Ho lavorato in multinazionali in cui i manager inviati in altri paesi venivano formati da psicologi e antropologi sulla necessità di comprendere la cultura e la mentalità del paese e delle persone che avrebbero dovuto guidare e questo non certo per buonismo, ma per consentire il migliore e più rapido inserimento del manager in un nuovo ambiente psicologico e sociale. Significa volere comprendere il punto di vista degli altri allo scopo di massimizzare le proprie prestazioni. Avviene anche nello sport di livello internazionale o professionistico che sono ambiti in cui s’incontrano individualità e gruppi tra loro anche molto diversi? Direi di no! Alcuni esempi. Il nuovo allenatore della Roma: è pronto a dare un ruolo a Totti, conoscendone l’influenza sulla squadra e sui tifosi, portandolo a svolgere un ruolo positivo per la squadra. Questo richiederebbe la conoscenza della mentalità di un calciatore che non è mai voluto andare via da Roma. Ciò non vuole dire farlo giocare, bensì conoscere per servirsene: non credo venga fatto. Secondo, la IAAF, in relazione alla decisione di squalificare un atleta dopo una partenza falsa, ha mai chiesto ai diretti interessati: direi di no. Infine, Bolt si è mai chiesto come convivere felicemente con il suo obbligo di vincere a ogni costo: direi di no. Esperti in relazioni umane avrebbero potuto fornire loro informazioni e conoscenze tali da farli decidere per il meglio, limando i personali egocentrismi e la presunzione di avere sempre una risposta giusta per la semplice ragione che si occupa un ruolo importante.
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