Archivio mensile per giugno, 2016

Elogio del camminare

Camminare è il primo desiderio di un bambino e l’ultima cosa che vorrebbe perdere un anziano. Camminare è un’attività che non richiede sforzi fisici. È la cura senza farmaci, il controllo del proprio peso senza dieta, ed è il cosmetico che non si trova in farmacia. È un rilassante senza pillole, una terapia senza psicanalista, ed è la vacanza che non costa nulla. Camminare è conveniente, non richiede particolari attrezzature, è adattabile ad ogni esigenza ed è un’attività intrinsecamente sicura. Camminare è naturale come respirare.

John Butcher, fondatore di “Walk21”

Lo stato ponderale del bambino risulta correlato con quello dei genitori. Infatti, quando almeno uno dei due genitori è in sovrappeso il 22,2% dei bambini risulta in sovrappeso e il 5,6% obeso. Quando almeno un genitore è obeso il 30,7% dei bambini è in sovrappeso e il 13,3% obeso. Questi dati del Ministero della Salute si riferiscono alla provincia di Modena, in molte altre Regioni il trend è ancora più negativo.

 

Martin Ashton, ora paraplegico, ritorna come trial biker

Martyn Ashton era un fortissimo trial biker che in seguito ad una caduta, tre anni fa, è diventato paraplegico, costretto in carrozzella.

I suoi amici, tra cui Danny MacAskill, hanno aiutato Martyn a costruire uno speciale seggiolino, ancorato al canotto della bici, che gli ha permesso di guidare la bici in discesa, e sentirsi – ancora una volta – un biker.

Questo bellissimo video, oltre ad essere emozionante, è un ottimo incentivo a chi vorrebbe, ma non se la sente, per un motivo o per l’altro, serio o non serio. Guardate ed emozionatevi per il rientro in bici di Martyn.

 

 

La mentalità delle squadre secondo Desmond Morris

In questo mese è stato nuovamente pubblicato il libro del 1981 dell’antropologo Desmond Morris “La tribù del calcio”. Uno dei temi del libro riguarda il significato e la funzione dei goal, a cui ho dedicato un’indagine svolta su quattro campionati europei, di cui riporto parte dell’introduzione.

 

Nel gioco del calcio segnare o subire una rete rappresenta l’apice del gioco di una squadra e esercita una notevole influenza sulla fiducia e sulle emozioni delle due squadre. E’ l’evento più importante della partita. Già trenta anni fa l’antropologo Desmond Morris, nel suo libro dedicato all’analisi del calcio come fenomeno tribale, scriveva:

“Una delle qualità che rendono i goal tanto importanti è la loro rarità. Nel calcio professionistico moderno il punteggio più frequente di una squadra al termine dei novanta minuti di gioco è uno. O zero … ogni squadra ha poco più di un migliaio di contatti con la palla per partita. Il che significa che un giocatore che colpisce la palla ha meno di una possibilità su mille di segnare. Non c’è da stupirsi quindi se, quando questo accade, la reazione è così potente. Non c’è da stupirsi se quel raro esemplare che è il goleador o cannoniere venga elevato, nel folklore tribale, al piedistallo di un vero e proprio eroe” (1981, p.104).

Inoltre, analizzando i 9000 goal effettuati tra aprile 1978 e novembre 1980 in partite di campionato e di coppa inglesi, Morris trovò che la loro frequenza aumentava con il passare del tempo. Erano circa 5000 i goal segnati nel secondo tempo, di cui 1800 erano stati messi a segno negli ultimi 15 minuti della partita, evidenziando globalmente che la probabilità di segnare aumentava col procedere della partita.

In conclusione questa indagine è un omaggio alle idee innovative che Morris propose trenta anni fa e che restano attuali anche se le condizioni socioeconomiche che attraversa il gioco del calcio oggi sono diverse da quelle degli anni ’70. Il significato e la funzione dei goal sono rimasti comunque gli stessi, anzi l’importanza di vincere nonché le aspettative delle società e dei tifosi si sono fortemente ingigantite.

Pertanto studiare quando vengono segnate le reti, al di la del suo valore statistico, permette di aprire uno squarcio sulla mentalità delle squadre e sul loro modo di condurre la partita.

Infine, Morris evidenziò un altro fattore rilevante e cioè che le difese si erano nel tempo mostrate più efficaci nel fermare gli attaccanti, di quanto questi ultimi fossero progrediti nell’incrementare il numero di goal. A tale riguardo nella Lega inglese nel 1960 venivano segnate annualmente circa 7000 reti, nel 1965 scendevano a 5800, nel 1970 a 5100, e questo numero con fluttuazioni di anno in anno si mantenne stabile sino al 1979 (anno in cui venne svolta l’indagine).

Il significato del mettere a segno una rete ha molte spiegazioni:

-          “… i cacciatori diventano calciatori, l’arma è la palla e la preda è porta” (Morris, 1981, p. 15)

-          “immaginarla come una specie di guerra in miniatura … Quello che conta è proprio la differenza tra il numero di goal segnati dalle due squadre … il risultato finale si ricollega invece al simbolismo della battaglia” (p. 17-18).

-          “Se la squadra di casa vince una partita, i tifosi locali possono vantare un’importante vittoria anche in campo psicologico e sociale … Non c’è disgrazia peggiore per le tribù della retrocessione: in caso di retrocessione la perdita del prestigio sociale è talmente grande che la squadra si autopunisce con un sacrificio simbolico: in genere licenziando l’allenatore” (p. 22-23).

-          “E’ importante ripetere una volta per tutte che non esistono dubbi circa il significato religioso di una partita di calcio … il cittadino è sempre più affamato di occasioni di incontro di massa, in cui può vedersi o essere visto come facente parte di una comunità” (p.23).

-          “Ogni partita di calcio è un’impresa commerciale preceduta da molta pubblicità” (p.27).

In conclusione questa indagine è un omaggio alle idee innovative che Morris propose trenta anni fa e che restano attuali anche se le condizioni socioeconomiche che attraversa il gioco del calcio oggi sono diverse da quelle degli anni ’70. Il significato e la funzione dei goal sono rimasti comunque gli stessi, anzi l’importanza di vincere nonché le aspettative delle società e dei tifosi si sono fortemente ingigantite.

Pertanto studiare quando vengono segnate le reti, al di la del suo valore statistico, permette di aprire uno squarcio sulla mentalità delle squadre e sul loro modo di condurre la partita.

Quanto coinvolgi i tuoi atleti?

Conosci il tuo modo di allenare?

Quanto coinvolgi i tuoi atleti nel volere migliorare?

 

L’allenamento intenzionale e la deliberate practice secondo Anders Ericsson

Il nuovo libro di Anders Ericsson intitolato “Peak – Secrets from the new science of expertise“  ridefinisce più precisamente rispetto al passato cosa si debba intendere per deliberate practice ovvero allenamento intenzionale.  Come sappiamo questo approccio è determinante nel favorire lo sviluppo di quelle abilità che in molti campi determinano prestazioni di livello eccezionale.

Per cui la deliberate practice:

  • sviluppa quelle abilità che già in passato altre persone hanno manifestato e per cui è stata definita una forma specifica di allenamento, proposta da un allenatore
  • si manifesta quando un individuo si trova al di fuori della sua zona di comfort e l’allievo è impegnato in attività che sono superiori al suo livello di abilità  richiedono un impegno quasi massimale
  • è definita in relazione a obiettivi specifici e ben definiti, organizzati in programmi di lavoro
  • è un’attività volontaria che richiede la completa attenzione della persona e azioni consapevoli
  • comprende feedback e modificazioni nell’impegno in risposta a questi feedback
  • produce e dipende dalle rappresentazioni mentali di quanto deve essere svolto
  • comporta la modificazione di quanto sinora appreso e pone l’accento su cosa s’intende migliorare