La idee di Ezio Glerean su come salvare il calcio

Siamo di fronte a un pallone italiano perniciosamente contaminato?
«Siamo diventati poveri e non vogliamo ammetterlo. Tanti miei colleghi che allenano anche in B, mi confessano che vorrebbero scapparsene all’estero anche domani, perché qui non c’è futuro. Non ci sono più i campioni, siamo fermi a Totti e Del Piero e questo per un problema di educazione. In Spagna vincono tanto perché ci sono talenti ben educati fin dalla scuola calcio. Qui da noi, le scuole sono tutte da ripensare».

Trovato il problema alla radice, ma la soluzione?
«Meno campus a pagamento per le ambizioni dei genitori e più “campi etici” in cui insegnargli fin da bambini una regola fondamentale: si gioca e si sta assieme per divertirsi e non per fare o diventare dei “numeri” di questo pallone tritatutto».

Tregua: siamo arrivati al si salvi chi può?
«No, si può ancora sperare se si decide di seguire la direzione di Cesare Prandelli. Il ct azzurro è l’unico che con il suo calcio, fatto prima di tutto di piacere di giocare, di educazione e di rispetto delle regole, continua a mascherare le tante falle del nostro sistema».

Una filosofia la sua, che forse nessun presidente sarebbe disposto a sposare.
«Uno sì, ma purtroppo non c’è più. Era Angelo Gabrielli, il presidente del mio Cittadella. Conservo ancora una ventina di lettere di quell’uomo straordinario e le più belle sono quelle che mi ha scritto dopo le sconfitte. Qualcuna finirà nel libro che sto scrivendo (editore Mazzanti, ndr) e spero tanto che le leggano e facciano riflettere quei dirigenti e procuratori che stanno rovinando il gioco».

Lei insiste sul concetto di “gioco”, non è il caso forse che ricominci con l’allenare dei ragazzini.

«Se c’è un progetto serio ed educativo io sono disposto a ricominciare anche dall’ultimo gradino del dilettantismo. Ma prima vorrei vedere un Paese in cui si gioca a calcio nelle scuole e durante l’orario didattico. Vorrei campionati giovanili alla luce del sole e non con gare disputate sotto i riflettori o con i campi ghiacciati, solo per illuderli che a 10 anni sono già dei professionisti. Vorrei vedere giocare tutti nella stessa squadra: bravi e scarsi, ricchi e poveri, ragazzini sani e quelli con handicap, e farlo con il sorriso. Perché ciò che manca sopra ogni cosa in questo sport è la gioia, il sorriso».

Ma chi può ridare il sorriso a questa generazione?
«Servono dei maestri, come quelli che ho avuto io. Gino Costenaro che ci venne a cercare a scuola per portarci nella sua squadra “oratoriale” a Portogruaro. Poi, da lì, mi ha messo tra le braccia di Luisito Suarez che allenava la Primavera del Genoa. Suarez arrivava nello spogliatoio elegantissimo con le scarpette legate in spalla e ci diceva: “Le vedete? Sono lucidissime e da sempre me le pulisco da solo. È anche per questo che sono arrivato fino al Pallone d’Oro”. Se gli insegniamo queste piccole cose, come pensare da soli alle proprie scarpe da calcio, allora forse questi ragazzi potranno ancora coltivare grandi sogni in campo, e magari anche nella vita».

(da Avvenire.it, di Massimiliano Castellani)

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