Archivio mensile per novembre, 2013

Obiettivi della consulenza psicologica

Obiettivi principali della consulenza psicologica nello sport di alto livello

  • Sviluppo/miglioramento competenze psicologiche atleti per affrontare le gare
  • Valutazione psicologica atleti
  • Consulenza per allenatori su aspetti specifici di loro interesse
  • Soluzioni problemi di singoli atleti che i tecnici non sanno come fronteggiare
  • Collaborazione nella gestione del gruppo al di fuori allenamento
  • Sostegno ad atleti e allenatori durante la competizione
  • Gestione dello stress agonistico di atleti, tecnici e staff
  • Miglioramento benessere atleta e vita extra-sportiva
  • Gestione psicologica infortuni

Cosa vogliono i ragazzi

Il problema dei ragazzi di oggi è che a differenza delle ragazze non sanno esprimere le emozioni e non parlano dei loro problemi. Questa difficoltà è ben espressa in queste parole: “Ho una sorella più piccola che ha 15 anni e i miei genitori danno molta più attenzione ai suoi sentimenti, perchè qaundo una ragazza è triste non ha paura di mostrarlo. E i ragazzi, quando viene il momento di dire qualcosa, non sanno come farlo”. Rosalind Wiseman  10 anni fa aveva scritto un libro sui problemi delle ragazze e ora dopo aver visitato centinaia di scuole medie e superiori, ha scoperto che i genitori non sono i soli ad avere bisogno di una guida anche i ragazzi hanno lo stesso bisogno, in un’epoca in cui le linee tra privato e pubblico sono sfocate e talvolta tra “sì” e “no. «Così ha scritto The Guide: per i ragazzi che si può scaricare gratuitamente come e-book.

Non sorprende che, nei suoi colloqui con gli adolescenti, Wiseman abbia scoperto che uno degli argomenti più popolari riguardava le dinamiche sociali ed etiche dei rapporti interpersonali. Quindi, sulla base di queste conversazioni, ha descritto un modo di procedere con le ragazze che non porti alla distruzione  delle amicizie.

Leggi di più: Hook-Ups, Friendships and the New Rules of ‘Dibs’ for Teen Boys | TIME.com http://healthland.time.com/2013/11/21/hook-ups-friendships-and-the-new-rules-of-dibs-for-teen-boys/#ixzz2m8ynp268

Perchè non allenare a pensare?

Perchè non allenare a pensare i giovani che fanno sport. In che misura l’allenamento prevede che un atleta (ma anche un bambino) rifletta su ciò che sta facendo? Quanti sono gli allenatori che al termine di un’esercitazione chiedono “Cosa hai fatto? Come avresti potuto fare meglio?” Che siano proprio queste le domande o altre non importa; ciò che conta è spendere del tempo a domandare e sollecitare una più profonda consapevolezza in relazione all’esecuzione tecnica. Un’altra riflessione: gli allenatori ritengono che parlare con i propri allievi sia utile per favorire l’apprendimento? Oppure credono che sia una perdita di tempo, perchè gli atleti non sono ancora sufficientemente bravi per capire e quindi è meglio che eseguano e basta? Quante volte ci si è confrontati su questo tema con altri colleghi? E’ importante allenare e sviluppare la consapevolezza negli atleti? La mia impressione è che questo sia un argomento di cui si parla troppo poco, perchè la metodologia dell’allenamento è dominata dalla fisiologia, dalla biomeccanica e dalla medicina, discipline che non s’interrogano sugli aspetti mentali (cognitivi e emotivi) e sociali dell’apprendimento motorio. Finchè non vi sarà una concezione unitaria dell’individuo, gli allenatori continueranno ad agire ignorando in larga il ruolo del pensiero nell’insegnamento sportivo.

Lo sport tollera a malapena i genitori

Lo sport può diventare una forma di realizzazione importante per un giovane che ne sia appassionato così come la musica o l’arte in genere. I genitori sono un fattore fondamentale per la realizzazione di questo desiderio. Lo dicono gli stessi atleti di livello assoluto. Il sostegno della famiglia è fra i tre fattori determinanti il successo, essendo gli altri due la motivazione personale e il sostegno di allenatori eccellenti. Al contrario le organizzazioni sportive non fanno niente per valorizzare il contributo dei genitori, anzi sono spesso visti come elementi fastidiosi da mettere ai margini. Quello che viene dimenticato è che se non ci fossero genitori disposti a sostenere le scelte dei propri figli probabilmente in Italia non ci sarebbe lo sport. I genitori infatti sostengono economicamente l’attività dei figli, fanno da tassisti e modificare la loro vita in funzione degli impegni sportivi. E’ chiaro che vi sono anche quei genitori che sono un danno per i giovani e che vanno emarginati e condannati, ma la maggior parte non è di questo tipo. Sono convinto che andrebbe posta più attenzione da parte delle organizzazioni sportive al coinvolgimento dei genitori, non viene fatto e così si perdono delle preziose risorse.

Formazione in psicologia dello sport

Spesso ricevo email di giovani psicologi che vogliono lavorare nello sport e mi chiedono quale possa essere il percorso formativo migliore. Quello di Roma in cui ero coinvolto nella direzione non è attualmente attivo e non so se si saranno ulteriori edizioni. Ve ne sono altri in cui intervengo come docente ma non so francamente affermare quanto siano validi perchè non conosco i docenti, non so quale sia la proposta di tirocinio e il tempo speso da chi lo dirige nel guidare questo tipo di formazione. Non voglio però neanche frustrare le aspettative di questi giovani colleghi nel non dare loro una risposta. Ecco quindi alcune indicazioni.

La psicologia dello sport è una disciplina molto variegata che può riguardare interventi nello sport di prestazione ma anche interventi nello sport per tutti e nella promozione del movimento come forma di benessere, inoltre riguarda tutte le fasce di età dai bambini della scuola elementare sino agli anziani. In generale, il laureato in psicologia non sa cosa sia la psicologia dello sport; se è stato un atleta a livello amatoriale o  di alto livello può fare riferimento alla sua esperienza diretta oppure sa quello che quello che i media trasmettono, ma non possiede una conoscenza della materia. 

Prima attività da effettuare per chi fosse interessato è di documentarsi leggendo non libri divulgativi bensì manuali di psicologia dello sport, ne trova in italiano ma deve assolutamente leggerne in inglese per sapere cosa studiano i suoi colleghi di altri paesi. La Human Kinetics è la principale casa editrice a cui fare riferimento.

Seconda attività da effettuare è studiare l’apprendimento motorio che è alla base di ogni forma di apprendimento che si tratti d’imparare i movimenti di base (camminare, correre, saltare, lanciare) o movimenti sportivi specifici. Questo tipo di conoscenza non fa parte del corso di studi degli psicologi, mentre è importante per potere capire in che modo gli aspetti cognitivo- emotivi intervengono nelle varie fasi dell’apprendimento.

L’acquisizione di queste conoscenze non trasforma in psicologi dello sport ma permette di capire cosa sia questa disciplina e se veramente questa materia c’interessa o siamo stati abbagliati dalla fantasia di seguire atleti famosi e di fare in qualche misura la loro vita.

In sostanza leggete e poi leggete ancora in modo da costruirvi una solida base teorica. A questo punto è utile l’osservazione di allenatori al lavoro, se avete questa opportunità sfruttatela per capire come si comportano e l’interazione fra loro e gli allievi.

Infine, andate sul sito della Divisione 47 dell’American Psychological Association troverete dei gruppi a cui potete iscrivervi e cominciare a scambiare informazioni e magari chiedere dove andare a fare esperienze di tirocinio o di studio in Europa o in Nord America.

Questi sono alcuni suggerimenti che mi auguro possano essere utili.

La piramide dell’attività motoria

Che in Italia si faccia poca attività fisica a scuola e che non vi sia un progetto globale per risolvere questo problema è un dato di fatto. Ancora una volta la soluzione del problema è solo sulle spalle delle famiglie che spesso non hanno una consuetudine con lo sport attivo e tantomeno con il movimento. L’unione di queste due difficoltà determina un abbandono precoce dello sport da parte delle bambine già a partire dalla scuola media, che nei maschi si sposta due/tre anni più avanti. Di fatto a 15 anni meno del 50% dei giovani pratica sport in modo continuativo. La Società Italiana di Pediatria in occasione della Giornata mondiale del bambino e dell’adolescente ha presentato la Piramide dell’Attività Motoria che illustra le caratteristiche di uno stile di vita attivo e salutare.  Purtroppo è un tema di cui non viene percepita l’importanza dai politici ma anche dai cittadini e per il quale mostrare con dati che la sedentarietà è la causa di molte malattie non è stato sinora sufficiente a darle importanza rispetto al dato che fumare fa venire il cancro, di cui invece la maggior parte delle persone è convinta.

Una storia poco conosciuta: la rivalità fra Jesse Owens e Eulace Peacock

Recentemente Sport Illustrated ha pubblicato la storia della rivalità tra un mito dello sport, lo sprinter Jesse Owens e un altro sprinter americano Eulace Peacock nato anche lui in Alabama e di un anno più (1914). Nel 1933 Peacock stabilì il record nazionale scolastico nel salto in lungo, tornando a casa sentì alla radio che un altro ragazzo, che si chiamava Owens, aveva però stabilito il nuovo record del mondo. Era la prima volta che sentiva quel nome.  Peacock non si qualificherà per le Olimpiadi Berlino a causa di alcuni infortuni che ne rallentarono la preparazione, gareggiò 10 volte contro Owens, 5 volte vinse e 5 volte perse. Leggete questa storia straordinaria.

Cresce lo stress da lavoro

Ansia da prestazione, agitazione, nervosismo sono sensazioni che colpiscono il 40% degli italiani sul posto di lavoro. Disagi che nascono dallo stress, il secondo tra i problemi di salute legato all’attività lavorativa. Una tensione dovuta alla competizione, ai ritmi incalzanti, alla paura di sbagliare e per i tanti precari anche al timore di perdere il posto. Negli stati dell’Unione europea, lo stress da lavoro correlato colpisce quasi una persona su quattro e costa 25 miliardi di euro, anche perché più della metà delle giornate lavorative perse è dovuta a stress

Per sette lavoratori italiani su dieci italiani le cause più comuni di stress sono legate alla riorganizzazione del lavoro o al carico di lavoro e delle ore di lavoro. Dati allarmanti che emergono da uno studio del consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi, pubblicato nel libro Rischio stress lavoro correlato.

Emerge che oltre sei lavoratori italiani su dieci indicano fra le cause di stress anche la mancanza di sostegno da parte dei colleghi o superiori e comportamenti inaccettabili come il bullismo, le molestie o legano lo stress a ruoli e responsabilità poco chiare.

Fra le categorie più a rischio ci sono gli infermieri, gli addetti ai call center o agli uffici reclami, gli autotrasportatori. “Adottando il giusto approccio – spiega Giuseppe Luigi Palma, presidente del consiglio nazionale degli psicologi – i lavoratori e le aziende possono vincere la battaglia contro lo stress che, quando legato all’attività lavorativa, è prevenibile e l’azione condivisa volta a contenere tale problema può essere molto incisiva”. Il libro Rischio stress lavoro correlato  presenta un’ampia casistica sul tema. Circa la metà dei lavoratori in Europa (51%) ritiene che lo stress da lavoro sia comune nel proprio luogo di lavoro. Le lavoratrici sono più propense a considerarlo un fenomeno comune (54% contro il 49%). La percezione dello stress da lavoro varia anche a seconda del settore: il primo settore a indicare i casi di stress legato al lavoro come un fenomeno comune è quello sociosanitario (61%, compreso il 21% che ritiene che tali casi siano “molto comuni”).

La idee di Ezio Glerean su come salvare il calcio

Siamo di fronte a un pallone italiano perniciosamente contaminato?
«Siamo diventati poveri e non vogliamo ammetterlo. Tanti miei colleghi che allenano anche in B, mi confessano che vorrebbero scapparsene all’estero anche domani, perché qui non c’è futuro. Non ci sono più i campioni, siamo fermi a Totti e Del Piero e questo per un problema di educazione. In Spagna vincono tanto perché ci sono talenti ben educati fin dalla scuola calcio. Qui da noi, le scuole sono tutte da ripensare».

Trovato il problema alla radice, ma la soluzione?
«Meno campus a pagamento per le ambizioni dei genitori e più “campi etici” in cui insegnargli fin da bambini una regola fondamentale: si gioca e si sta assieme per divertirsi e non per fare o diventare dei “numeri” di questo pallone tritatutto».

Tregua: siamo arrivati al si salvi chi può?
«No, si può ancora sperare se si decide di seguire la direzione di Cesare Prandelli. Il ct azzurro è l’unico che con il suo calcio, fatto prima di tutto di piacere di giocare, di educazione e di rispetto delle regole, continua a mascherare le tante falle del nostro sistema».

Una filosofia la sua, che forse nessun presidente sarebbe disposto a sposare.
«Uno sì, ma purtroppo non c’è più. Era Angelo Gabrielli, il presidente del mio Cittadella. Conservo ancora una ventina di lettere di quell’uomo straordinario e le più belle sono quelle che mi ha scritto dopo le sconfitte. Qualcuna finirà nel libro che sto scrivendo (editore Mazzanti, ndr) e spero tanto che le leggano e facciano riflettere quei dirigenti e procuratori che stanno rovinando il gioco».

Lei insiste sul concetto di “gioco”, non è il caso forse che ricominci con l’allenare dei ragazzini.

«Se c’è un progetto serio ed educativo io sono disposto a ricominciare anche dall’ultimo gradino del dilettantismo. Ma prima vorrei vedere un Paese in cui si gioca a calcio nelle scuole e durante l’orario didattico. Vorrei campionati giovanili alla luce del sole e non con gare disputate sotto i riflettori o con i campi ghiacciati, solo per illuderli che a 10 anni sono già dei professionisti. Vorrei vedere giocare tutti nella stessa squadra: bravi e scarsi, ricchi e poveri, ragazzini sani e quelli con handicap, e farlo con il sorriso. Perché ciò che manca sopra ogni cosa in questo sport è la gioia, il sorriso».

Ma chi può ridare il sorriso a questa generazione?
«Servono dei maestri, come quelli che ho avuto io. Gino Costenaro che ci venne a cercare a scuola per portarci nella sua squadra “oratoriale” a Portogruaro. Poi, da lì, mi ha messo tra le braccia di Luisito Suarez che allenava la Primavera del Genoa. Suarez arrivava nello spogliatoio elegantissimo con le scarpette legate in spalla e ci diceva: “Le vedete? Sono lucidissime e da sempre me le pulisco da solo. È anche per questo che sono arrivato fino al Pallone d’Oro”. Se gli insegniamo queste piccole cose, come pensare da soli alle proprie scarpe da calcio, allora forse questi ragazzi potranno ancora coltivare grandi sogni in campo, e magari anche nella vita».

(da Avvenire.it, di Massimiliano Castellani)

Levison Wood parte per percorrere le 4.250 miglia del Nilo

Il 25 novembre l’inglese Levison Wood inizia il suo tentativo di diventare la prima persona a camminare tutta la lunghezza del fiume Nilo, dalla sorgente al mare. Affrontare le montagne in Ruanda, la foresta pluviale tropicale in Uganda, le paludi (più grandi al mondo) in Sud Sudan la savana, boscaglia e il deserto del Sahara, conflitti politici. Si propone di percorrere le 4250 miglia in 12 mesi. Il suo percorso lo porterà attraverso 7 paesi africani (Ruanda, Burundi, Tanzania, Uganda, Sud Sudan, Sudan e Egitto). Il viaggio inizia il 1 ° dicembre in Ruanda. “E ‘stata una vera sfida trovare il finanziamento, e si sta tutto realizzando all’ultio momento, ma non posso lamentarmi, almeno me ne vado”. (Di Correne Coetzer)