ricerche dimostrano che, in generale, questi bambini praticano sport individuali, in prevalenza corsa e nuoto. Sono estremamente rari i programmi che li vedono coinvolti nelle scuole calcio, poiché richiedono la presenza di allenatori e psicologi competenti. Spesso il calcio è sconsigliato in quanto questi bambini vengono inseriti in gruppi con giovani con sviluppo tipico e con allenatori che non hanno tempo e competenze per potersi dedicare a loro.

Roma Cares, la Roma e l’Accademia di calcio integrato da 5 anni hanno ideato e realizzato il progetto “Calcio Insieme” che attualmente coinvolge 7o bambini con disabilità  intellettiva. Coinvolge uno staff composto da 10 allenatori, 5 psicologi dello sport, 1 logopedista, 1 medico, 1 responsabile dei rapporti con le famiglie e scuole, 1 responsabile tecnico e 1 responsabile scientifico. E’ un progetto complesso che vede i bambini coinvolti da ottobre a giugno per due volte alla settimana. I risultati ottenuti e pubblicati su riviste scientifiche hanno dimostrato miglioramenti significativi nelle aree motorie e in quelle dell’area psicosociale.